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![]() NOTIZIE EST #245 (2) - JUGOSLAVIA/KOSOVO 19 giugno 1999 DOPO LA GUERRA, UN'ALTRA GUERRA (2) di Andrea Ferrario GLI ACCORDI, L'UCK, IL FUTURO DEL KOSOVO Che tutto l'assetto del Kosovo sia ancora da decidere, e che esso verrà deciso sul campo, lo dimostrano la vaghezza e la mancanza di definizioni precise negli accordi stipolati (come al solito, con la sola Jugoslavia - con la parte albanese si sta trattando un accordo in questi giorni, ma unicamente in relazione al disarmo dell'UCK), così come i problemi che ci sono stati immediatamente nella definizione dei dettagli militari con la parte jugoslava e quelli successivi relativi all'ingresso delle truppe NATO in Kosovo. Rispetto agli accordi di Rambouillet, la prima differenza che salta agli occhi è quella relativa al ritiro delle forze serbe, che deve essere completo e rapido, mentre i precedenti accordi prevedevano tempi più lunghi e regolavano nei dettagli la permanenza di un contingente limitato, in particolare ai confini della Federazione. Nella risoluzione del Consiglio di sicurezza, invece, si dice che truppe jugoslave potranno tornare in un secondo tempo per proteggere i confini e il patrimonio culturale e religioso serbo (centinaia di siti disseminati su tutto il territorio del Kosovo), rimandando a un annesso nel quale si dice che questo rientro sarà "nell'ordine delle centinaia, e non delle migliaia" di uomini, ma non si può non notare che subito dopo la firma dell'accordo, la delegazione NATO che trattava a Blace i dettagli militari parlava già di 2.500 uomini (Belgrado ne chiede 15.000). Anche la definizione dello status del Kosovo diventa ancora più confusa. L'unico particolare ribadito a chiare lettere nei nuovi accordi, così come lo era in quelli di Rambouillet, è il rispetto dell'integrità territoriale della Jugoslavia, alla quale si aggiunge ora quella dei paesi confinanti. Ma per il Kosovo, tra la risoluzione del Consiglio di sicurezza e il documento dei G-8 al quale essa fa esplicitamente riferimento, si prevede un periodo indefinito di amministrazione ONU (alcuni mesi? svariati anni?), al quale farà seguito un periodo di "ampia autonomia" (non definita in alcun modo), anche in questo caso per un periodo indefinito. Si fa riferimento, in questo caso come in altri punti, al rispetto dello "spirito di Rambouillet" (che comunque negava ai kosovari ogni diritto all'autodeterminazione [1]), ma si tratta di una formula estremamente vaga, che nell'indefinitezza generale del quadro degli accordi può comportare tutto e il contrario di tutto. Riguardo all'UCK, a differenza degli accordi di Rambouillet (dove rientrava nel calderone delle "altre formazioni armate") viene citato esplicitamente e quindi riconosciuto, anche se non è una delle parti contraenti. Rambouillet prevedeva un piano con tempi precisi per il suo disarmo e per la sua integrazione in forze di polizia "multietniche" del Kosovo. Gli attuali accordi parlano di una sua "smilitarizzazione", termine ambiguo che potrebbe significare sia la sua completa dissoluzione come forza armata, che la sua trasformazione o integrazione in una forza di sicurezza. E' chiaro quindi che non solo i dettagli, ma tutti i particolari fondamentali devono essere ancora definiti (non ultimo quello di chi si prenderà carico dell'amministrazione civile - si è già fatta avanti l'OSCE) tra un caos di soggetti diversi, che vanno dall'ONU, alla NATO, all'Europa, agli Stati Uniti, alla Russia, alla Jugoslavia, all'UCK e ai moderati di Rugova. Nei primi giorni dell'occupazione NATO in Kosovo questa situazione è stata sfruttata a proprio vantaggio da due soggetti opposti: la Russia, di cui abbiamo già parlato, e l'UCK. Quest'ultimo si trova oggi di fronte a quella che sarà una tappa decisiva della sua evoluzione. La prima radicale trasformazione di questa formazione si era avuta tra il marzo e l'aprile del 1998, quando, di fronte alle massicce offensive e ai massacri messi in atto dalle forze di Belgrado, l'allora ristretto gruppo armato si è trasformato in una forza insurrezionalista di massa, sicuramente al di là di quelle che erano le intenzioni dei suoi organizzatori. Nei mesi successivi l'UCK si è trovato a dovere fare contemporaneamente fronte a massicce e ininterrotte cruente offensive su tutto il territorio del Kosovo, da una parte, e dall'altra ai tentativi di una sua liquidazione da parte di