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![]() NOTIZIE EST #245 (1) - JUGOSLAVIA/KOSOVO 19 giugno 1999 DOPO LA GUERRA, UN'ALTRA GUERRA (1) di Andrea Ferrario Solo una settimana fa il sollievo per la cessazione dei bombardamenti della NATO sulla Jugoslavia e sul Kosovo era generale e condiviso non solo da chi vi si era opposto, ma anche dagli attori delle due guerre strettamente interconnesse, quella della Serbia contro la popolazione albanese del Kosovo e quella, aggiuntasi da fine marzo, della NATO contro la federazione jugoslava. Questo sollievo tuttavia è durato ben poco. A soli dieci giorni dagli accordi raggiunti a Belgrado sta diventando sempre più chiaro che l' "accordo di pace" è stato in realtà una breve tregua, fissata con termini talmente ambigui e indefiniti da rendere chiaro che un'altra guerra dovrà essere combattuta nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, anche se per fortuna il capitolo delle pulizie etniche e dei bombardamenti sembra per il momento chiuso. Per capire quali saranno i probabili connotati di questa nuova guerra che si va delineando è necessario individuare le radici di questo accordo "di pace". LO STOP AI BOMBARDAMENTI, TRA USA, EUROPA E RUSSIA Per l'intero mese si maggio si è trascinato l'evidente imbarazzo della NATO di fronte a una situazione che sembrava senza via di uscita: i bombardamenti, che nelle intenzioni originarie avrebbero dovuto durare per breve tempo, restavano dopo più di un mese ben lontani dall'obiettivo di portare a un cedimento di Belgrado. Allo stesso tempo, l'alleanza atlantica si stava mostrando da una parte sempre meno capace di andare oltre un consenso su obiettivi minimi e dall'altra ampiamente divisa tra gli interessi particolari, mentre gli stati balcanici, tutti estremamente fragili, erano sempre più impazienti di vedere una rapida cessazione di una guerra dagli effetti per loro disastrosi sotto tutti gli aspetti. Nonostante questo, gli Stati Uniti hanno preparato accuratamente una scenografia per presentare gli accordi come una loro vittoria: alla Casa Bianca si è addirittura tenuta il 2 giugno una riunione ai massimi livelli presieduta da Clinton, ufficialmente per studiare tutte le opzioni possibili e in particolare un eventuale intervento di terra con la partecipazione di decine di migliaia di soldati USA. In realtà, un intervento di terra avrebbe comportato per la NATO problemi logistici e rischi di tale entità che la sua effettuazione è sempre stata da escludersi se non come un'ultima decisione disperata, da prendersi una volta esaurita ogni possibile altra alternativa, senza contare poi che una tale operazione avrebbe richiesto come minimo due mesi di preparativi (per maggiori dettagli sull'argomento, si veda Notizie Est #235, 29 maggio). A fine maggio l'unico paese a dirsi, a parole, a favore di un intervento di terra era la Gran Bretagna, ma, visti gli enormi problemi e rischi di una tale opzione, è chiaro che si trattava di un'operazione per mettere in imbarazzo gli USA e portarne alla luce l'incapacità di risolvere la guerra con i semplici bombardamenti. Nei Balcani, e in particolare in Kosovo, la Gran Bretagna ha trovato il contesto nel quale svolgere un ruolo di punta tra i paesi europei, distinguendo più che altrove le proprie posizioni da quelle degli Stati Uniti. Questo suo ruolo "europeo", evidenziatosi lungo tutto il confitto in Kosovo, si è reso particolarmente evidente nei mesi che hanno preceduto gli accordi di Rambouillet così come durante lo svolgimento di questi ultimi, che non a caso sono stati organizzati da britannici e francesi senza alcuna partecipazione USA o NATO, se non l'arrivo all'ultimo momento di Madeleine Albright, che si è vista passare la "patata bollente" del fallimento degli accordi e quella del difficile ottenimento della firma della delegazione albanese. Non solo, già dai primi piani messi a punto in vista di Rambouillet era previsto il ruolo di comando della Gran Bretagna nella forza di intervento KFOR, composta principalmente da paesi europei e con una presenza USA nettamente inferiore nei numeri e limitata alla zona in assoluto meno impegnativa di tutte dal punto di vista militare e della