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NOTIZIE EST #322 - KOSOVO
17 aprile 2000


TORNA IL FANTASMA DELLA SPARTIZIONE?
di Andrea Ferrario

[Nell'ultimo numero ("Notizie Est" #321) avevo preannunciato l'uscita di una seconda parte dell'articolo, ma lavorando al suo completamento ho reperito sempre più materiali, che hanno notevolmente ampliato il contenuto di tale prevista "seconda parte". Ne è venuto fuori un numero in realtà a sé stante (e quindi con la numerazione #322), che divido in due parti distribuite nello stesso giorno. Mi scuso quindi per le incongruenze di numerazione. Tutto ciò è dovuto al fatto che ho colto l'occasione per ripercorrere numerosi momenti fondamentali del periodo dal gennaio 1999 fino agli ultimi mesi, cercando di avanzare alcune ipotesi complessive, in particolare quella del ruolo di primo piano che hanno avuto in questa guerra i progetti di spartizione del Kosovo. Il testo, proprio per questo suo carattere di analisi sul lungo periodo, non è breve - preavviso comunque che "Notizie Est", salvo forse ancora un numero "normale" prima di Pasqua, sospenderà le pubblicazioni fino ai primi giorni di maggio. NOTA: tutti i numeri di "Notizie Est" cui si fa riferimento possono essere letti su web all'URL: http://www.ecn.org/est/balcani/notest.htm - a.f.]

Nella precedente parte di questa serie sul Kosovo abbiamo esposto tutta una serie di coincidenze fattuali che lasciano trasparire la preparazione di una nuova "svolta" per il Kosovo. Andando a rivedere alcuni periodi cruciali della guerra del Kosovo, si possono individuare numerose altre "coincidenze" che rimandano direttamente o indirettamente agli sviluppi più recenti. Lo faremo qui sotto "a gambero", ripercorrendo prima sommariamente gli sviluppi dall'autunno del '99 agli ultimi mesi. Successivamente faremo un balzo indietro al gennaio 1999 e al periodo culminato con il massacro di Racak, per poi prendere in esame le due prime settimane di aprile del '99, la prima settimana di maggio (il momento secondo noi chiave di tutta la guerra) e, più in breve, il periodo dalla metà di maggio al giugno del '99. Naturalmente abbiamo dovuto tralasciare moltissimi altri momenti cruciali, che avrebbero richiesto uno spazio decisamente maggiore di un articolo. Ma quello che ci preme è avanzare qui un'ipotesi, per la quale abbiamo trovato innumerevoli riscontri: i piani di spartizione del Kosovo sono con ogni probabilità stati uno degli elementi centrali dell'agire politico dei vari soggetti intervenuti o che hanno agito in Kosovo. Le modalità esatte di questi piani rimangono ancora molto difficili da decifrare, così come la loro evoluzione nel tempo e le loro prospettive future - qui si vuole solo richiamare l'attenzione sulla quantità di conferme che una tale ipotesi trova.

DALL'AUTUNNO 1999 A OGGI
Prima di passare a una ricostruzione dei momenti salienti del periodo gennaio-giugno 1999, ripassiamo brevemente in rassegna il concatenamento di sviluppi seguito da "Notizie Est" tra l'autunno dell'anno scorso e oggi e lungo il quale abbiamo rilevato negli ambienti NATO e contigui chiari segni di una revisione della guerra del 1999 e di un lavoro politico mirato ad aprire o consolidare canali politici con la Serbia.

Dopo la smobilitazione dell'UCK a fine settembre, e la sua trasformazione nel KPC, le attenzioni dei paesi NATO e dell'ONU si sono concentrate sui futuri assetti del Kosovo. Ne è stato un sintomo il nervoso scambio di preoccupati commenti pubblicati dalla grande stampa statunitense ed europea, sul fatto che alcuni funzionari USA anonimi avessero parlato dell'"inevitabilità", a medio termine, di un'indipendenza del Kosovo (si vedano "Notizie Est" #264 del 25 settembre 1999 e #269 del 18 ottobre). Il periodo tra fine ottobre e dicembre è stato caratterizzato inoltre dall'avvio dell'altalena di aperture diplomatiche e tensioni tra Montenegro e Serbia (un'altalena che perdura a tutt'oggi), dalla svolta di Madeleine Albright, che non ha più vincolato una reintegrazione della Serbia nella "comunità internazionale" a una rimozione di Milosevic, bensì alla sola tenuta di elezioni "democratiche", nonché dalla proposta UE di cancellare alcune delle sanzioni contro Belgrado (concretizzatasi poi a febbraio, in piena "crisi di Mitrovica"). Tutti questi sviluppi sono stati accompagnati da una campagna di stampa grossolana, ma alla quale è stato dato grandissimo rilievo dai principali media "autorevoli" dei paesi NATO, secondo cui le cifre relative alle vittime in Kosovo sarebbero state fasulle e tesa in generale a sminuire la portata dei massacri e delle deportazioni del '99 - il motore principale di questa campagna era stata l'agenzia statunitense Stratfor, legata a multinazionali e a settori istituzionali USA. A fine novembre a Belgrado il governo jugoslavo lanciava il "caso Ragno", che portava alla luce, al di là delle tesi non provate da alcun elemento sulla preparazione di un attentato a Milosevic, particolari estremamente imbarazzanti riguardo alle connivenze tra la Francia e criminali di guerra serbi (si vedano "Notizie Est" #288 e #289, rispettivamente 8 e 10 dicembre 1999). A dicembre, a Sofia si era tenuto un incontro tra esponenti serbi del Kosovo e/o vicini a Vuk Draskovic, e diplomatici USA, il tutto nel nuovo "feudo" diplomatico di Richard Miles, ex ambasciatore statunitense a Belgrado, universalmente noto per i suoi buoni rapporti con il regime serbo. Riteniamo tale evento molto importante nel processo di avvicinamento tra serbi e amministrazione USA e facciamo notare come la riunione, pochissimo pubblicizzata dai suoi organizzatori, sia stata riportata allora a livello mondiale solo dal quotidiano bulgaro "Monitor", notoriamente schierato con il governo di Belgrado e, in una certa misura, suo "portavoce" in Bulgaria (si veda l'articolo di "Monitor" in "Notizie Est" #293 del 22 dicembre 1999). Contemporaneamente, a Pristina si svolgevano in gran segreto le trattative tra Kouchner, Thaci, Rugova e Qosja per la creazione di un'Amministrazione temporanea del Kosovo sotto il veto ONU, che ha comportato, di lì a poco più di un mese, lo scioglimento dei rispettivi governi e/o parlamenti e che, di fatto, ha emarginato totalmente le forze albanesi più radicali o movimentiste. Avevamo allora commentato ("Notizie Est" #294, 23 dicembre 1999) che questi ultimi due eventi, insieme ad alcuni altri, rimandavano tutti a un "regolamento di conti" che sarebbe caduto grosso modo tra fine gennaio e i primi di febbraio. Nei fatti ciò è avvenuto con la lunga crisi di Mitrovica, nella quale le conseguenze dello scioglimento dei governi degli albanesi del Kosovo e quelle del processo di integrazione dei serbi del Kosovo nelle istituzioni della "comunità internazionale" hanno svolto un ruolo centrale, insieme alle faide tra paesi NATO rispetto ai futuri assetti della ex provincia serba (si veda "Notizie Est" 311 (1) e (2) del 13 e 15 marzo 2000). In generale, il mese abbondante della crisi di Mitrovica è stato un periodo in cui evidentemente sono stati ritracciati i confini delle rispettive "competenze" tra alleati, tra forze serbe e tra settori politici albanesi. Dopo Mitrovica, come abbiamo rilevato ("Notizie Est" #313, 19 marzo 2000), vi è stata la "svolta" degli Stati Uniti nei confronti degli albanesi (beninteso, senza sacrificare i propri uomini di fiducia Thaci e Ceku, esposti tuttavia a chiari ricatti), accompagnata dall'ennesima campagna giornalistica "revisionista". Negli ultimi giorni, infine, un ex ministro di Milosevic e membro del Partito Radicale di Seselj, Rada Trajkovic, è entrata a fare parte, seppure come osservatore, dell'Amministrazione temporanea di Kouchner. Oggi sembra che ci troviamo di fronte a una nuova, e più avanzata, fase di trattative sotterranee con Belgrado, a livello diplomatico e militare, come abbiamo visto nella prima parte. Che il tutto vada per le lunghe e non proceda assolutamente in maniera lineare è una conseguenza delle profonde divisioni tra gli occidentali, evidenziatesi già durante la guerra del 1998 e i bombardamenti del 1999, e oggi ancora più che vive. Ma in realtà esiste un lungo filo conduttore che conferma la continuità di fondo di una tale linea e che può essere chiaramente individuato in alcuni momenti chiave dell'anno scorso.