Rugova, il quale ha agito prima a livello politico, collaborando con i paesi NATO e aprendo a Milosevic, e poi a livello militare, con la creazione e l'infiltrazione delle FARK (Forze Armate della Repubblica del Kosovo). In tutto questo periodo e fino al gennaio del 1999, l'UCK ha inoltre dovuto fare fronte a una perseverante ostilità da parte dell'Occidente, che gli ha sempre preferito come interlocutore Milosevic, fino al punto di dare due volte nei fatti il via libera ai tentativi di quest'ultimo di cancellare la resistenza kosovara con ampie offensive militari (febbraio-marzo e luglio-settembre '98). Per riassumere, le fasi passate da questa organizzazione sono state quelle: 1) della formazione terroristica di élite fino al febbraio '98 (con un primo salto di qualità dal novembre del '97, quando vi è stata la prima conquista di una seppure molto limitata area di territorio, il cuore della Drenica); 2) del movimento insurrezionale di massa, con strutture ampiamente orizzontali e autorganizzate, un radicamento fortemente territoriale e privo di vertici centralizzati, dal marzo a tutta l'estate del '98; 3) del tentativo di razionalizzazione militare (in larga parte riuscito), di centralizzazione dei comandi (conseguito solo in maniera molto limitata) e di creazione di una propria fisionomia politica (completamente fallito), fino al febbraio '99; 4) quello di una nuova divisione interna, della conquista definitiva del potere da parte di un ristretto gruppo (Thaci, Krasnici e i loro stretti collaboratori) sull'onda dell'emergenza di guerra e con il sostegno occidentale, tra il febbraio '99 e oggi. Che la fiducia dell'Occidente sia non solo di recente data, ma vada esclusivamente ai suoi alti dirigenti lo dimostra il fatto che durante i due mesi e mezzo di guerra, e nonostante si sia trovata in forti difficoltà, la NATO non ha mai dato alcun aiuto all'UCK (nemmeno alimentare o sanitario) e ha lasciato tranquillamente che venisse sconfitto e in massima parte espulso dal Kosovo insieme alla sua popolazione. L'unico "aiuto" c'è stato nell'ultima settimana della guerra, quando l'imminenza di un accordo era ormai chiara, con i bombardamenti effettuati dagli aerei NATO in coincidenza con l'offensiva del monte Pastrik, al confine con l'Albania, rivelatasi comunque un disastro. Da Rambouillet in poi, il gruppo dirigente guidato da Thaci non ha perso occasione per dimostrare la propria subordinazione all'Occidente, raggiungendo punte di estremo cinismo, a volte tragicomico, durante il periodo dei bombardamenti della NATO e dopo. Non solo non una critica è stata rivolta all'alleanza occidentale per il modo in cui ha lasciato massacrare e deportare la popolazione albanese del Kosovo (e ciò era già avvenuto in passato) - l'agenzia Kosovapress, controllata dal vertice UCK, ha continuato con un incredibile servilismo a sostenere che a bombardare le colonne di profughi o la base UCK di Koshare fossero stati "probabilmente Mig jugoslavi" anche dopo che la stessa NATO aveva riconosciuto la propria responsabilità. Oggi Thaci sembra accettare quasi ogni condizione che gli viene posta: dal disarmo, alla rinuncia all'indipendenza (naturalmente non lo può dire a chiare lettere, ma ora afferma di "sperare in un referendum tra tre, cinque o sette anni") e, soprattutto, accettando un protettorato incondizionato e a tempo indeterminato da parte della NATO. Paradossalmente, questo era il progetto originario non dell'UCK, ma dei "moderati" di Rugova, che un tale protettorato richiedevano da anni, così come lo richiedeva il loro punto di riferimento a Tirana, Sali Berisha, il quale, per la cronaca, in un comunicato del 5 ottobre 1998, dopo avere attaccato l'allora dirigenza dell'UCK, chiedeva i bombardamenti della NATO e scriveva che "vi deve essere un nuovo accordo del tipo di quello di Dayton nel quale il principio secondo il quale i confini non devono essere cambiati con la violenza e il principio della autodeterminazione vengano armonizzati" (comunicato del Partito Democratico Albanese, in "Albanews", 5 ottobre 1999). In realtà tra i moderati di Rugova e l'UCK gli scontri sono stati durissimi quando quest'ultimo conquistava un seguito popolare ed era un movimento dalle caratteristiche ampiamente antiautoritarie, oppure, più di recente, quando si è trattato di lottare per i favori dell'Occidente, ma i punti di contatto in realtà non mancano. La presenza di rugoviani all'interno