sicurezza, quella di Gnjilane, ancorché di una certa rilevanza da un punto di vista strategico coprendo parte del confine con la Macedonia. Londra si è assunta così l'importante ruolo di "garante" di un maggiore ruolo militare e politico dell'Europa, come è apparso evidente al summit di Washington per il cinquantenario della NATO, e come rivelava la stampa statunitense: "nel caso della Gran Bretagna, la situazione jugoslava ha consentito a Blair di sottolineare nuovamente la capacità unica del suo paese di mantenere relazioni di particolare fiducia con gli Stati Uniti dall'interno di un contesto europeo [...] offrendo un messaggio interpretato come un volere affidarsi alla soluzione militare in misura maggiore rispetto a quanto lo voglia lo stesso governo degli Stati Uniti. Allo stesso tempo, l'alto profilo del coinvolgimento della Gran Bretagna la aiuta a rimanere un elemento essenziale nelle discussioni sul futuro strategico dell'Europa e tende a cancellare l'impressione, all'interno dell'UE, che la Gran Bretagna sia meno che pienamente europea a causa della sua scelta di rimanere fuori dall'Unione Monetaria Europea" ("International Herald Tribune", 26 aprile). Londra ha avuto un ruolo di primo piano, a quanto pare, anche nella spinta verso un'incriminazione di Milosevic da parte del Tribunale dell'Aja ("Washington Post", 26 maggio), uno sviluppo che ha messo in malcelata difficoltà politica la Casa Bianca (come scrive il "New York Times" del 27 maggio: "in privato, funzionari dell'Amministrazione affermano che l'incriminazione con ogni probabilità paralizzerà gli sforzi da essi messi in atto per trovare una soluzione diplomatica attraverso gli attuali canali" al fine di scongiurare un intervento di terra, mentre da parte loro, i "funzionari britannici hanno subito sottolineato che l'incriminazione rende improbabile che quello da loro definito come un accordo che tenta di salvare le apparenze possa essere firmato con Milosevic. 'Pensiamo che [l'incriminazione] possa essere utile a dare loro maggior polso', ha detto un funzionario britannico parlando dell'effetto dell'incriminazione sull'Amministrazione Clinton"). Queste differenti posizioni sono nuovamente emerse dopo la firma degli accordi con la Jugoslavia: l'arrivo dei russi a Pristina e l'occupazione da parte loro dell'aeroporto della città, cioè della prevista sede del comando britannico, sono stati per esempio sviluppi resi possibili dal vuoto venuto a crearsi in conseguenza di un non ancora chiarito ritardo di 24 ore nell'entrata delle truppe NATO in Kosovo, voluto dagli USA. Le successive trattative condotte dallo statunitense Talbott hanno visto ben presto quest'ultimo riconoscere la "legittimità delle richieste russe di una zona sotto il loro controllo, che noi sosteniamo", provocando le immediate proteste del ministro degli esteri britannico Robin Cook, il quale ha immediatamente definito "inaccettabile la creazione di un settore russo" (AFP e UPI, 13 giugno). La Francia, da parte sua, ha incassato un'importante vittoria politica sugli Stati Uniti con la crisi dell'ultimo secondo che ha vincolato gli accordi per la forza KFOR in Kosovo a un voto del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, mentre a livello militare Parigi ha mantenuto e conservato una presenza di primo piano in Macedonia, oltre a quella rilevante messa in atto in questi giorni nello stesso Kosovo. La Germania afferma per la prima volta un suo importante ruolo militare in una missione all'estero e con il suo comportamento ligio alla linea europea e atlantica mira a correggere l'immagine di fomentatrice di separatismi e destabilizzazioni che le era stata cucita addosso dai colleghi europei all'inizio di questo decennio, nel contesto delle tensioni intraeuropee causate dal riassetto del continente dopo la fine della Guerra Fredda. Il governo italiano, da parte sua, è riuscito a superare senza drammatici sconvolgimenti il problematico ruolo di portaerei della NATO e a conservare il proprio potere contrattuale in vista della futura nuova spartizione della torta balcanica, riuscendo a conservare canali privilegiati con Belgrado e mettendo sotto propria tutela Rugova. Nel