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NOTIZIE EST #245 (3) - JUGOSLAVIA/KOSOVO
19 giugno 1999


DOPO LA GUERRA, UN'ALTRA GUERRA (3)
di Andrea Ferrario


LA SINISTRA E LA GUERRA
Come abbiamo fatto negli altri materiali di analisi e commento pubblicati nei momenti di svolta in Kosovo, formuliamo anche questa volta qualche commento sulle linee seguite dalla sinistra di fronte alla guerra. Per chi segue "Notizie Est" è scontata l'assoluta dissociazione dalla sinistra di governo, che ha scelto di partecipare all'aggressione della NATO contro la Jugoslavia , portando il nostro paese militarmente in prima linea in questa guerra. Le timidissime e rarissime differenziazioni di questa sinistra rispetto alla linea più aggressiva non sono dovute in alcun modo a effettive preoccupazioni democratiche o pacifiste (che se fossero state presenti, avrebbero impedito l'adesione alla guerra della NATO), ma all'intenzione di difendere i propri non indifferenti interessi coloniali di media potenza euro-atlantica. Gli slogan umanitari usati per giustificare questa politica fanno a pugni con la politica di chiaro stampo imperialista da anni perseguita nei Balcani e con l'appoggio fornito ai regimi più corrotti e autoritari, nonché all'espansione dell'industria militare italiana.