DICEMBRE '98-GENNAIO '99: DALL'OFFENSIVA DI PODUJEVO AL MASSACRO DI RACAK
Nei mesi che hanno immediatamente preceduto la guerra della NATO contro la Jugoslavia svariate fonti avevano avanzato la tesi secondo cui all'orizzonte c'era una spartizione del Kosovo, nei fatti concordata tra Occidente e Belgrado, tra una zona nord e/o est, assegnata alla Serbia, e una zona sud-ovest, che sarebbe diventata un protettorato o addirittura un'entità indipendente albanese. Alcuni ipotizzavano che, affinché ciò avvenisse, lo stesso regime di Belgrado avrebbe potuto avere bisogno dello scatenarsi di una "breve" guerra, attaccando l'UCK e deportando in massa la popolazione, stando invece attento a non colpoferire in alcun modo la NATO, con la quale si sarebbe poi dovuti giungere a una soluzione concordata (si veda per esempio l'articolo del quotidiano bulgaro "Sega", basato sui materiali dell'agenzia Beta e tradotto in "Notizie Est" #188, 16 marzo 1999). Non era uno scenario campato in aria e aveva invece ben concreti riscontri sul terreno. La spartizione era scritta a lettere più o meno chiare in una lunga serie di eventi prodottisi tra dicembre e gennaio del 1999, che riassumiamo qui di seguito. C'è stata innanzitutto l'offensiva di Podujevo, condotta da forze serbe nel nord del Kosovo intorno a Natale ("Notizie Est" #133 e #134, 27 e 29 dicembre 1999). Alcuni giorni dopo, vi è stato lo strano "assedio" di Pristina avviato l'8 gennaio da parte di drappelli di serbi bene armati, appoggiati politicamente da due personaggi, oggi tornati in prima fila e presunti "moderati", Momcilo Trajkovic e Rada Trajkovic (vedi sopra), i quali promuovevano allora la creazione di una "Regione Autonoma del Kosovo", un'entità serba intesa quale primo passo verso una spartizione ("Notizie Est" #140, 9 gennaio 1999; AIM, 14 gennaio 1999), seguito il giorno successivo dal dispiegamento di 50 carri armati jugoslavi intorno a Pristina e dalla diffusione, da parte del Media Centar serbo della voce di un'imminente azione drammatica nella città (AFP, 9 gennaio 1999; AIM, 11 gennaio 1999). Sempre il 9 gennaio, vi è stato il rapimento di alcuni soldati jugoslavi da parte dell'UCK a Mitrovica e il conseguente dirigersi di mezzi corazzati jugoslavi verso la stessa città ("Notizie Est" #145, 17 gennaio). L'8-9 gennaio mezzi corazzati serbi hanno cominciato a dislocarsi sulla strada Pristina-Suva Reka, attaccando e bombardando alcuni villaggi (AIM, 11 gennaio; si veda anche il successivo Rapporto OSCE sul Kosovo, del dicembre 1999), un'azione militare che avrebbe trovato il suo culmine il 15 gennaio con il massacro di Racak (45 albanesi uccisi, nemmeno una vittima tra le forze serbe). In questo periodo, ogni sviluppo militare o armato ha riguardato la fascia est del Kosovo, considerata quella di competenza serba in ogni piano di spartizione di quest'ultimo, cosa che non era sfuggita per esempio al giornalista Fehim Rexhepi già in occasione della prima offensiva di Podujevo (in un articolo intitolato profeticamente "Oggi Podujevo, e domani...?", AIM, 26 dicembre 1998). Tutto questo veniva in un momento di forti divisioni interne in campo occidentale e mentre persistevano le divisioni tra le fazioni politiche albanesi. Inoltre, tali sviluppi sono venuti subito dopo la chiusura del ciclo di radicali purghe interne al regime di Belgrado, con le quali Milosevic si era liberato dei principali ostacoli all'interno dei servizi segreti e dell'esercito (Stanisic e Perisic). Il 15 gennaio, lo stesso giorno del massacro di Racak, il corrispondente da Belgrado del quotidiano macedone "Nova Makedonija" anticipava inoltre l'imminente entrata di Vuk Draskovic nel governo serbo, di cui si parlava già da dicembre e avvenuta poi da lì a pochi giorni. Insomma, Belgrado inviava in quei giorni alle proprie controparti occidentali alcuni chiari messaggi: un giro di vite interno e di consolidazione politica da "unità nazionale di guerra" (Draskovic è entrato nel governo dichiarando di farlo "per il bene dello stato e per la difesa del Kosovo"), gli strani fatti di Pristina dell'8-9 gennaio, che ha prefigurato tecnicamente il successivo svuotamento della città in aprile, e un intenso attivismo militare lungo quelli che sono alcuni dei confini classici della spartizione. In questo contesto, il massacro di Racak costituisce allo stesso tempo uno "sfregio" attentamente esibito (è stata la polizia serba ad avvisare gli osservatori OSCE, salvo poi cannoneggiare il villaggio il 17 e il 18 per portarsi via i cadaveri ["Dnevni Telegraf", 19 gennaio 1999 e "Le Monde", 20 gennaio 1999]), ma anche un messaggio in codice. Racak, infatti, dell'ipotesi di spartizione che va da Mitrovica fino a Urosevac e più in giù al confine macedone, rappresenta il punto più occidentale, ovvero l'"ipotesi massima". Non è tutto: il confine della spartizione è segnato in massima parte dal fiume Sitnica, che scorre verso settentrione e passa per Mitrovica, dove si congiunge con l'Ibar. Ebbene, la Sitnica, all'inizio del suo corso, passa esattamente sotto Racak e nasce qualche chilometro al di sopra del villaggio. E' quindi più che ipotizzabile che il massacro, oltre ad agitare di fronte all'occidente lo spettro di quanto sarebbe successo da lì a poco, sia stato anche un marcare il confine, l'avanzare una proposta sulla quale, con ogni probabilità, vi sono state successive trattative. In quei giorni (si veda "Notizie Est" #150 dell 22 gennaio, terza puntata di un lungo speciale "a caldo" su Racak) avevamo rilevato la strana agitazione del ministro degli esteri Dini e dell'allora ministro della difesa Scognamiglio, che trapelava dal alcune loro conferenze stampa e interviste. In particolare, Scognamiglio, nei giorni immediatamente successivi al massacro, rilasciava al "Corriere della Sera" (18 gennaio 1999) un'intervista nella quale diceva che ""Potrebbe scatenarsi una nuova ondata di profughi. Dobbiamo evitare che 500.000 [?? - a.f.] disperati in fuga si riversino sulle nostre coste. Sarebbe un disastro [...]. Bisogna trattenere le persone che fuggono dal Kosovo nell'area settentrionale dell'Albania". Successivamente, nel corso della guerra, avevamo osservato che Scognamiglio evidentemente già allora sapeva quanto sarebbe avvenuto ["Notizie Est", commento: "Scognamiglio sapeva?", distribuito il 18 aprile 1999]. E in parte lo stesso ex ministro lo ha confermato il 18 marzo di quest'anno in un'altra intervista concessa al "Corriere della Sera", in cui tuttavia Scognamiglio fa affermazioni decisamente fuorvianti, come quando afferma che sarebbe venuto a sapere di una guerra imminente perché ai primi di dicembre del '98 Wesley Clark gli avrebbe detto, "in base alle informazioni riservate di cui disponeva", che a primavera sarebbe ripresa la guerra: ma quella era una cosa che allora si diceva ovunque in Kosovo e si scriveva tranquillamente sui giornali. E' probabilmente vero che settori USA si muovessero già allora nella direzione dei bombardamenti, ma non certo in base a "informazioni riservate". Scognamiglio si è invece sempre attentamente astenuto dallo specificare come mai a metà gennaio già sapesse di un sostanziale svuotamento del Kosovo (500.000 profughi) - quello che poi è stato battezzato piano "Ferro di cavallo" doveva evidentemente già allora essere noto a molti. A nostro parere, non è un caso che proprio in queste ultime settimane di manovre diplomatiche e militari con la Serbia siano state ritirate fuori nuove teorie "negazioniste" sul massacro di Racak e, contemporaneamente, sia scoppiato lo scandalo "Ferro di cavallo", ma su questo torneremo più sotto, limitandoci a notare che è dopo (e in parte anche durante?) tutto questo periodo tra dicembre e gennaio che all'interno dell'amministrazione USA e della NATO ha preso quota la soluzione dell'intervento aereo, che tuttavia si è concretizzato molto più tardi, due-tre mesi dopo. Il problema concreto più difficile da risolvere, per ogni spartizione, è quello dei confini esatti e due mesi di trattative possono essere senz'altro stati un tempo plausibile per trovare una soluzione in tal senso.