dell'UCK non è per nulla trascurabile. Innanzitutto, quando per forza di cose, di fronte alle offensive e ai massacri di Belgrado, l'UCK ha dovuto ampliarsi su tutto il territorio, l'urgenza di organizzare la difesa ha fatto entrare nelle strutture dell'Esercito di Liberazione del Kosovo numerosi dirigenti locali della LDK, il partito di Rugova che per anni ha avuto un controllo capillare del Kosovo "parallelo". Sono stati molti anche i rugoviani che hanno aderito all'UCK per dissidi personali o tattici, ma non di fondo, con il leader della resistenza passiva e tra questi vi è un esponente di primo piano dell'UCK come Jakup Krasnici. Infine, dall'estate scorsa vi è una nutrita presenza militare all'interno dell'UCK che aderisce sì a questo "marchio di fabbrica", ma che in realtà ha le proprie origini nelle FARK e riconosce in Rugova il proprio capo politico. Le divisioni tra le due fazioni hanno ormai quasi completamente perso ogni caratteristica di sostanza e si stanno riducendo a una pura e semplice lotta per il potere, che ha un suo parallelo a Tirana (Berisha e i democratici con Rugova, Majko e i socialisti con Thaci). Questo svuotamento di contenuto non ha reso però minori le inimicizie e la lotta per il potere in Kosovo sarà sicuramente molto aspra, senza esclusioni di colpi, sia a Pristina che a Tirana. Se Rugova può contare sulla lunga esperienza e i consolidati canali di contatto con l'Occidente, e addirittura anche con la leadership di Belgrado, il curriculum di Thaci da questo punto di vista è più fragile, nonostante sia momentaneamente sulla cresta dell'onda, fatto dovuto in buona parte al particolare che la presenza dell'UCK sul terreno in presenza di un'occupazione NATO è una non indifferente "gatta da pelare" e sono necessari interlocutori che si spera possano tenere sotto controllo la situazione, e da questo punto di vista Rugova non ha molto da offrire. Per migliorare la propria immagine di "garante della stabilità", Thaci ha compiuto mosse che non possono essere definite che vergognose, come l'incontro con uno dei maggiori finanziatori e sostenitori politici del regime di Belgrado, il ministro degli esteri Dini, o quello con il primo ministro macedone Georgievski, con il quale Thaci si è congratulato per il trattamento riservato dal suo governo ai profughi albanesi [sic!] e ha delineato un'ampia collaborazione. Nel perseguire questi suoi piani, Thaci ha correttamente compreso che i suoi principali nemici sono i russi - un loro importante ruolo, infatti, non farebbe che andare a vantaggio di Rugova, maggiormente gradito a Belgrado. Entrambi i leader possono comunque solidalmente fare affidamento, per i loro piani, sul fatto che il Kosovo ormai è distrutto e totalmente dipendente dall'estero, nonché sul desiderio della popolazione di potere tornare alle proprie case e riprendere una vita pacifica. Questi sono anche i motivi del totale sostegno popolare alla NATO, ai quali va aggiunto il fatto che l'UCK non è riuscito a proteggere la popolazione di fronte alla macchina da guerra jugoslava, comunque di gran lunga più potente. Questo sostegno incondizionato proseguirà fino a quando i primi seri nodi verranno al pettine. A tale proposito, va notato che anche se a parole i vari comandanti di zona appoggiano la NATO, nei fatti il loro atteggiamento non è così scontatamente remissivo, come testimoniano il comportamento, per fare due esempi, del comandante della zona di Llap, il noto e apprezzato in Kosovo "Remi", uno di coloro che si sono opposti agli accordi di Rambouillet, il quale ha escluso qualsiasi consegna di armi che non siano di piccolo calibro e di vecchio tipo, affermando che l'UCK rimarrà l'esercito del Kosovo ("The Times", 16 giugno), pur augurandosi diplomaticamente una collaborazione con la NATO, o le dichiarazioni del comandante "Drini", che nel caos dei primi giorni dell'occupazione NATO è riuscito a prendere il controllo di Prizren e rifiuta di prendere in considerazione l'obbedienza a un comando NATO ("The Guardian", 15 giugno). Che i rapporti all'interno dell'UCK siano tesissimi lo testimonia un articolo pubblicato da "The Observer" il 13 giugno (riportato da RFE/RL il 14 giugno), nel quale si riferiscono le parole di un combattente dell'UCK a Kukes, secondo cui "ci sono scontri... tra gli ufficiali e [i soldati regolari di un campo UCK in Albania]... Gli uomini vogliono entrare in Kosova. Se la NATO è lì con centinaia