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I Balcani


NOTIZIE EST #236 - JUGOSLAVIA/KOSOVO
28 maggio 1999


L'EUROPA ALLA GUIDA DI UN EVENTUALE INTERVENTO DI TERRA
di Lawrence Freedman - ("International Herald Tribune", 27 maggio 1999)


[In parallelo all'altro numero di "Notizie Est" di oggi pubblichiamo questo pezzo di un esperto militare britannico, che esprime a chiare lettere la visione di certi strateghi europei, non meno guerrafondaia di quella dei loro colleghi di Washington]

LONDRA - Anche se è stata negata ogni divisione interna all'alleanza, da un po' di tempo è chiaro che Tony Blair comprende la necessità di preparare un'offensiva di terra, mentre Bill Clinton è determinato a evitarla. La disputa va non solo al cuore del dibattito strategico sul Kosovo, ma ora comincia anche a influire sul dibattito più ampio relativo alla sicurezza europea.

Il Kosovo ha messo nuovamente in evidenza una verità dolorosa: gli europei sono troppo dipendenti dagli Stati Uniti per la loro sicurezza. Gli USA forniscono una quantità sproporzionata della potenza di fuoco di cui dispone la NATO (tre quarti dei velivoli attualmente in uso) e di conseguenza esercita un'influenza sproporzionata sulla strategia complessiva dell'alleanza. Tuttavia, l'America non ha, riguardo al risultato di una guerra europea, gli stessi interessi che hanno coloro che vivono nella regione.

Clinton ha deciso di combattere questa guerra in base al principio della sicurezza prima di tutto. In questo campo ha avuto un successo sorprendente - nessun pilota è stato perduto in combattimento. L'approccio mirato a evitare rischi è evidente non solo nel rifiuto di impegnare l'esercito USA, ma anche nella mancanza di una seria campagna aerea a bassa quota, che renderebbe possibile colpire con maggiore efficacia gli obiettivi giusti. Così l'alleanza ha un leader che non osa chiedere quello che è necessario per la vittoria, bensì solo quello che i politici dei vari paesi possono sopportare.

Se questo enorme sforzo militare ad alto costo e ad alta tecnologia fallirà, il presidente Clinton si troverà in imbarazzo e il prestigio americano ne sarà fortemente diminuito. Saranno però gli europei quelli che rimarranno a raccogliere i pezzi.

Nessuna patina retorica sarà in grado di nascondere il fallimento: centinaia di migliaia di profughi ammassati in campi vicino ai confini, troppo impauriti per tornare a casa e le cui fila vengono continuamente ingrossate da altri che fuggono dal dominio serbo; la Macedonia e l'Albania sono allo stremo sotto il peso di questa nuova responsabilità; il governo coraggioso e indipendente del Montenegro sta soccombendo a un colpo serbo; i governi amici nei Balcani rimangono disorientati - e vi è una crisi interna nella NATO.

La NATO ne rimarrà disabilitata, timorosa di compiere mosse militari di fronte a qualunque sfida alla sicurezza si presenterà in futuro. Sarebbe sbagliato sottostimare la capacità della NATO di continuare lungo la corrente linea, o la possibilità che Milosevic alla fine soccomba. Ma è difficile avere fiducia in una conclusione in tempi brevi o soddisfacente.

Gli argomenti a favore e contro una guerra di terra sono ormai diventati famigliari a tutti. I sostenitori puntano il dito contro i limiti della sola potenza aerea e la sua capacità di generare una serie di incidenti tragici. Coloro che dubitano mettono in guardia dagli enormi problemi logistici impliciti nel fare arrivare una forza sufficiente nell'area e del rischio di successivi aspri combattimenti.

Si dà troppo spesso per scontato che le operazioni di terra richiedano una leadership americana e un'offensiva militare in grande stile. Eppure dal momento in cui la NATO per la prima volta ha affrontato il problema del Kosovo, l'anno scorso, sono stati i britannici e i francesi quelli che hanno avuto sempre una migliore comprensione dell'importanza delle forze di terra per una sua risoluzione. E' stato perché erano frustrati dell'atteggiamento esitante dell'America che Tony Blair e Jacques Chirac hanno convenuto di comune accordo di cercare dei modi per rafforzare la capacità indipendente di difesa dell'Europa.