La "teoria" della spartizione del Kosovo è tuttavia sembrata poi smentita dall'esito della guerra e dagli sviluppi dei primi mesi che vi hanno fatto seguito. In particolare, l'esercito serbo si è completamente ritirato dal Kosovo e oggi l'ex provincia serba è formalmente un protettorato unico e "integro" dell'ONU. Ma sia la strada che ha portato a tale soluzione, sia alcuni fatti macroscopici della situazione sul terreno oggi, recano numerose chiare tracce dei progetti di spartizione e mostrano frequenti coincidenze, talvolta sconcertanti, con gli sviluppi degli ultimi mesi.

La guerra tra la NATO e la Serbia non è stata un processo lineare. Non è questa la sede per ripercorrerne in dettaglio il percorso, ma a somme linee si può dire, relativamente alla NATO, che vi è stata una prima fase spavalda ("la guerra durerà una, al massimo due settimane"), seguita da una seconda fase, iniziata approssimativamente attorno a Pasqua, di crescente imbarazzo per i mancati effetti politici dei bombardamenti e per l'amplificarsi fino a dimensioni enormi delle deportazioni di albanesi dal Kosovo. Tra fine aprile e inizio maggio si è aperta una breve, ma intensa fase distensiva, in cui è sembrato che un accordo fosse possibile, anzi vicino, ma tutto poi è saltato con il bombardamento dell'ambasciata cinese. E' seguita quindi una nuova fase di imbarazzo e di forti attriti tra alleati, chiusasi con un'intensificazione dei bombardamenti, le voci di un intervento di terra (cui non abbiamo mai creduto) e un'accelerazione diplomatica che ha infine portato agli accordi di Kumanovo. Ci sembra particolarmente utile ripercorrere, a un anno di distanza, alcuni degli sviluppi che oggi in retrospettiva ci sembrano più importanti di quei due mesi e mezzo di guerra.

APRILE: COMINCIA L'IMBARAZZO
La guerra vera e propria era cominciata all'indomani del più che preannunciato fallimento della conferenza di Parigi. Il 20 marzo cominciava una vasta offensiva delle forze serbe in Kosovo e il 24 cominciavano i bombardamenti NATO sul Kosovo e sulla Jugoslavia. La quasi totalità delle numerosissime testimonianze postume dei protagonisti della guerra parla di bombardamenti che avrebbero dovuto durare una o due settimane al massimo (con accuse reciproche tra diverse fazioni riguardo al fallimento di tale ipotesi). Ciò sembrerebbe confermato dal fatto che la NATO ha in effetti cominciato a dare segni di nervosismo dopo una settimana e, soprattutto, di chiaro imbarazzo dopo due settimane (imbarazzo che trapelava ancora, nascosto tra i toni trionfalistici, nel vertice NATO del cinquantenario, il 24 aprile, con la crisi dei profughi ormai dilagante e il proseguire di bombardamenti che non producevano effetti sul piano politico). Vi sono chiari segni, allo stesso tempo, del fatto che la parte serba abbia in qualche modo "celebrato" queste due scadenze. Infatti, il primo aprile, dopo la scadere della prima settimana di bombardamenti, si verificano contemporaneamente due eventi di grande importanza: la comparsa dello stesso Rugova, sorridente, in amichevole conversazione con Milosevic, da una parte, e la cattura di tre soldati USA al confine con la Macedonia. La "coincidenza" della contemporaneità di questi due fatti si ripeterà, con un minimo scarto temporale, nel periodo cruciale di inizio maggio: gli ostaggi verranno liberati il 2 maggio, Rugova verrà inviato in Italia il 5 maggio. E' una coincidenza significativa, che si prega di tenere a mente quando andremo a vedere il periodo di inizio maggio.

La scadenza delle due settimane è stata contrassegnata da tre altri fatti: il 6 aprile ci sono stati la tregua unilaterale di Belgrado e la chiusura temporanea dei confini con l'Albania (e quindi del flusso di profughi), mentre in campo NATO, il 7 aprile, Rudolf Scharping ha rivelato l'esistenza di un piano serbo denominato "Ferro di cavallo", di cui ha affermato di essere in possesso. La comparsa di Rugova in compagnia di Milosevic e la presa degli ostaggi sono due eventi che indicano rispettivamente un allettamento all'apertura di trattative e una minaccia (la presa di ostaggi, mossa classica in questi casi) nel caso in cui tali trattative non fossero state aperte. Le mosse del 6 aprile costituivano una ripetizione dell'invito alla trattativa (la chiusura del "rubinetto dei profughi" in momenti chiave è stata una costante di questa guerra). Perché l'Occidente non ha risposto in qualche modo e si è invece inabissato in tre settimane di enorme imbarazzo e di scambi di accuse reciproche a volte espliciti? La nostra ipotesi è che Milosevic, conscio delle divisioni tra alleati e della loro fragilità politica, abbia semplicemente deciso di non rispettare i patti e abbia tentato di chiedere di più di quanto già patteggiato, con ogni probabilità in termini di confini. L'agitare il piano "Ferro di cavallo" da parte di Scharping proprio il 7 aprile, sembrerebbe confermare una tale ipotesi. Ci spieghiamo: la preparazione e la realizzazione di un'azione a "ferro di cavallo" (molti però usavano allora il termine "a tenaglia") era sotto gli occhi di tutti già prima dell'inizio dei bombardamenti, non c'era bisogno di alcun documento segreto, tanto più tardivo, per denunciarla. Il piano, tra le altre cose, è stato scarsamente sfruttato a scopo propagandistico, molto meno di quanto lo sia oggi per i motivi che tornano utili in questo momento. La scelta dei tempi di Scharping è strana: perché non ha rivelato il piano in tempi non sospetti e più utili, cioè prima dei bombardamenti, in modo da giustificare questi ultimi senza esporsi alla facile accusa di averci messo una pezza in un secondo tempo? Inoltre, è effettivamente vero che nessuno ha mai visto fisicamente quei documenti che rivelavano, comunque, un "segreto di Pulcinella". C'è una spiegazione semplice, a tutta questa serie di stranezze, e cioè che i documenti fisici non esistono o comunque non sono una scoperta di Scharping, ma che alla NATO li si conoscesse benissimo perché... erano stati oggetto di trattative. Questo a sua volta spiega la scelta dei tempi della loro rivelazione: non prima dei bombardamenti, come sarebbe stato più logico e conveniente in una logica di effettivo fronteggiamento tra Belgrado e NATO, ma nel momento in cui le cose non stavano andando come avrebbero dovuto andare, per cui li si è agitati per inviare il messaggio: "attenzione, i patti erano questi, perché non li si rispetta più?". Il fatto che oggi vengano ritirati fuori con "rivelazioni" pressoché contemporanee proprio il massacro di Racak ("non è stato un massacro, ma un normale scambio di fuoco" - una tesi assolutamente grottesca, visto che da parte albanese ci sono 45 morti, e da parte serba nemeno un morto e un solo ferito di striscio - di che razza di scambio di fuoco si è mai trattato?) e il piano "Ferro di Cavallo" ("non è mai esistito, Belgrado ha solo attaccato, giustificatamente, l'UCK") è a tale proposito eloquente. Oltre a mandare i soliti messaggi trasversali a chi li sa intendere, si vogliono probabilmente cancellare, o meglio avvolgere nella nebbia, due tracce fondamentali di rapporti inconfessabili. Proprio lo stesso 7 aprile, il "Chicago Tribune", in un articolo sulla tregua proposta da Milosevic e sulle ipotesi di spartizione scriveva che secondo le parole del portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, Mike Hammer, "Clinton si oppone alla spartizione e vuole che la Serbia mantenga il Kosovo come una provincia largamente autonoma in grado di governare i propri affari interni. Ma [Hammer] ha detto anche che è concepibile che, per un certo tempo, truppe serbe e della NATO potrebbero occupare diverse parti del Kosovo lungo una linea di tregua simile a una spartizione". Il 21 aprile Madeleine Albright escludeva la possibilità di una spartizione, ma spiegava questa esclusione con il fatto che non è possibile "arrivare a una spartizione netta". Poi attribuiva alla Gran Bretagna l'idea di creare un'area ["area", si noti il termine] protetta internazionalmente, con un autogoverno protetto da tale forza militare internazionale, ma aggiungeva il proprio commento: "penso che sia difficile che gli albanesi possano tornare a vivere fianco a fianco con i serbi, dopo le atrocità commesse" (Reuters, 21 aprile 1999).

Le divisioni a livello politico e militare sono andate aumentando nella NATO proprio nel periodo successivo. Dopo il vertice NATO del 24 aprile, tuttavia, vi è stata all'improvviso una vera e propria accelerazione verso un accordo di pace, difficile a spiegarsi sulla base degli sviluppi "pubblici" (i bombardamenti proseguivano sullo stesso livello, quella degli Apache era ormai una farsa chiara a tutti e Milosevic non era certo sul punto di cedere, visto che poi ha resistito ancora per più di un mese). Per comprendere tale nuova fase, naturalmente, è necessario riesaminarla almeno cronologicamente.

