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![]() NOTIZIE EST #225 - JUGOSLAVIA/KOSOVO 15 maggio 1999 LA NATO E LA CATASTROFE BALCANICA di Spomenka Lazic - (AIM Podgorica, 11 maggio 1999 - dal corrispondente da Belgrado) Il bilancio dei bombardamenti aerei della NATO contro la federazione jugoslava è il seguente: secondo il ministero jugoslavo degli affari esteri Zivadin Jovanovic, sono morti circa 1200 civili; secondo l'UNHCR, più di 800.000 persone del Kosovo, per la grande maggior parte albanesi, sono state scacciate dal proprio paese; in Serbia sono state distrutte molte fabbriche e infrastrutture, lasciando almeno 500.000 persone senza lavoro; quelle che vengono definite società civile e opposizione democratica sono state ridotte in questo paese in polvere e cenere; la regione è destabilizzata in misura tale che nessuno sa cosa succederà domani... Quello che era l'intervento cominciato per costringere la Belgrado ufficiale a firmare il piano di Rambouillet per la soluzione dello status del Kosovo, dopo più di un mese è diventato fine a se stesso. Invischiata nel peggior modo possibile in una piccola e sporca guerra balcanica, la NATO è diventata qualcosa di simile alle parti belligeranti nella ex Jugoslavia dal 1991-1995: le distruzioni e le morti civili si moltiplicano, mentre una soluzione la si individua nel compromesso con i principali responsabili degli spargimenti di sangue, al fine di raggiungere un accordo che tutti potranno definire una vittoria. Che l'intervento non avrebbe potuto in alcun modo finire bene era evidente fin dal suo inizio. La NATO disponeva di dati, resi pubblici, secondo cui l'esercito jugoslavo prima ancora degli attacchi aerei stava concentrando grandi forze ai confini con il Kosovo. Negli stessi circoli era altrettanto noto che l'Esercito di Liberazione del Kosovo in nessun modo avrebbe potuto fare fronte all'esercito e alla polizia serbi - si tratta di un'organizzazione paramilitare non addestrata, indisciplinata, divisa al suo interno, che non aveva nemmeno l'appoggio della maggior parte degli albanesi del Kosovo. Nonostante questo, gli attacchi aerei della NATO sono cominciati con un bombardamento delle istallazioni dell'Aviazione militari e della contraerea dell'esercito jugoslavo che non ha impedito in nessun modo a quest'ultimo di regolare i conti fino in fondo sul terreno con l'UCK. Anche se i comandanti dell'UCK speravano che in seguito ai bombardamenti sarebbero riusciti a conquistare almeno qualche importante città del Kosovo, dichiarandovi l'indipendenza, non ci vuole molto buon senso per comprendere quello che, nella migliore tradizione dei conflitti balcanici, è accaduto. Le immagini di centinaia di migliaia di profughi albanesi - scacciati o fuggiti dalle operazioni di guerra, non importa - hanno potuto sorprendere solo coloro che non hanno conosciuto, o hanno dimenticato, come sono finite le grandi offensive nel corso della guerra in Croazia e in Bosnia. E ancora qualcosa: i generali della NATO si sono meravigliati in questo periodo della "non attività" della difesa antiaerea jugoslava. Sembra che i sistemi antiaerei di tipo vecchio dell'esercito jugoslavo - indicati come un obiettivo prioritario dell'aviazione dell'Alleanza - abbiano svolto il ruolo di ombrello sotto il quale Belgrado ha difeso un obiettivo militare e politico molto importante - il pieno controllo della provincia. Oltre a questo, la difesa antiaerea jugoslava è riuscita, con manovre incessanti e con diverse mosse tattiche, non solo a resistere, ma anche a conservare le funzioni per le quali ci sono possibilità reali. La NATO, allora, dopo l'obiettivo proclamato in origine di impedire una catastrofe umanitaria, ha proseguito con attività il cui obiettivo principale, a quanto si afferma, è quello di costringere le forze dell'esercito e della polizia jugoslava a ritirarsi dal Kosovo. In breve, si sono colpiti le industrie e le infrastrutture della Serbia, poi sono volati in aria i ponti, le fabbriche, i ripetitori, gli edifici civili, quelli della televisione di stato, e il numero delle vittime civili è andato aumentando di giorno in giorno, accompagnato da giustificazioni infantili e ciniche. Sono state due, evidentemente, le idee alla base di questo comportamento. La prima è la creazione nel paese di una situazione così insopportabile, che l'unica soluzione sarebbe la distruzione del regime di Milosevic o la sua dipartita. E la seconda: anche nel caso in cui ciò non dovesse funzionare, la Serbia e il Kosovo, dopo distruzioni che non avrebbero lasciato pietra su pietra, sarebbero diventati facile preda per le forze di terra della NATO, perché, semplicemente, la Jugoslavia non avrebbe potuto opporvisi in maniera organizzata. Tuttavia, tutti coloro che hanno vissuto sulla propria pelle i bombardamenti, e si tratta della maggior parte dei cittadini della Serbia, indipendentemente dalla loro posizione nei confronti dell'attuale regime, difficilmente in una situazione in cui sono rimasti senza una casa e