complesso, quindi, l'Europa sembra avere vinto un'importante battaglia nei confronti dell'alleato statunitense. La guerra della NATO era partita, dopo l'ampiamente annunciato fallimento delle trattative di Parigi, secondo la ricetta di un interventismo al di fuori di ogni mandato ONU, con l'emarginazione della Russia e con la volontà di asserire la sola validità di una strategia di "guerra lampo" mediante l'esibizione della potenza militare e di una forza diplomatica basata essenzialmente su di essa. Gli esiti, fino a oggi, sono stati un insuccesso pressoché su tutti i fronti, per gli Stati Uniti: l'ONU viene nuovamente coinvolta, con un diritto di veto reso potenzialmente più incisivo da un contesto che vede non solo la Russia, ma addirittura anche la lontana Cina acquisire, grazie all'"incidente" del bombardamento della sua ambasciata, maggior voce nelle decisioni della grande diplomazia mondiale. Gli europei sono riusciti a ottenere questo risultato, dando al contempo prova di disciplina e di fedeltà atlantica e dimostrando di essere politicamente in grado di gestire una difficilissima situazione di guerra. Gli Stati Uniti invece si sono trovati in un vicolo cieco, dal quale sono usciti solo attraverso l'aiuto dei russi e l'assegnazione di un maggiore ruolo agli europei (per esempio con la bozza di accordo dei G-8, che è stata la base per la successiva versione definitiva degli accordi). La strategia dei bombardamenti e dell'esibizione della forza si è dimostrata ineffettiva, in assenza della capacità di trovare con rapidità soluzioni diplomatiche, che nell'attuale situazione balcanica gli USA non sono riusciti a trovare e per le quali l'Unione Europea, vista la sua massiccia presenza nell'area sia a livello economico che politico (e ora anche militare), sembra disporre di carte migliori. Dal punto di vista economico, non a caso, sembra prospettarsi un dopoguerra tutto europeo, con un piano in cui punti essenziali sono la supervisione europea sull'introduzione del "libero mercato" nei paesi balcanici (e quindi anche delle privatizzazioni, già ampiamente egemonizzate dall'UE, sia a livello di acquisizioni di imprese, che di controllo delle procedure tramite i propri consulenti), la rapida "euroizzazione" dell'intera area, anche attraverso lo strumento dei "consigli valutari", la creazione di un'Agenzia europea per il rinnovo e lo sviluppo dei Balcani, la creazione di un'Agenzia per lo sviluppo della democrazia nei Balcani (andando così a invadere un'area nella quale gli USA erano molto attivi attraverso organizzazioni come la USAID), l'intensificazione della dottrina ESDI della NATO con una progressiva intensificazione del ruolo europeo nelle operazioni di "mantenimento della pace", il controllo diretto delle dogane e dei confini con la scusa della criminalità e dei flussi migratori e nuove modalità di integrazione dei paesi balcanici nelle strutture politiche dell'UE (sono queste le linee principali del "piano Prodi", si veda "Kapital", 15-21 maggio). Detto questo, va tuttavia sottolineato che per l'Europa vi è il rischio di mettere in atto programmi troppo ambiziosi in un'area dove tutti i soggetti statali sono estremamente fragili e dove è necessario un impegno di vasta portata su molteplici fronti: quello economico, quello politico e quello militare. Quali siano stati i problemi in cui sono venuti a trovarsi gli Stati Uniti lo illustrano con chiarezza le parole di Ivo Daalder, ex-membro del Consiglio di sicurezza nazionale di Clinton, citate da Jane Perlez nel suo articolo per il "New York Times" del 7 giugno: "Alla fine, l'obiettivo primario di Clinton, quello di dimostrare la serietà degli intenti della NATO, è stato conseguito: nonostante le forti tensioni e le differenze di opinione, l'alleanza è rimasta unita. Ma nei fatti, l'unità della NATO è stata raggiunta a spese di altri obiettivi. I costi sono stati straordinariamente alti" in termini di profughi, nonché di destabilizzazione a lungo termine della Macedonia, dell'Albania e dell'intera regione. E' vero, prosegue il giornale, "l'obiettivo di mantenere la credibilità della NATO è stato raggiunto. L'alleanza ha dato seguito alle proprie minacce di bombardamenti, è