MAGGIO: DALL'ACCORDO IMMINENTE AL RIMESCOLAMENTO DI CARTE
La cronologia di questi "10 giorni chiave" (29 aprile-8 maggio) è da sola sufficientemente eloquente [le fonti della cronologia che segue sono le agenzie AFP e UPI dei rispettivi giorni]. Il 29 aprile arriva a Belgrado la missione del democratico statunitense Jesse Jackson, che si ripropone di ottenere qualcosa per i tre soldati USA prigionieri in Serbia; il 30 aprile Milosevic concede un'intervista alla UPI dai toni spesso concilianti, nella quale vanta le privatizzazioni realizzate e sottolinea il suo favore all'economia di mercato e all'UE, per poi formulare i suoi 6 punti per un accordo di pace; il 1 maggio a Belgrado vi è un incontro tra Cernomyrdin e Milosevic; sempre il 1 maggio e sempre a Belgrado, Jackson ottiene in giornata la promessa di liberazione dei tre militari, che verranno poi rilasciati il giorno successivo; il 3 maggio Clinton annuncia che potrebbe esservi una pausa nei bombardamenti - è il primo tra tutti i leader NATO, dall'inizio dei bombardamenti, a prospettare esplicitamente una tale eventualità; il 4 maggio si ha la prima indiscrezione secondo cui i G-8 avrebbero raggiunto un accordo su una proposta di pace sotto l'egida ONU e nelle stesse ore Annan annuncia che verrà inviata in Kosovo una missione ONU per il ritorno dei rifugiati in Kosovo - della missione verrà incaricato il brasiliano Vieira de Mello (che successivamente, fino alla nomina di Kouchner, guiderà la missione ONU in Kosovo dopo gli accordi di Kumanovo); il 5 maggio Ibrahim Rugova viene inviato da Milosevic in Italia, dopo accordi presi tra il presidente jugoslavo e il ministro degli esteri italiano Dini; sempre il 5 maggio, la Macedonia chiude la frontiera di Blace e la polizia serba interrompe il flusso di profughi dall'altra parte del confine - due giorni dopo non ve ne sarà più nemmeno uno in attesa al confine; ancora il 5 maggio, un elicottero Apache esplode in volo durante un'esercitazione "75 km. a nord-est di Tirana", ovvero in una zona vicinissima al confine con il Kosovo - due militari USA muoiono; il 6 maggio, in Kosovo, viene ucciso Fehmi Agani, braccio destro di Rugova e membro della delegazione albanese a Rambouillet, ma anche l'uomo che rappresentava l'anello indipensabile di ogni accordo per una posizione politica unitaria tra le forze politiche albanesi del Kosovo; ancora il 6 maggio, parte per Ginevra il primo emissario della missione "de Mello", che nei giorni successivi dovrebbe essere seguito da altri, per poi partire tutti insieme per il Kosovo l'8 maggio; nelle stesse ore dello stesso giorno i G-8 mettono a punto il piano di pace e decidono di chiedere l'approvazione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, decisione a proposito della quale Clinton osserva: "se la Russia è a favore, anche la Cina lo sarà"; il 7 maggio mattina viene data una serie di annunci più che eloquenti: Schroeder si recherà a Pechino l'8 e 9 maggio per discutere il piano di pace con i cinesi, Madeleine Albright si incontrerà la sera stessa con Annan per un'analoga discussione, Talbott il 10 maggio si recherà a Mosca con il generale USA Fogelsong per discutere i dettagli dell'implementazione, in Giappone si scrive che Yakushi Akashi (ex capo della missione ONU nella ex Jugoslavia) si recherà a giorni a Belgrado per trattare con Milosevic; ancora il 7 maggio, si svolge a Vienna una riunione in cui per la prima volta si parla di Patto di Stabilità nei Balcani e si decide che la relativa conferenza si terrà il 27 maggio - i ministri degli esteri di Germania e Austria auspicano un'integrazione della Serbia (comunque non invitata alla conferenza) nel processo; sempre il 7 maggio, Jakup Krasniqi, portavoce dell'UCK a Tirana, respinge il piano dei G-8 affermando che "il disarmo dell'UCK e la protezione dell'integrità territoriale della Jugoslavia sono inaccettabili" (Krasniqi ha successivamente accettato senza battere ciglio queste due condizioni e oggi è il n. 2 del partito di Thaqi); la mattina del 7 maggio, bombe a grappolo della NATO "sbagliano l'obiettivo" e cadono tra un ospedale e un mercato a Nis, uccidendo almeno 15 persone e ferendone moltissime altre; la sera dello stesso 7 maggio (23.45, ora locale) aerei NATO bombardano "per errore" l'ambasciata cinese a Belgrado; cinque ore dopo, si riunisce d'emergenza il Consiglio di Sicurezza - l'ostacolo alla sua approvazione in tempi rapidi di una risoluzione è stato così creato. Per un paio di giorni alcune iniziative proseguono evidentemente per inerzia (Chirac incontra l'8 maggio il presidente finlandese Ahtisaari per parlare di Balcani), ma già l'8 maggio Schroeder esprime a Cernomyrdin i suoi dubbi in merito all'opportunità di un altro viaggio di quest'ultimo a Belgrado; il giorno stesso Cernomyrdin si incontra a Bonn con Rugova, rispetto al quale ha parole entusiaste: "Rugova vuole il disarmo dell'UCK, è a favore dell'autonomia all'interno della Jugoslavia ed è disposto a tornare a Belgrado per trattare"; Cernomyrdin afferma anche di avere parlato al telefono con Milosevic che si è dimostrato "molto contento". Ma poi tutto il processo di trattative per un accordo si blocca e partono nuove trattative (ora è Talbott in prima fila, sempre insieme a Cernomyrdin), che lasciano intendere come si debba rivedere molto di quanto era stato concordato. Schroeder non si reca a Pechino l'8-9 maggio, come preannunciato, ma solo l'11 maggio e per sole 24 ore, invece dei tre giorni previsti. Va notato tuttavia che il piano per l'invio di una missione ONU guidata da Vieira de Mello prosegue: il 10 maggio de Mello è a Belgrado e successivamente la missione si svolge nei giorni dal 14 al 17 maggio, durante i quali gira per il Kosovo scortata dalla polizia serba - è interessante rilevare che de Mello aveva affermato di avere preso "accordi di sicurezza" anche con l'UCK, ai fini dell'organizzazione di questa missione.

Particolarmente rilevante risulta essere, retrospettivamente, la missione di Jackson per la liberazione degli ostaggi [le fonti, dove non citate, sono ancora i dispacci AFP e UPI dei relativi giorni]. Abbiamo già detto che sabato 24 aprile si era tenuto l'importante vertice per il cinquantenario della NATO. Lunedì 26 aprile, quando ancora l'imminente missione non era stata resa pubblica, Jesse Jackson si reca al Dipartimento di Stato per mettere a punto il piano di viaggio a Belgrado. E' accompagnato dal senatore democratico Rod Blagojevich, che dai dispacci di agenzia sembra in realtà essere il perno della missione. Blagojevich, viene definito all'AFP "l'unico senatore USA di origine serba" e di lui l'agenzia scrive che "si oppone fortemente all'uso di truppe di terra NATO per rintuzzare l'espulsione degli albanesi da parte delle forze serbe in Kosovo. Ha sempre insistito per una soluzione diplomatica incentrata su una spartizione della provincia serba tormentata dalla guerra. Il suo piano di spartizione manterrebbe 'la maggior parte possibile delle cattedrali e dei luoghi storici sacri serbi' in mani serbe e metterebbe 'la maggior parte possibile di case albanesi all'interno di un'area autogovernata contigua all'Albania'". Secondo un articolo retrospettivo del "Los Angeles Times" (6 giugno), l'iniziativa della missione Jackson sarebbe partita dopo una telefonata di Bogoljub Karic, il miliardario serbo prossimo a Milosevic, fatta proprio a Blagojevich. Il 27 aprile l'imminente missione viene annunciata pubblicamente e il 28 Jackson e Blagojevich si recano alla Casa Bianca, dove hanno un colloquio con Sendy Berger - ufficialmente la Casa Bianca prende le distanze dalla loro missione, ma i successivi sviluppi, e l'immediata dichiarazione da parte di Clinton, dopo la liberazione degli ostaggi, che "i bombardamenti potrebbero forse cessare" fanno piuttosto pensare a una missione delicatissima, della quale non si desidera prendere la paternità prima del suo compimento. Ma ci sono ancora "coincidenze" interessanti e davvero stupefacenti, che rimandano a tempi più recenti: ufficialmente la missione è composta da Jackson, Blagojevich e 24 leader religiosi statunitensi. In realtà, i leader religiosi (quasi tutti ortodossi di origine serba o comunque slava) coprono quasi tutta la rimanente parte dei membri, ma non tutti: della delegazione, infatti, fanno parte un dirigente della ICN (l'azienda farmaceutica del miliardario serbo-americano Panic, già primo ministro della Jugoslavia nel 1992) e Landrum Bolling, del Conflict Management Group (si veda http://www.nandotimes.com - 1 maggio 1999). Bolling è uno dei tre esponenti americani che successivamente, nel dicembre del 1999 hanno partecipato a Sofia al già menzionato incontro tra serbi del Kosovo e di Belgrado e diplomatici USA. Inoltre, nel sito web ufficiale della Rainbow/PUSH Coalition (la coalizione guidata da Jackson) compare una pagina (http://www.rainbowpush.org/whatsnew/delegation.html) aggiornata il 2 maggio dove vi è l'elenco dei membri di una "Missione Umanitaria in Kosovo" (una svista rispetto alla missione a Belgrado, oppure una missione prevista e mai più realizzatasi?), composta da tutti i membri della missione Jackson-Blagojevich (ivi compresi questi due e Landrum Bolling) e dove in più troviamo anche il nome di David Steele, del Center for Strategic & International Studies di Washington, un altro degli artefici dell'incontro di Sofia del dicembre scorso. A Sofia, quindi, si sono incontrati da una parte Bolling, Steele, Miles e Menzes (quest'ultimo, già capomissione USA a Sarajevo e uno degli architetti del piano di Dayton, nei fatti una spartizione della Bosnia), dall'altra Momcilo Trajkovic e Rada Trajkovic, a lungo fautori della spartizione e molto attivi nei giorni intercorsi tra Podujevo e Racak, Dusan Batakovic, uno dei maggiori teorici serbi della spartizione del Kosovo, e alcuni degli esponenti dell'ala dura di Mitrovica attivatisi a febbraio, come Marko Jaksic e il presidente del Consiglio Nazionale Serbo di Mitrovica, Vuko Antonijevic (sul suo elogio della mattanza antialbanese del 3-4 febbraio scorso si veda "Notizie Est" #311 (1) del 13 marzo 2000).