senza lavoro possono avere idee di rivolta. Indubbiamente, per loro l'intervento della NATO è una guerra aggressiva e ingiusta contro la popolazione e alla quale bisogna resistere; nello stesso contesto, gran parte dell'opinione pubblica ritiene che non sia in gioco il destino di Milosevic, bensì la punizione di un intero popolo. Questa posizione viene ulteriormente accentuata dal fatto che il regime cerca anch'esso, da parte sua, di impedire che venga articolata qualsiasi posizione diversa dalla sua. La vita politica al di fuori delle strutture del governo praticamente non esiste più e i media sono sotto pieno controllo in virtù dello stato di guerra che è stato dichiarato. Il proseguimento di qualsiasi atto di distruzione contro la Serbia al fine di consentire l'entrata delle truppe di terra avrebbe tutte le caratteristiche di una catastrofe senza precedenti. L'esercito jugoslavo non ha risentito seriamente delle azioni finora condotte dalla NATO, ma questo nel contesto dell'intera vicenda non è poi nemmeno importante. Il fare tornare la Serbia, con le bombe e i missili, alla "età della pietra" provocherebbe un cataclisma mai visto dalla Seconda guerra mondiale. La NATO, anche se dovesse mai riuscire a entrare nel paese, non sarebbe nient'altro che un occupatore: nulla di quello per cui l'intervento è stato deciso verrebbe risolto e si aprirebbero domande a cui non sarebbe possibile trovare risposte univoche. Nella situazione attuale, la NATO si è trasformata in un ulteriore attore della catastrofe balcanica e le sue mosse dipendono esclusivamente dalla congiuntura politica e dalla volontà di conservare le proprie posizioni. Molto meno di quello che richiede il buon senso. ALL'ORIZZONTE, PER L'UE, IL BUSINESS DELLA RICOSTRUZIONE di Reginald Dale - ("International Herald Tribune", 14 maggio 1999) WASHINGTON - Uno degli aspetti più vistosi della guerra in Kosovo è la maniera metodica con la quale gli aerei della NATO stanno distruggendo ponti, fabbriche e altri elementi chiave dell'infrastruttura economica della Jugoslavia, che l'Occidente dovrà indubbiamente aiutare nella ricostruzione una volta che le ostilità saranno terminate. Alla fine, proprio come è accaduto con la Germania dopo la Seconda guerra mondiale, o con la Germania Est dopo la Guerra fredda, la Jugoslavia emergerà con alcune delle strutture più moderne e all'avanguardia di tutta Europa. Ma è lontano dall'essere chiaro chi pagherà la parte del conto che verrà presentato ai governi occidentali. A Washington si fanno già sentire voci influenti le quali sostengono che, poiché gli Stati Uniti stanno pagando la maggior parte dei costi della guerra aerea, sarà l'Europa a dovere finanziare la pace. In questa nuova forma di suddivisione degli oneri, l'America tira giù le pareti e l'Europa paga per ricostruirle. Sarà importante mantenere un senso delle proporzioni - le somme necessarie non saranno poi così enormi. Secondo John Llewellyn, della Lehman Brothers di Londra, il costo annuale di una campagna aerea di due mesi, insieme alle successive spese umanitarie, dovrebbe ammontare a circa $20 miliardi. Un intervento di terra su piena scala probabilmente arriverebbe al massimo a raddoppiare questo costo - vale a dire che la spesa totale dei paesi della NATO sarebbe compresa solamente tra lo 01% e lo 0,2% della produzione economica lorda dell'alleanza, che ammonta a $17 trilioni. Secondo la stima di Llewellyn il danno economico totale arrecato ai capitali fissi della Serbia sarà all'incirca di $13 miliardi, e una parte significativa della ricostruzione sarà con ogni probabilità finanziata sui mercati mondiali dei capitali. Per fare un raffronto, la Germania Occidentale ha trasferito alla Germania Orientale in media $70 miliardi all'anno, e la somma di $13 miliardi rappresenterebe solo lo 0,3 per cento dei risparmi mondiali. Ma sarebbe tragico se il dibattito sulla ricostruzione si trascinasse stancamente in dispute attraverso l'Atlantico in merito ai costi, oppure nelle divergenze tra i paesi europei riguardo a quale piano di ricostruzione è il migliore. Mentre la discussione si sta avviando a livello europeo e internazionale, vi sono già segnali preoccupanti di tali lotte intestine. La verità è che la ricostruzione della Jugoslavia e dei paesi confinanti dopo la guerra offre all'Unione Europea un'opportunità fantastica per dimostrare quali sono realmente le sue possibilità. I paesi dell'UE hanno cominciato ad apprendere dall'esperienza del Kosovo un'importante lezione relativa alla sicurezza. Scioccati dall'entità della loro dipendenza militare dagli Stati Uniti, hanno concluso a ragione che devono fare di più per organizzare la propria difesa. [...] E' ancora troppo presto per dire che l'Unione Europea sarà in grado di fare fronte alla situazione. "Potremmo ancora risolvere le cose in modo davvero grande", ha detto un funzionario europeo. Ma se il tentativo fallisce, a essere distrutti non saranno stati solo i ponti della Jugoslavia, ma anche le credibilità dell'UE. |