riuscita a fare accettare a Milosevic un accordo in base ai propri termini e non ha smesso di bombardare fino a quando non è stato raggiunto un accordo finale. Ma l'obiettivo non è stato conseguito senza alti costi. Mentre le notizie di un accordo con Milosevic cominciavano a giungere insistenti alla sede generale della NATO, racconta un alto ufficiale del Patto Atlantico, l'alleanza è riuscita a stare insieme più andando avanti in maniera barcollante che con decisioni risolute. Si può dubitare che la NATO si avventurerà mai in un'altra campagna del tipo di quella per il Kosovo. Dopo cinquant'anni di redazione di documenti, di analisi e di preparativi, la prima guerra della NATO potrebbe essere anche la sua ultima. 'Questa guerra ha dimostrato l'incredibile difficoltà di un'azione umanitaria-militare condotta da un'alleanza', ha detto l'ufficiale. 'Personalmente ritengo che si tratti di un'esperienza che non debba mai più ripetersi. Ha lasciato un amaro sapore di disaccordi all'interno dei vari governi, tra questi stessi governi e tra il quartiere generale della NATO a Bruxelles e la direzione militare a Mons. Si è trattato di un'esperienza scottante'". E in effetti nei principali giornali statunitensi sono stati non pochi i commenti e le dichiarazioni secondo cui nei prossimi anni sarà difficile che vi sia una disponibilità di Washington a effettuare interventi del genere. Anche i problemi di coordinamento dell'Alleanza atlantica sono stati rilevati da varie fonti, come "Le Monde" del 13 maggio, che riferiva della creazione di una specie di "Consiglio di sicurezza" della NATO formato da USA, Gran Bretagna, Francia e Germania, per snellire le procedure decisionali, ma lo stesso quotidiano definiva questa soluzione come più di facciata che reale, affermando che per tutto il periodo della guerra vi è stata la necessità di adottare un "minimo comun denominatore" negli obiettivi degli attacchi, cosa che avrebbe innervosito numerosi responsabili militari. Un altro elemento, a livello militare, è stata la scarsissima incisività degli attacchi sulle forze militari jugoslave in Kosovo. Come doveva ammettere il "Washington Post" (2 giugno) in un articolo peraltro teso a lodare l'incisività degli interventi NATO, i tentativi messi in atto dall'UCK tra fine maggio e i primi di giugno di penetrare all'interno del Kosovo dalle proprie basi in Albania, hanno in realtà messo in luce l'alta mobilità di cui ancora godeva il nutrito numero di carri armati, cannoni e altri mezzi pesanti dell'esercito jugoslavo. Un dato confermato di lì a breve nei giorni del ritiro delle forze jugoslave, che hanno visto partire dalla sola zona di Podujevo, una di quelle in cui l'esercito jugoslavo si era impegnato di meno negli ultimi due mesi, una colonna di più di quattrocento mezzi, tra cui più di cento tra carri armati, cannoni della contraerea e altri corazzati, oltre a radar mobili (AFP, 11 giugno), mentre dall'aeroporto di Pristina, uno dei più intensamente bombardati, sono partiti perfettamente integri ben 11 MIG-21 (qualcuno parla di un numero doppio di MIG, comprendente anche altri modelli meno recenti) ("New York Times", 12 giugno). A ulteriore conferma, il "Times" di Londra (16 giugno) raccontava che sotto gli occhi degli osservatori militari britannici appostati sulle colline intorno a Pristina, il 14 giugno erano passati 700 mezzi militari e il giorno successivo ben 1000, sottolineando che si trattava di mezzi non di poco conto: carri armati T-72, T-55, T-54 e S-1, batterie lanciamissili D-90 e corazzati MTLB. Il giornale concludeva scrivendo che: "la quantità di mezzi corazzati di cui l'esercito jugoslavo ha fatto sfoggio in enorme quantità sulla strada rende dubbie le affermazioni della NATO secondo cui la sua aviazione avrebbe danneggiato o distrutto dal 40 al 50 per cento dei carri armati e dell'artiglieria jugoslavi in Kosovo". Si tratta di una delle conseguenze della necessità di proseguire a ogni costo gli attacchi aerei, con l'obiettivo, tra gli altri, di tenere unita l'alleanza, e che a sua volta si è tradotta nel bombardamento, spesso ripetuto, di obiettivi civili molto più facili da colpire, con i conseguenti "errori", costosi per