A parte queste numerosissime coincidenze tra il periodo del gennaio '99 e gli avvenimenti convulsi del maggio del '99, da una parte, e gli sviluppi più recenti della riapertura di canali tra USA e Belgrado e del revisionismo sulla guerra, dall'altra, la cosa che salta subito all'occhio è il giorno e l'ora in cui è avvenuto il bombardamento dell'ambasciata cinese, che avendo colpito uno dei membri del Consiglio di Sicurezza ha mandato all'aria l'accordo di pace (tuttavia realizzatosi ugualmente da lì a meno di un mese). Anche qui abbiamo un'altra "coincidenza" tra quella settimana e gli sviluppi di queste ultime settimane, visto che, come abbiamo già notato, la Cina ha riaperto la questione dell'ambasciata ("non ci bastano più i risarcimenti per decine di miliardi, vogliamo la punizione dei colpevoli") all'indomani della crisi di Mitrovica, ottenendo subito una, seppure parziale, soddisfazione dagli USA proprio in questi ultimissimi giorni. Se a questo aggiungiamo le "coincidenze" delle rivelazioni su Racak e sul piano "Ferro di cavallo" abbiamo un quadro davvero inquietante. Ma non è tutto. Seppure in maniera indiretta, negli sviluppi più recenti ci sono altri due elementi che rimandano a quei giorni.

Abbiamo constatato di recente ("Notizie Est" #319, 4 aprile) come la cronologia dell'arrivo di Ceku in Kosovo sia poco chiara. In particolare, se è evero che egli vi è giunto alla fine di marzo, non si capisce cosa è successo nei quaranta giorni circa (egli mantiene a proposito un rigorosissimo silenzio) passati prima che venisse nominato comandante in capo dell'UCK. Anche qui, ci sono delle strane coincidenze temporali. Ceku afferma di essere arrivato in Kosovo il 20 marzo, ma la sua nomina a comandante dell'UCK avviene solo il 3 maggio. La notizia viene data da un fantomatico portavoce dell'UCK in Albania, Visar Reka, il cui nome compare per la prima e ultima volta in tale occasione (la fonte è "Albanian Daily News") - nonostante si diffonda rapidamente in tutto il mondo, la conferma ufficiale dell'UCK, attraverso la Kosovapress, arriva solo il 13 maggio. Anche in questo caso c'è una differenza tra il "prima" e il "dopo" bombardamento dell'ambasciata cinese, che potrebbe tuttavia essere dovuto anche al mancato raggiungimento di un equilibrio tra le forze albanesi (perché però si è risolto proprio in quei giorni, se è così?). Ma la figura di Ceku si lega anche a un importante episodio passato, da una parte, e agli sviluppi più recenti, dall'altra. L'ex comandante dell'UCK infatti è il secondo "kosovaro-croato" a fare la comparsa sulla scena, il primo essendo stato Ahmet Krasniqi, creatore delle FARK (Forze Armate della Repubblica del Kosova) e ucciso in Albania nel settembre 1998. L'arrivo di Ceku in Kosovo è stato interpretato da molti, e fin da quel maggio '99, come una mossa per ricoinvolgere nell'UCK le FARK, legate a Bukoshi e indirettamente a Rugova, che proprio in quei giorni era al centro dell'attenzione mondiale con il suo arrivo a Roma. Ma ciò che lega le figure di Ahmet Krasniqi e di Agim Ceku è il fatto che siano stati entrambi ufficiali dell'esercito jugoslavo, e Ceku in più ha acquisito una grossa esperienza pratica come generale di Tudjman. E' evidente che egli ha un ruolo necessariamente importante in ogni progetto della NATO, proprio per queste sue esperienze che all'interno dell'UCK, altrimenti, mancano completamente. Ogni accordo che abbia importanti ricadute militare (e quello di una spartizione, immediata o progressiva è tale), richiede un interlocutore esperto, e Ceku è esperto di esercito jugoslavo - uno dei motivi per i quali riteniamo che Hill, e i due generali che lo accompagnavano, abbiano trattato il 9 aprile scorso proprio con lui e non, per esempio, con Thaqi.

L'ultima coincidenza, forse meno rilevante ed evidente, ma che vale la pena di segnalare, è quella del numero delle truppe NATO in Kosovo. Fino all'"incidente" del bombardamento dell'ambasciata cinese, la cifra regolarmente citata per una forza di pace in Kosovo era di 28.000 soldati. Intorno a metà maggio, si è cominciato a parlare ufficialmente di 50.000 soldati circa (per es., UPI, 19 maggio). Questi dati quadrerebbero con il venire a cadere dell'ipotesi di una spartizione in termini immediati: essendo maggiore il territorio da controllare direttamente, sono di più anche i soldati. Va notato che il 4 maggio il "Wall Street Journal" aveva tuttavia anticipato questo sviluppo, suscitando una secca smentita di Wesley Clark ("non vi è un briciolo di verità nella notizia"), smentito a sua volta da lì a due settimane. La questione dei numeri della KFOR è stata in primo piano durante l'intera crisi di Mitrovica e il numero di soldati della missione rimane ancora largamente inferiore a quello previsto (dopo i recenti "rinforzi", 39.000 soldati - una cifra, guarda caso, a metà tra 28.000 e 50.000).