Invece di cercare di persuadere Clinton a cedere a una strategia di terra, Blair farebbe forse meglio a lavorare con il presidente Chirac e gli altri leader europei per metterne a punto una propria. Blair ha detto che Slobodan Milosevic non dovrebbe avere alcun veto su quando le forze NATO entreranno in Kosovo. E non lo dovrebbe avere nemmeno il presidente Clinton.

Questo aspetto non è stato certamente chiarito di molto dal piano di raddoppiare la prevista forza di pace portandola a 50.000 unità in conseguenza delle necessità aggiuntive che la guerra ha comportato per le operazioni di aiuto umanitario e di ricostruzione del Kosovo. Non è abbastanza per le vaste campagne di cui si è a più riprese parlato riguardo a un'offensiva di terra - ci vorrebbe una forza di 200.000 uomini, per esempio, per conquistare la Serbia propriamente detta con un'invasione lanciata a partire dall'Ungheria. Sarebbe qualcosa che non è né sensato né fattibile. Ma una forza di 50.000 rientra nei numeri necessari per una forza che riguardi il solo Kosovo, soprattutto se si presume che le unità serbe avranno perso di efficacia a causa della campagna aerea.

Il contingente che gli americani propongono di mettere a disposizione è di circa 7.500 uomini. Si tratta di un particolare di grande importanza politica, ma tali numeri non possono consentire agli Stati Uniti di avere un ruolo di leadership nella scelta dei tempi per l'entrata di questa forza in Kosovo e delle modalità della sua entrata. E' stato già convenuto che questa forza non avrà necessariamente bisogno del consenso di Belgrado, ma piuttosto di un "ambiente permissivo". E' necessario mettere a fuoco quale sarà il grado di resistenza organizzata che le forze serbe saranno ancora in grado di opporre.

All'interno della NATO vi è ampio consenso in merito al fatto che l'uso di forze di terra significa in pratica un movimento attraverso i confini, con la creazione di un'area in rapida espansione sotto il controllo alleato. In pratica, poiché sono già sul posto, si tratterebbe di una soluzione che vedrebbe in prima linea le truppe britanniche e francesi, con le forze tedesche probabilmente confinate a un ruolo più esplicitamente di mantenimento della pace. Uno degli aspetti in gioco è anche la quantità di combattimenti duri che una tale operazione implicherebbe. In quanto paesi che mettono a disposizione le forze d'avanguardia, la Gran Bretagna e la Francia avranno il diritto di insistere che siano le loro valutazioni dei rischi a essere prese particolarmente in considerazione con serietà. Una volta che sarà stato conquistato del territorio, sarà possibile creare delle basi locali per gli Harrier e per le operazioni degli elicotteri, nonché per l'entrata di rinforzi.

Più l'esercito jugoslavo si muoverà contro le forze di invasione, più si esporrà agli attacchi aerei. Le forze serbe potrebbero essere gradualmente respinte in misura sufficiente per creare un'opportunità per il rientro dei profughi nelle loro case. Ci sono degli evidenti rischi in una tale impresa, ivi incluso quello di un ampio numero di vittime tra i soldati occidentali e la prospettiva di incoraggiare una spartizione di fatto del Kosovo. Politicamente, sarà necessario convincere i macedoni e i greci, per non parlare dei tedeschi e degli italiani, che questa è la migliore tra una serie di cattive alternative.

Gli americani non dovranno porre obiezioni al fatto che gli europei si assumano le loro responsabilità e dovranno fornire per intero la copertura aerea necessaria (ivi inclusi gli elicotteri Apache). Questa operazione potrebbe non essere necessaria, ma più saranno cospicui i preparativi, più è probabile che Belgrado riceva un segnale che le faccia comprendere di non potere più semplicemente sperare che la campagna NATO diventi una vittima della sua evidente inconsistenza.

L'autore è professore di studi di guerra presso il King's College di Londra.