di giornalisti ritengono che anche loro dovrebbero esserci. E' anche la loro vittoria e sono scontenti per il fatto che nessuno riconosca il loro ruolo" Un altro soldato sottolinea che "tutti i soldati che sono qui sulla linea del fronte vogliono andare a casa a controllare i loro villaggi... L'UCK avrà difficoltà a cercare di tenere insieme i propri uomini". Un mercenario olandese, che si è dimesso dall'UCK, ha raccontato che "i comandanti stanno combattendo tra di loro per le rispettive posizioni. Ogni comandante ha due guardie del corpo... I comandanti hanno paura l'uno dell'altro. Le cose si metteranno davvero molto male". Il regime di occupazione NATO, la concentazione degli interessi imperialisti in genere nell'area, ma anche il legittimo desiderio di pace e di ordine da parte degli albanesi che rientrano in Kosovo, tenderanno certamente a inibire ogni spinta al cambiamento. Rimane il fatto che non è possibile vedere un futuro di liberazione per il Kosovo senza la rimozione delle attuali dirigenze albanesi (radicali o moderate che siano), come avevamo già scritto all'inizio dei bombardamenti, e senza una politica autonoma dagli interessi dell'imperialismo. La preziosa, seppure tragicissima, esperienza della lotta di liberazione degli albanesi del Kosovo nel corso dell'ultimo anno e mezzo rimane tuttavia un capitolo fondamentale dal quale non sarà possibile prescindere per una ripresa della battaglia per l'emancipazione da ogni dominio, anche se le attuali condizioni materiali, politiche, militari e internazionali sono l'esatto contrario di quello che sarebbe il contesto ideale di una lotta per un'autentica autodeterminazione. Belgrado continuerà ad avere una forte voce in capitolo riguardo al Kosovo, nonostante la riduzione di quest'ultimo a un protettorato della NATO (o dell'ONU, se la Russia acquisirà un ruolo effettivamente importante). La misura di tale influenza dipenderà dalle modalità dei tentativi di stabilizzazione dell'area da parte delle grandi potenze, dall'intensità dello scontro Europa-USA per l'egemonia e dall'arrivo al potere o meno, in Serbia, di una nuova classe politica. Una leadership moderata più presentabile a Belgrado aumenterebbe sicuramente il ruolo della Serbia agli occhi dell'Occidente, a condizione tuttavia che tale dirigenza sia in grado di avere basi sufficientemente solide, cosa che sembra al momento difficile a realizzarsi. I danni e le distruzioni causate dai bombardamenti NATO alla struttura economica della Serbia sono enormi, sicuramente più ingenti di quelli subiti dalla macchina militare, la demoralizzazione tra la popolazione serba è alta, la necessità di concentrarsi sulla ricostruzione e la ripresa di una vita normale avranno con ogni probabilità il sopravvento su ogni altro tipo di mobilitazione ed è difficile che possano riprendere le proteste di studenti, lavoratori e pensionati che sono state intensissime nel 1998. Il salto di qualità fatto negli ultimi due mesi nella limitazione dei diritti democratici in Jugoslavia è stato notevole e, viste le condizioni assolutamente sfavorevoli, anche in questo campo sarà difficile un ricupero. Rimane da vedere quanto resterà coesa l'oligarchia al potere a Belgrado in un momento in cui in Occidente circolano con insistenza i nomi di possibili successori di Milosevic (esponenti governativi come Granic o Karic, oppure, tra le fila dell'opposizione, i nomi ormai piuttosto logori di Djindjic, Panic o Djukanovic) - non è infatti da escludersi che al vertice,ì o ad altri livelli il potere di Belgrado, nel caos del dopoguerra, cominci a sfaldarsi. Milosevic e i suoi si trovano probabilmente in una situazione difficile perché si sono lasciati sfuggire quella che con ogni evidenza poteva essere una loro parziale vittoria personale (non certo per il loro paese). Naturalmente ci si muove qui nel terreno delle ipotesi, ma all'inizio di maggio sembrava chiaro che ci si stesse avvicinando a una soluzione diplomatica con ogni probabilità più vantaggiosa per Belgrado, nel momento in cui erano stati liberati i tre soldati americani e Rugova era stato inviato in Italia. In quei giorni si parlava di un accordo imminente, addirittura si prevedeva la data del 15-16 maggio, ma poi tutto è saltato, con lo strano "incidente" del bombardamento dell'ambasciata cinese il 7 maggio e l'avvio della campagna per un intervento di terra guidata da Tony Blair, di cui abbiamo già riferito nella