DA META' MAGGIO A KUMANOVO E DOPO
Un altro dei momenti chiave della guerra è stato, naturalmente, quello degli ultimi giorni prima dell'accordo di pace del 3 giugno e della successiva definizione dei dettagli tecnici e militari a Kumanovo fino al 9 giugno. In questa sede lo tratteremo molto in breve, avendo scelto (per il momento) di concentrarci su altri momenti. La tendenza generale è stata in tale periodo quella di un rimescolamento delle carte, dopo il bombardamento dell'ambasciata cinese, ma non quella di un'inversione di rotta. Le trattative sono proseguite lungo tracce non divergenti da quelle impostate a inizio maggio (le missioni di Cernomyrdin, per esempio, o il ruolo di Talbott), nonostante l'intensificazione dei bombardamenti. Di questo periodo l'elemento più evidente è stato l'attivismo di Tony Blair nel mettere in imbarazzo gli USA con le sue insistenti proposte di un ben poco credibile attacco di terra. Le prime voci esplicite che parlavano di un tale progetto si sono diffuse l'11 maggio, il 18 maggio il premier britannico per la prima volta pone la questione di fronte a Clinton e il 21 maggio, secondo indiscrezioni del "Guardian", Blair e Clinton avrebbero parlato dell'argomento per telefono per più di un'ora e mezza e il presidente USA avrebbe perentoriamente chiesto al premier britannico di cessare le sue uscite pubbliche sull'intervento. Negli stessi giorni sulla stampa internazionale si torna a parlare di spartizione, e il 21 maggio si pronuncia apertamente a favore di questa ipotesi anche Franjo Tudjman ("NIN" 27 maggio 1999). Il 24 maggio l'accordo era nell'aria, visto che veniva deciso di aumentare i contingenti NATO in Albania e Macedonia esattamente della quantità di effettivi necessaria per l'entrata di 50.000 uomini in Kosovo (ma la cosa veniva mascherata da molti media come l'indicazione di un'imminente attacco di terra, che avrebbe richiesto invece ben altri numeri e, soprattutto, ben altri tempi). In quel momento si parlava ancora (naturalmente, non in via ufficiale) di una zona russa in Kosovo e di un contingente russo di 10.000 uomini. Il 27 maggio è arrivata la notizia dell'incriminazione di Milosevic da parte del Tribunale dell'Aia. Avevamo notato già allora ["Notizie Est" #235, 28 maggio 1999] come l'incriminazione avesse messo in imbarazzo soprattutto la Casa Bianca, mentre la Gran Bretagna era apparsa di gran lunga più univoca e attiva nella sua approvazione. Tale incriminazione, guardandola dalla prospettiva di oggi, non è stata un tentativo di fare saltare gli accordi, visto che il processo è continuato normalmente e, anche ai massimi livelli (Gran Bretagna compresa), si è subito precisato che nessuno avrebbe per questo rifiutato di trattare direttamente con Milosevic. Di lì a una settimana, infatti, la pace era stata concordata. Perché allora un'incriminazione, proprio in quel momento, di una persona le cui attività criminali erano note da anni? Se qualcuno voleva fare saltare gli accordi, perché poi nessuno si è premurato di sostenere che non era più possibile trattare con Milosevic e, anzi, quasi tutti si sono premurati di affermare il contrario? E perché lo stesso Milosevic, messo così al muro e dopo un tale affronto, non ha rotto le trattative (mossa che avrebbe sicuramente mandato nel panico la NATO)? La nostra opinione è che l'incriminazione di Milosevic sia stata in realtà un'ipoteca "inserita" nelle trattative (condotte da Russia e USA) per evitare che gli Stati Uniti e qualche paese europeo, già fortemente cedevoli ai primi di maggio (è questa la nostra tesi), giungessero ad accordi troppo accomodanti con Milosevic, come avevano intenzione di fare già un mese prima. L'incriminazione di Milosevic era evidentemente in quel momento una mossa di grande importanza per qualcuno (probabilmente alcuni settori europei, magari in collaborazione con settori minoritari USA), che non ha esitato ad applicarla, anche se oggi costituisce indubbiamente un grosso ostacolo a uno sblocco della situazione e a una ripresa di un ruolo centrale per la Serbia che tutti vogliono, ma sulle modalità del quale non vi è evidentemente comunanza di vedute. Tra le innumerevoli "coincidenze", va notato che proprio nei giorni scorsi il settimanale "Vreme" ha pubblicato un lungo articolo sul futuro politico di Milosevic, in cui la maggior parte degli esperti intervistati si pronuncia, proprio per aggirare il "blocco" dell'incriminazione, a favore di una soluzione negoziata di "pensionamento" politico del leader serbo che ricalchi più o meno il modello adottato per Pinochet. A tale proposito, il settimanale serbo scrive che in questi giorni Avramovic, uno dei leader dell'opposizione, sta girando le capitali occidentali al fine di avanzare una tale proposta ("Vreme", 8 aprile 2000). Ma torniamo agli ultimi giorni prima dell'accordo di pace del 3 giugno 1999. Secondo quanto scrive Steve Erlanger in un suo articolo retrospettivo pubblicato sul "New York Times" del 7 novembre 1999, a un giorno dall'accordo, cioè il 2 giugno 1999, "funzionari [della Casa Bianca] discutevano della creazione di un 'corridoio di uscita' limitato per fare defluire dal Kosovo gli albanesi sfollati interni, e di "aree protette" per loro all'interno del Kosovo stesso, dove avrebbero ricevuto cibo e riparo", cioè di uno scenario di spartizione di fatto. L'accordo generico di pace raggiunto a Belgrado è stato evidentemente solo il primo gradino di trattative proseguite poi nel concreto a Kumanovo, trattative che avrebbero dovuto essere rapide e sono invece durate svariati giorni e durante le quali abbiamo assistito nuovamente, come a Rambouillet, a ultimatum non rispettati ("se non si conclude entro stasera, nessun accordo" e invece poi le trattative sono durate ancora a lungo). E' fortemente ipotizzabile, come vedremo sotto, che a Kumanovo siano stati presi accordi per un riaggiornamento della situazione a scadenze definite (per esempio, un anno), in grado di accontentare almeno parzialmente tutte le parti in causa, in quel momento ansiose di chiudere la guerra, ma in disaccordo sulle modalità di questa chiusura: gli europei, gli USA, la Russia e Belgrado. A tale proposito sarà estremamente importante rianalizzare in altra sede anche gli sviluppi intercorsi tra gli accordi di Kumanovo e l'autunno dell'anno scorso, in particolare il ruolo della Russia.

OGGI: LE TRACCE DI SPARTIZIONE
Gli accordi di Kumanovo hanno portato a un pieno ritiro delle forze serbe dal Kosovo e, come abbiamo già osservato, a un protettorato sull'intera ex provincia. Sono fatti indiscutibili, ma con alcune eccezioni e osservazioni importanti da fare. Innanzitutto, vi è il caso macroscopico di Mitrovica e della regione circostante, cioè una spartizione di fatto sancita dalla NATO e il cui confine è ancora garantito dall'Alleanza stessa. Va ricordato che la limitatissima zona del Kosovo a maggioranza serba si trova a nord della città e del suo circondario, che sono invece sempre stati a netta maggioranza albanese. Questa spartizione, d'altronde, non è nemmeno una conseguenza della reazione alle violenze contro la popolazione serba, come quelle messe in atto altrove da albanesi dopo il rientro progressivo dei profughi, ma è avvenuta nel momento in cui l'esercito jugoslavo si ritirava e le forze NATO (francesi) entravano nella città. Ecco infatti la successione degli eventi (fonte: AFP dei rispettivi giorni): il 17 giugno le truppe NATO francesi entrano a Mitrovica con 15 carri armati e prendono il controllo degli snodi principali, tra cui i ponti tra la parte nord e quella sud della città, mentre solo il giorno dopo, il 18 giugno, le truppe di Belgrado cominciano a ritirarsi dalla città, un ritiro che viene completato, nella zona nord del Kosovo, solo il 20 febbraio, giorno in cui rientrano i primi profughi albanesi ai quali viene impedito di tornare nelle loro case della zona nord da bande di uomini serbi e dalla "interposizione" delle truppe NATO. Tra esercito jugoslavo e NATO vi è stato, in tal senso, un cambio della staffetta con il quale è stata sancita tale divisione. A Mitrovica, la NATO ha adottato una politica assolutamente diversa da altre zone del Kosovo, e non ha mai messo in discussione con i fatti tale spartizione. In secondo luogo, sempre sul lato "serbo", vi è da notare un altro fatto macroscopico che è difficile spiegare, se non con l'attesa, da parte di Belgrado, che si realizzino promesse fatte: nonostante sia stato sconfitto in maniera apparentemente umiliante, nonostante sia stato messo al muro con l'incriminaizone del Tribunale Internazionale e nonostante sia pubblicamente ridotto allo stato di paria internazionale, Milosevic (e i suoi oligarchi) non ha mai fatto quello che sarebbe stato naturale aspettarsi in una tale condizione: cioè qualche colpo di mano per cercare di aumentare il proprio peso contrattuale, oppure qualche provocazione sostanziale in Kosovo o in uno degli altri numerosi luoghi in cui dispone di leve sostanziali (Montenegro, Bosnia, Macedonia ecc.). In realtà, una delle cose che più colpisce del dopo-accordi di Kumanovo è come l'Esercito jugoslavo si sia ritirato diligentemente e puntualmente e come la Serbia, nei dieci mesi successivi, abbia sempre rispettato diligentemente i patti e si sia astenuta da ogni loro violazione e da ogni provocazione. Si tratta di un fatto che a suo modo è in armonia con il comportamento del regime di Belgrado durante i bombardamenti, nel corso dei quali le autorià serbe se la sono presa unicamente con gli albanesi del Kosovo e non hanno mai dato realmente fastidio alla NATO, né hanno cercato di indebolire l'avversario aprendo nuovi focolai che lo impegnassero altrove. Da parte sua, la NATO ha diligentemente evitato di colpire l'obiettivo che sarebbe sembrato più logico: l'esercito jugoslavo, uscito pressoché intatto da questa guerra, a differenza delle strutture civili - esercito con il quale oggi conduce trattive tenute segrete e di altissimo livello. Al di là delle virulente accuse verbali ufficiali e delle mosse di facciata, da entrambe le parti, la continuità di questa impostazione dei rapporti, prima, durante e dopo i bombardamenti, desta qualche legittimo sospetto. In terzo, e ultimo, luogo, vi è il fatto più che evidente che sul terreno del Kosovo, in termini demografici, è in atto una situazione che rimanda agli stessi confini della spartizione classica alla quale abbiamo accennato più sopra: le popolazioni minoritarie rimaste dopo la fuga delle forze serbe e jugoslave, e in particolare la popolazione serba, sono state scacciate pressoché per intero da tutta la zona occidentale di Pec, Djakovica, Prizren e della Drenica centrale, mentre nella parte orientale rimangono comunità serbe e rom più o meno folte (Mitrovica, Kosovo Polje, zone sul confine macedone). Si tratta di un dato evidente, che lascia intendere come ci siano anche settori albanesi che, come minimo, convivono pacificamente con ipotesi di spartizione, tanto più che nelle zone occidentali del Kosovo vi sono testimonianze precise non solo sulla sistematicità delle espulsioni di serbi e altre popolazioni minoritarie con metodi violenti da parte di importanti esponenti ex UCK, ma anche delle coperture che KFOR e OSCE forniscono loro (si veda il rapporto del Centro per il Diritto Umanitario di Belgrado: "The Lesson of Orahovac", di Natasa Kandic, 4 febbraio 2000), mentre per esempio ciò non avviene in altri settori, come quello USA, dove gli arresti sono numerosi e spesso anche arbitrari o ingiustificati. I fatti, quindi, dicono che le "tracce" di una spartizione più o meno concordata sul terreno ancora ci sono e che sono passibili di ulteriori sviluppi. Bisogna vedere in quale misura esse siano un residuo di progetti passati, in quale invece un'arma di contrattazione e in quale, ancora, una base per progetti futuri - e in realtà questo ora è impossibile stabilirlo con sicurezza. Tutto quello che è accaduto da febbraio in poi, tuttavia, indica come minimo che vi sono settori ancora molto attivi su ipotesi che potrebbero andare dalla spartizione effettiva, a soluzioni "bosniache", alla creazione di enclave "autogovernate".