la NATO in termini di consenso pubblico interno. Questa "sconfitta" degli Stati Uniti naturalmente non è definitiva e la posizione estremamente impegnativa e delicata in cui si trovano ora gli europei, fa di questi ultimi anche un obiettivo estremamente vulnerabile, tanto più che in ambito europeo manca una stretta coesione di interessi (per essere precisi, anche l'amministrazione americana ha dato ampia prova di forti divisioni tra le varie lobby interne, che spesso si intrecciano in alleanze più o meno momentanee con gli europei - come dimostra, per fare un solo esempio, l'avvicendarsi in Kosovo dei mediatori statunitensi Gelbard, Holbrooke e Hill, o l'altalenarsi delle posizioni USA all'interno della missione di verifica OSCE). Anche se entrambe la parti sono interessate a conservare l'unità dell'Alleanza atlantica (l'unico vero successo occidentale di questa guerra), il reciproco conflitto continuerà senz'altro in Kosovo e in tutta l'area, se si tiene presente l'importanza, per entrambe le parti, di conseguire i propri obiettivi particolari (per gli USA la conservazione dell'egemonia politico-militare con un minore impegno in termini di uomini e mezzi, per l'Europa il rafforzamento del proprio ruolo politico, economico e militare, e la consolidazione interna). In questo conflitto non dichiarato la Russia, già coinvolta per trovare un'uscita dal vicolo cieco dei bombardamenti, avrà sicuramente un suo importante ruolo di terzo incomodo, come hanno dimostrato le modalità dell'insediamento dei soldati russi a Pristina. Il ruolo di Mosca non va tuttavia esagerato e la sua difficoltà nel muoversi è stata dimostrata, per fare solo un esempio, dagli sviluppi immediatamente successivi all'insediamento dei suoi soldati a Pristina. La Russia, infatti, alcuni giorni fa ha annunciato di avere l'intenzione di inviare in Kosovo con un ponte aereo un nutrito contingente (da 5.000 a 7.000 uomini), ma si è poi vista subito negare la concessione del permesso di transito da parte di tutti i paesi ai quali ne ha fatto richiesta (Ungheria, Romania e Bulgaria). La capacità di Mosca di esercitare pressioni contemporaneamente a livello militare, diplomatico ed economico è di gran lunga inferiore a quella di USA ed Europa, nonostante la sua presenza economica nei Balcani rimanga non trascurabile. Il fatto però che la missione KFOR sia sotto il "patrocinio" del Consiglio di sicurezza dà ai russi un fondamentale potere di veto, che diventerà tanto più inciviso quanto più permarranno le divergenze tra Europa e Stati Uniti. A tale proposito, riprendiamo quanto scritto con efficacia da Michael Karadjis nel settimanale "Green Left Review" del 19 maggio: "mentre vogliono dimostrare di avere in mano le redini della situazione, gli Stati Uniti puntano anche ad avere la Russia come proprio partner subordinato in Europa, in considerazione del suo enorme peso diplomatico e militare. Se l'ignorare la Russia e l'ONU nel lanciare l'attacco NATO mirava da una parte a dimostrare questo ruolo subordinato, dall'altro questa non era una mossa aggressiva contro la Russia. La Russia è più una colonia del FMI che un rivale economico. Uno degli obiettivi degli USA è stato quello di evitare la pericolosa possibilità di un accordo regionale tra l'imperialismo franco-tedesco e la Russia, che potrebbe lasciare gli USA fuori dall'Europa. Gli USA vogliono dare alla Russia un ruolo politico nelle aree vicine alle sue frontiere. Quando Boris Eltsin ha reso pubblica una versione russa della "Dottrina Monroe" nel 1994 Washington ha avuto poco da obiettare; e quando Mosca ha dimostrato con i fatti quello che intendeva con il circolo vizioso della guerra in Cecenia, ha ottenuto l'acquiscenza occidentale. L'inclusione di truppe russe nella forza guidata dalla NATO in Bosnia in seguito agli accordi di Dayton nel 1995 ha cementato questa 'partnership con subordinazione'. E' per questo che gli USA spingono ora fortemente per un ruolo della Russia come intermediario con la Serbia. E il 7 maggio Clinton ha descritto l'operazione in Bosnia come un modello per il Kosova - un particolare interessante, visto che in Bosnia la NATO provvede all'applicazione di una spartizione etnica..." |