prima parte. Sempre per fare delle ipotesi a posteriori, non è difficile immaginare che chi doveva poi assumersi il comando della missione KFOR e il controllo delle zone maggiormente a rischio (l'Europa), abbia premuto per una soluzione con un'iniziale inferiore presenza serba e, soprattutto, russa. Anche il tempismo dell'incriminazione di Milosevic alla vigilia di un probabile accordo è stato un segno di nervosismo e di lotte interne all'alleanza occidentale. Questo non esclude che poi in un secondo tempo non vi potranno essere nuove aperture dell'Europa nei confronti di Belgrado e Mosca, con i quali i paesi UE hanno salde relazioni, ma non si può non notare in questi giorni che uno dei politici occidentali più intensamente legati a Belgrado e in particolare a Milosevic e a Milutinovic, cioè il solito Lamberto Dini, abbia nel giro di una decina di giorni elegantemente scaricato il presidente jugoslavo con ripetuti interventi sul "Corriere della Sera", cambiando decisamente registro rispetto a solo due settimane fa. Il regime jugoslavo quindi in questo momento sembra essere perdente, mentre solo fino a poco tempo fa avrebbe potuto capitalizzare molto di più sulle difficoltà della NATO. Ma, lo ripetiamo, tutti i giochi fondamentali devono ancora essere fatti sul terreno e Milosevic, o un suo eventuale successore, avranno ampio spazio di manovra. Solo due parole sul contesto balcanico, sul quale ritorneremo più ampiamente nelle prossime settimane. Il "ventre molle" dei Balcani, la Macedonia, ha retto bene solo apparentemente alla guerra. Il trattamento riservato ai profughi albanesi e l'esplicitarsi dell'ostilità dei macedoni nei confronti degli albanesi hanno fortemente alterato la già difficile convivenza tra le due nazionalità. Il problema dei diritti nazionali degli albanesi rimane in larga parte irrisolto e il contesto generale è reso ancora più grave da un enorme peggioramento della crisi economica, senza prospettive di miglioramento nemmeno a medio termine (e con la conseguente iniezione di enormi aiuti assistenzialistici). Rimangono intatte invece le ambizioni egemoniche di stati vicini come Grecia e Bulgaria. Quest'ultima ha subìto, e subirà ancora, enormi danni dalla guerra contro la Jugoslavia, che il governo di Sofia sta già utilizzando per coprire il fallimento delle proprie politiche economiche, delineatosi con chiarezza già all'inizio di quest'anno, e per ottenere il rinvio della chiusura delle aziende in passivo (e quindi delle conseguenti tensioni sociali), nella speranza di ottenere anch'essa aiuti assistenzialistici dall'Occidente. In Romania la situazione continua a essere catastrofica e tesissima, ai limiti dello "scenario albanese", con un governo che va avanti ormai da mesi tappando buchi e dilapidando mezzi senza alcuna strategia, per fa fronte nell'immediato alle lotte sociali, ma che ha dimostrato la preoccupante tendenza a essere pronto a ricorrere ai carri armati per sedare eventuali proteste di massa. La Croazia è anch'essa sull'orlo di una crisi economica di vasta portata, con ampi segni di mobilitazione dei lavoratori e della popolazione in genere. La guerra della NATO, se si eccettuano la Bosnia e la Croazia, ha provocato un'ampia diffidenza, come minimo, nei confronti dell'Occidente e le difficoltà incontrate dall'alleanza atlantica ne hanno intaccato l'autorevolezza, non solo nei Balcani, ma anche nell'Europa Centro-Orientale. Gli ambiziosi progetti di "patti di stabilità" sembrano in un tale contesto più una pia illusione che qualcosa che abbia qualche possibilità di riuscita. La partita, nei Balcani, rimane quindi completamente aperta, sotto ogni punto di vista. NOTA: [1] Il testo degli accordi di Rambouillet, di cui molti vanno dicendo che prevedeva l'indipendenza per il Kosovo, stabiliva una semplice "revisione degli accordi" dopo tre anni, "prendendo in considerazione la volontà della popolazione, quella delle autorità competenti" e "l'atto finale della conferenza di Helsinki" (quella che prevede l'intangibilità dei confini statali in Europa). Prendere in considerazione la volontà della popolazione (senza specificare se quella del Kosovo o dell'intera Jugoslavia), vincolandola comunque a quella delle "autorità competenti" (quali?) e a un atto internazionale che prevede l'intangibilità dei confini internazionali non può proprio essere considerato nemmeno un impegno tacito per un referendum sull'indipendenza. |