CONCLUSIONE: IL PASSATO E IL FUTURO DEI PROGETTI DI SPARTIZIONE
Le ipotesi di spartizione del Kosovo hanno una storia lunghissima, che non ripercorreremo qui. Riguardo alla lunga guerra del Kosovo, per fare solo due tra i tanti esempi possibili, le si incontrano nel giugno del 1998, quando Solevic, ex uomo di Milosevic nella ex provincia serba e oggi esponente di Nuova Democrazia, formava la Guardia di Difesa Serba affermando che i serbi del Kosovo si dovevano organizzare per impedire la realizzazione del piano di spartizione del Kosovo messo a punto da Milosevic e Rugova nel loro incontro del maggio '98 (si veda "Notizie Est" #62, 25 giugno 1998), oppure ancora nel gennaio 1998, con le note dichiarazioni di Gligorov sull'imminenza di un conflitto in Kosovo e del flusso di 250.000 profughi albanesi "attraverso il punto di confine di Blace", cioè dal punto estremo della zona di spartizione di competenza serba ("Notizie Est" #21, 22 febbraio 1998). Le nostre ipotesi sono state formulate partendo a ritroso dagli ultimi sviluppi e andando a verificare quelli passati per guardarli attraverso la lente dei fatti più recenti. Abbiamo incontrato man mano coincidenze a volte stupefacenti. Abbozziamo qui sotto una spiegazione complessiva, secondo noi verosimile, dell'evoluzione degli avvenimenti, precisando che molti punti sono ancora da analizzare più nei dettagli.

Era chiaro fin da dicembre 1998, dal momento in cui le ipotesi di mediazione erano finite, con la presentazione di un nuovo piano Hill assolutamente sbilanciato verso le posizioni serbe e con la parte albanese totalmente divisa, nonché dalla conclusione del ciclo di purghe all'interno del regime di Belgrado, con la rimozione del capo di stato maggiore Momcilo Perisic, che si stava andava verso una radicalizzazione della situazione. In quel mese era sulla bocca di tutti che a marzo, appena la primavera lo avrebbe permesso, sarebbe scoppiato un nuovo conflitto aperto e di dimensioni maggiori di quello precedente. Come abbiamo visto, Belgrado a partire da fine dicembre e fino a metà gennaio, con il momento culminante di Racak, ha mandato segnali ben precisi riguardo ai suoi progetti. Questi segnali sono stati secondo la nostra ipotesi evidentemente colti da settori NATO sulla cui esatta composizione è difficile in questo momento pronunciarsi, ma che hanno coinvolto in larga parte gli USA. I quasi settanta giorni intercorsi tra il massacro di Racak e l'inizio dei bombardamenti, se questa ipotesi è giusta, sono stati necessari per la definizione di accordi sulla configurazione di una futura spartizione, da una parte, e per spaccare in due il movimento albanese, emarginando le parti più radicali o semplicemente meno controllabili perché più localmente radicate, prendendo invece a bordo la trojka di Rambouillet (Thaqi, Rugova, Qosja). E' difficile spiegare altrimenti l'evidente farsa di Rambouillet e Parigi - perché sarebbero stati necessari più di due lunghi mesi, con "negoziati" che avrebbero dovuto durare circa una settimana e sono durati un mese abbondante, ivi compreso il riaggiornamento tra Rambouillet e Parigi? Quei negoziati sono stati una cortina di fumo per altre intese, e questo lo dicono i successivi sviluppi, che non sono affatto tipici di una rottura dopo trattative fallite, semmai il contrario. I bombardamenti sono cominciati infatti senza alcun intoppo - come abbiamo notato più volte, quando si sapeva che mancavano pochi giorni al loro inizio, gli osservatori OSCE hanno lasciato indisturbati il Kosovo, un fatto atipico per una situazione di scontro e molto più caratteristico di una situazione di "conflitto" concordato. Perché, infatti, Milosevic ha preso tre ostaggi (i soldati USA) con un'azione spericolata solo una decina di giorni dopo, quando poteva prenderne con tutto comodo a centinaia prima dei bombardamenti, mettendo così in forse la loro realizzazione? Mai e poi mai, infatti, la NATO avrebbe dato il via a una tale operazione con il rischio di vedersi tornare subito a casa centinaia di bare con vittime di tutti i propri paesi membri. Ma Milosevic, che non si è certo astenuto successivamente né da stragi, né dalla presa di ostaggi (gli ultimi li ha presi nei giorni di Kumanovo e sono ancora nelle prigioni serbe), in questo caso si è astenuto dall'agire. Quanto hanno affermato vari alti esponenti occidentali, secondo cui la guerra sarebbe dovuta finire dopo una o due settimane di bombardamenti è con ogni probabilità vero. Ma quello che invece è con ogni probabilità successo è che Milosevic non ha rispettato i termini e ha voluto ritrattarli puntando sulle divisioni tra alleati (e quindi la sua comparsa con Rugova, che rimanda al famoso incontro svoltosi poi con esiti fallimentari, ma chiesto a gran voce dagli occidentali nel maggio '98, e la presa degli ostaggi, con la successiva offerta di tregua). Le tre successive settimane sono, come abbiamo già constatato, state contrassegnate da profonde divisioni e grande imbarazzo tra gli alleati, ma intorno al vertice per il cinquantenario si deve essere arrivati a una svolta. Tra i vari segni di una proposta di Belgrado che ha trovato orecchie disponibili in Occidente, c'è uno strano articolo di Erlanger (sempre lui...), pubblicato dal "New York Times" del 26 aprile, cioè il lunedì dopo il fine settimana del vertice NATO e nello stesso giorno in cui Jackson e Blagojevich si recavano al Dipartimento di Stato per mettere a punto la loro missione. Nell'articolo (tradotto in "Notizie Est" #217 del 4 maggio 1999) si riferiscono le testimonianze di un diplomatico occidentale anonimo che è appena stato in Kosovo e del quale oggi si può intuire che si trattava di un inviato della Comunità di Sant'Egidio, che proprio allora stava lavorando all'invio di Rugova in Italia. Nelle testimonianze si dipinge un quadro secondo cui le autorità jugoslave (che evidentemente hanno avuto contatti con il diplomatico) "stanno cercando di riconfigurare il quadro demografico del Kosovo e di ridurvi drasticamente l'incidenza degli albanesi" e si avanza anche una cifra: 600.000 albanesi che potrebbero rimanere. Si dice inoltre che i funzionari serbi si rendono conto "di dovere fare qualcosa per la loro immagine [...] ora che sentono di avere un livello di albanesi più o meno tollerabile", un quadro insomma di obiettivi raggiunti da parte dei serbi e di possibile cessazione spartitoria delle operazioni, con una scelta dei tempi che coincide perfettamente con tutto il resto. Tre giorni dopo, la missione USA guidata da Jackson e con gli altri membri poco noti, ma dall'importante ruolo nelle politiche statunitensi nei Balcani, era a Belgrado. Contemporaneamente, vi è stata anche l'attivazione di Cernomyrdin e Talbott, nonché dei G-8. Molti particolari parlano di un ruolo di primo piano degli USA verso questo accordo (come Clinton che è l'unico ad arrischiarsi subito a dire, "i bombardamenti potrebbero cessare", o la missione Jackson, o il ruolo Talbott, o alcuni importanti articoli sulla stampa USA) e senz'altro anche l'Italia vi ha avuto un importante ruolo. L'ipotesi che avanziamo quindi è che Washington sia stata tra tutti la più pronta a cedere alle nuove richieste di Milosevic, probabilmente una spartizione, di fatto o mascherata, con una zona serba decisamente più ampia del previsto. Questo è andato a ledere gli interessi di alcuni stati europei (la Gran Bretagna, per esempio) che avrebbero così visto ridotto il proprio settore, o sarebbe in generale andato a danno di una missione che fin da prima della guerra doveva vedere un ruolo primario dell'Europa nel dopoguerra. Su queste valutazioni, probabilmente non vi è stata unità tra gli europei e si può intuire che Germania e Italia, per fragilità interna e per interessi consolidati nell'area, abbiano avallato o addirittura contribuito alla decisione di Washington. E' possibile anche che Belgrado stessa abbia preferito trattare, tra gli occidentali, con Washington, un interlocutore più affidabile perché unico, mentre l'UE a livello politico è una controparte difficile da gestire. E, sempre nel campo delle ipotesi, si può intuire che alcuni settori statunitensi, per i dissensi interni ampiamente rilevati da tutti ed esplicitatisi lungo tutti gli ultimi dodici mesi (si veda per esempio la lunga disputa Clark-Pentagono), abbiano siglato un matrimonio di convenienza con i settori europei meno "arrendevoli". Lo scioglimento (provvisorio) di tutti questi nodi lo si è avuto con il bombardamento dell'ambasciata, non a caso ancora oggi al centro della ribalta e con Washington su posizioni tutto sommato arrendevoli, come non è tipico per lei.