Ma chi scrive non può non astenersi dal totale dissenso sulla linea seguita dalla sinistra più radicale o extraparlamentare. Non solo si è arrivati alla mobilitazione con un enorme ritardo, dopo un anno di ampie reticenze (come minimo) di fronte alla guerra in Kosovo, ma lo si è fatto con modalità e obiettivi inaccettabili. La lotta dei kosovari è stata assolutamente ignorata e nelle mobilitazioni è stato già tanto se venivano ricordati, esclusivamente da un punto di vista umanitario, i "massacri in Kosovo" (il più delle volte, comunque, non ve ne era menzione). Non si possono non citare come indicativi di una pericolosa degenerazione politica, per esempio, il mimare la campagna dei ponti e l'adozione del simbolo "target" - entrambi strumenti della campagna del regime omicida di Belgrado, che sotto tale simbolo ha organizzato concerti sui ponti con la partecipazione di alcuni tra i massimi responsabili di un anno di repressioni e massacri in Kosovo (e non solo in Kosovo) e dei più noti esponenti sciovinisti dello "showbizness" serbo. Ben altro era lo stato d'animo dei serbi che della distruzione dei ponti (non quelli, sicuri, su cui si svolgevano le manifestazioni) hanno dovuto pagare le conseguenze e non a caso, questo tipo di manifestazione non ha più avuto alcun seguito dopo che il regime la ha "consumate". Difficile anche trovare le parole per qualificare l'adesione al ritornello della propaganda di Belgrado secondo cui i profughi "scappano non solo dalle repressioni, ma anche dalle bombe della NATO", mirato a sminuire, in maniera tanto più grave perché non esplicita, i crimini degli aguzzini serbi, nonostante le testimonianze univoche dei diretti interessati e il fatto che la logica dicesse che non era possibile sostenere ciò, visto che dalla Serbia altrettanto bombardata non stava fuggendo metà della popolazione e visto che bombardamenti come quelli effettuati sulla Jugoslavia (micidiali, ma non a tappeto e di svariate volte inferiori a quelli della Guerra del Golfo) non hanno mai nella storia causato esodi di metà della popolazione come è avvenuto in Kosovo. O ancora, nei casi peggiori, ma purtroppo non rari, la delegittimazione della lotta degli albanesi attraverso fumose teorie di complotti CIA, accuse di traffici illegali o di trame islamiche (con il triste spettacolo di una sinistra che riprende letteralmente informazioni e tesi dell'estrema destra, di organismi di polizia degli stati imperialisti o di esponenti di spicco di questi ultimi, o che arriva a posizioni al limite del razzismo, linee che hanno seguito anche personalità note internazionalmente come Chossudovsky o André Gunder Frank). Un'altra scelta, su un piano diverso e che chi scrive non condivide in alcun modo, è stata quella di presentare questa guerra come una guerra degli USA per dominare l'Europa, guerra che ora si asserisce si sarebbe conclusa con una vittoria degli USA. Qui, per esempio, uno degli slogan più ripetuti è stato quello della guerra come scusa, per Washington, per indebolire l'euro. Poco importa che sia ancora in atto l'onda lunga dei dissesti sui mercati finanziari internazionali (che non hanno toccato il dollaro) e che il calo dell'euro è ampiamente spiegabile con le debolezze delle economie UE, in atto già prima della guerra e ancora oggi. E poco importa che per gli USA sarebbe assolutamente irrazionale fare una guerra per questi scopi, quando sarebbe molto più facile, con costi infinitamente inferiori, mobilitare sui mercati internazionali qualche Soros di turno - nonostante questo, lo slogan è ampiamente passato. C'è chi si è spinto più in là (e non sono stati in pochi) rivendicando un maggiore ruolo per l'Europa (la maggior parte dei leader di PRC, per esempio). L'esperienza dei Balcani negli ultimi dieci anni insegna che l'imperialismo europeo non è per nulla più progressista di quello USA e che in alcuni casi il suo "abbraccio" può essere addirittura ancora più soffocante, vista la più massiccia presenza economica e la maggiore vicinanza geografica (le politiche repressive contro l'imigrazione, e tutto il loro contorno economico-poliziesco, sono per esempio politiche totalmente europee). Inoltre, quanto accaduto in Bosnia e in Albania, così come tutti questi anni di "transizione" economica e politica negli altri paesi balcanici, dimostrano che le contraddizioni tra USA ed Europa per un'egemonia nella regione non aprono, nemmeno involontariamente, spazi per le lotte di liberazione dei popoli balcanici e che casomai è il contrario. Questo non vuol dire perdere di vista il ruolo guerrafondaio e il peso ancora predominante a livello mondiale degli Stati Uniti, vuol dire semplicemente che è necessario combattere con altrettanto vigore l'imperialismo europeo, prendendo atto che nei Balcani svolge un ruolo di primissimo piano e in crescita. Non si può nemmeno rinunciare a dare sempre la priorità, anche nella lotta indispensabile e giusta contro l'imperialismo delle grandi potenze, alla solidarietà alle popolazioni oppresse quando si organizzano e lottano per difendersi, poiché sono gli unici soggetti che questo imperialismo possono mettere in crisi. Sarebbe bello che questi movimenti avessero dirigenze e programmi di sinistra. Ma nel criticarli e nell'emarginarli politicamente si dimentica troppo facilmente che questi soggetti, nei Balcani e nell'Europa Orientale, sono nati negli anni '90, contrassegnati da un vuoto ideologico a livello mondiale, e dopo decenni di spietata oppressione poliziesca ed economica, spesso anche nazionale, da parte di regimi che si sono basati su vuoti slogan "di sinistra". E bisogna riconoscere che anche la sinistra occidentale, pur agendo in condizioni infinitamente più favorevoli, e questo da lungo tempo, manca di progetti e vive più che altro di passato, un passato che, per l'appunto, questi popoli non possono rivendicare come proprio. Per non girare troppo attorno all'argomento, era necessario ed è ancora necessario dare solidarietà alla lotta di autodeterminazione del popolo del Kosovo, anche nelle sue forme armate, dal momento in cui queste ultime sono diventate il canale di difesa dei propri diritti (e della propria semplice esistenza) contro le repressioni e i massacri. Ciò vuol dire che quando l'UCK, o settori dell'UCK, hanno promosso questa lotta erano da difendere e lo saranno ancora quando lo faranno. Era ed è possibile farlo con atteggiamento critico (la sinistra lo ha sempre fatto, con l'eccezione degli stalinisti) e anche denunciando l'irresponsabilità dei loro dirigenti e le connivenze, o addirittura le aperte collaborazioni, di questi ultimi con gli imperialisti, così come, per restare nei Balcani, era giusto appoggiare in tale maniera critica gli insorti dell'Albania nel '97, anche quando era chiaro che la loro direzione era stata presa dai corrotti e autoritari leader socialisti e quando hanno chiesto l'intervento militare dei paesi NATO, o come è possibile e giusto appoggiare la causa dei minatori romeni che si rivoltano contro lo sfruttamento, denunciado contemporaneamente i programmi reazionari dei loro leader. In caso contrario, non rimarrebbe che richiedere l'intervento di istanze superiori, espressioni dello stesso imperialismo, come l'ONU o l'OSCE, per fare solo due esempi, oppure illudersi che i manager in doppiopetto e i generali stragisti dei governi oppressori locali, momentaneamente in conflitto con le grandi potenze, rappresentino l'alternativa.

(fine)