Ma poiché le trattative sono successivamente proseguite su binari analoghi a quelli precedenti, e con un ruolo particolarmente attivo degli USA dietro il "paravento" russo, si può arguire che le differenze non fossero sulla sostanza degli accordi, ma sulle modalità e i tempi della loro applicazione. Su questi quindi si è ancora trattato (e la campagna per un intervento di terra condotta da Blair ci suonava già allora come una mossa di ricatto nell'ambito di trattative sotterranee), mentre Milosevic entrava in parte in difficoltà, perché non aveva previsto di dovere proseguire ancora per quasi un mese - un colpo importante alla sua posizione lo hanno dato sicuramente, più dei bombardamenti, i riservisti e i soldati che con coraggio si sono ribellati alla chiamata alle armi o al nuovo invio al fronte. A fine maggio (quando gran parte dei media parlavano di attacco di terra più o meno imminente, "Notizie Est" [#235 del 28 maggio 1999] aveva constatato che molti sviluppi parlavano invece di una pace imminente) si è giunti a soluzioni che hanno consentito di arrivare nel giro di qualche giorno a un accordo. L'incriminazione di Milosevic proprio nel momento (il 27 maggio) in cui l'accordo era nuovamente all'orizzonte, e al quale poi si è giunti senza particolari intoppi, va secondo noi interpretata come un'"ipoteca", nel senso che ciò ha garantito a qualcuno che la "reintegrazione" della Serbia nella "comunità internazionale" non avvenisse troppo rapidamente come altri (probabilmente gli USA e alcuni altri paesi europei, a giudicare dagli sviluppi successivi) avrebbero invece desiderato. E' davvero difficile che a Kumanovo si sia trattato così a lungo e con tali tensioni solo sull'ampiezza delle fasce di sicurezza ai confini, o su un paio di giorni in più o in meno per il ritiro delle forze serbe. Mitrovica comunque è diventata subito, non un ostaggio, ma un pegno concordato tra le parti, visto che la sua situazione, come già abbiamo detto, non è mai stata disputata nei fatti dalla NATO. E gli sviluppi recenti che abbiamo seguito nel numero 321 di "Notizie Est" confermano il quadro che abbiamo tracciato, come anche altri fatti più generali. Lo conferma per esempio il fatto che il Patto di Stabilità, la cui genesi risale proprio alla fatidica prima settimana di maggio e alla "prima ipotesi di accordo", rimanga a tutt'oggi lettera morta e lo rimanga in gran parte perché non è chiaro quale sarà la futura posizione della Serbia. Inoltre, la questione del complesso minerario di Trepca non è stata ancora affrontata, ed è centrale, mentre altre questioni economiche (le telecomunicazioni, per esempio), sono state risolte, e con metodi più che sbrigativi, in tempi comparativamente molto rapidi. Degli ostaggi albanesi deportati in Serbia nessuno vuole parlare - Albin Kurti, già leader studentesco e poi portavoce di Demaqi, colpevole evidentemente di essersi opposto agli accordi di Rambouillet, è stato condannato alla pena più dura proprio il 13 marzo, cioè, ancora una volta, appena dopo il chiudersi della crisi di Mitrovica. Sul lato della politica albanese, la formazione dell'Amministrazione Temporanea che rivede protagonista, insieme, il terzetto di Rambouillet, composto da Thaqi, Rugova e Qosja (e, con la creazione del KPC, nei fatti anche Ceku) crea nuovamente spaccature tra gli albanesi del Kosovo e isola un'oligarchia dallo scarso potere contrattuale, perché priva di base politica e popolare. Non pensiamo a tale proposito che siano stati un caso gli arresti, come quelli segnalati nella prima parte, di alcuni tra gli esponenti più radicali dell'UCK, mentre altri ex comandanti, come nel già citato caso documentato con precisione dal Centro per il Diritto Umanitario nel suo summenzionato rapporto, agiscono liberamente in maniera criminale e, secondo le accuse del Centro, vengono coperti da KFOR e OSCE. Si tratta di sviluppi che potrebbero essere in armonia con la preparazione di qualche forma di spartizione più o meno esplicita, più o meno diluita nel tempo. Infatti, se fino a qui ci siamo occupati del lato "serbo" della spartizione, non va dimenticato che quest'ultima va gestita anche sul lato "albanese" e a tale fine sarebbe fondamentale avere come controparte un gruppo ristretto facilmente disponibile ai compromessi, e non un movimento ampio e dalla base popolare che raccolga l'opposizione generale degli albanesi a una spartizione del Kosovo. Questo potrebbe essere uno dei motivi della "svolta" USA, operata con il pretesto di Mitrovica e di Presevo e mirata esclusivamente contro i settori albanei meno controllabili. Anche in campo albanese c'è una pista che porta non a caso a Sofia, con il recente viaggio di Thaci nella capitale bulgara e il successivo viaggio del premier bulgaro in Kosovo, con il quale è stata lanciata l'idea di una "federalizzazione" della Serbia, assurda nei contenuti, ma che rimanda a qualche forma di autogoverno ("indipendenza") di una parte del Kosovo lasciata agli albanesi, che è sempre stata un elemento di tutti i progetti di spartizione.

E' difficile credere che ipotesi spartitorie possano concretizzarsi in breve tempo, dopo quanto è avvenuto. Inoltre, sono chiare le divisioni in campo occidentale e la fragilità interna dell'oligarchia di Belgrado, che non è certo un interlocutore stabile. A tutto questo si aggiunge che bisogna fare i conti con più di due milioni di albanesi, serbi e rom, che, pure essendo l'ultima preoccupazione della NATO e di Milosevic, sono un fattore che nessuno può ignorare. Non è nemmeno detto che alla fine si avrà una vera e propria spartizione, si potrebbero avere per un lungo periodo anche semplicemente "enclave autogestite" sotto protezione NATO e/o jugoslava, che si istituzionalizzerebbero poi nel tempo. Le varianti potrebbero essere numerose e arrivare, nel caso peggiore, fino a qualche nuova crisi "pilotata", in Kosovo o nell'area. Alla fine, i rapporti di forza potrebbero portare addirittura a soluzioni completamente diverse (l'unica altra alternativa la vediamo nell'indipendenza del Kosovo). Ma dopo quello che è successo nei mesi scorsi a Mitrovica, e dopo gli sviluppi elencati nel precedente numero di "Notizie Est", è lecito aspettarsi in questo momento sviluppi che riprendano modelli spartitori. Noi abbiamo azzardato delle ipotesi sulla base dei materiali tradotti e presentati nel corso degli ultimi mesi, e da altri reperiti per l'occasione negli archivi della stampa, che già da soli danno un quadro eloquente, anche se naturalmente non dicono l'ultima parola. Ci sembra comunque che un dato sia sicuro: la guerra tra NATO e Jugoslavia, e i successivi dieci mesi e oltre di "pace", hanno ben poche delle caratteristiche tipiche di una guerra a tutto campo, e di una successiva pace imposta con la forza, e molte, invece, di quelle di una guerra (e di una successiva "pace") tattica come strumento di una diplomazia in cui gli interessi grande- e piccolo-imperiali delle due parti tutto sommato convivono e si alimentano reciprocamente. Come minimo.

(scritto il 12-17 aprile 2000)