pagg. 66-88, 98-102
Titolo originale: Prison Memoirs of an Anarchist. New York: Mother Earth Press (1912)
IL PENITENZIARIO
PENSIERI DISPERATI
"Mettiti a tuo agio, adesso. Rimarrai qui per un po', huh, huh!"
Come in sogno mi giunge quella voce ruvida. È l'uomo che mi sta parlando,
credo. Perché ride? Sono così stanco, desidero tantissimo rimanere
solo. Ora la voce ha smesso; i passi si allontanano. Tutto è silenzioso
e sono solo. Mi sento esausto, ho la mente vuota. Un peso insopportabile mi
opprime. Pesantemente mi butto sul letto. Con la testa sprofondata nel cuscino
di paglia, il cuore che scoppia, mi immergo in un sonno profondo.
Ho gli occhi che bruciano come ferro incandescente. Il calore mi inaridisce
la vista e mi divora le palpebre. Perfora la mia testa; ho il cervello in fiamme
che viene consumato da un fuoco avvampante. Oh! Mi sveglio di soprassalto. Un
raggio di luce accecante mi colpisce il volto Terrorizzato, mi porto le mani
agli occhi, ma il lampo misterioso mi brucia le palpebre, e mi abbaglia torturandomi
orrendamente.
"Alzati e spogliati. Che cos'hai?"
La voce mi spaventa. La cella è invasa dalla luce accecante. Attorno
è tutto buio, la guardia invisibile.
"Ora stenditi e dormi".
In silenzio obbedisco, quando di colpo tutto diventa buio dinanzi ai miei occhi.
Un terrore profondo attanaglia il mio cuore. Sono diventato cieco? A tastoni
cerco il letto, la parete... Non ci vedo! Con un grido disperato mi avvento
contro la porta. Un lontano clic raggiunge le mie orecchie tese e una luce vivida
cade sulla mia faccia. Oh, ci vedo! Ci vedo!
"Che diavolo hai, eh? Vai a dormire. Capito?"
Quieto ed immobile mi stendo sul letto. Strani incubi mi assalgono... Che posto
terribile dev'essere questo! Questa agonia... non posso sopportarla. Ventidue
anni! Disperato, disperato. Devo morire. Morirò stanotte... Ansimando
scivolo fuori dal letto. La rete del letto cigola. Spaventato vi ritorno sopra,
fingendo di dormire. Tutto è silenzioso. La guardia non mi ha sentito.
Vedrai lo spioncino anche ad occhi chiusi. Lentamente riapro gli occhi. Tutt'attorno
è buio. Vado a tentoni nella cella. La parete è umida, ammuffita.
C'è un odore nauseante... non posso vivere qui. Devo morire. Questa notte...
Qualcosa luccica nell'angolo. Cautamente ci vado vicino. È un cucchiaio.
Per un istante lo osservo con indifferenza; poi un grande sollievo mi pervade.
Adesso posso morire! Scivolo nuovamente nel letto, stringendo nervosamente il
pezzo di latta. Mi porto la mano sul cuore. Sta battendo violentemente. Appoggerò
l'estremità più stretta del cucchiaio qui - così - spingerò
-un po' più in basso - una pressione costante proprio tra le costole...
Il metallo è freddo. Com'è caldo il mio corpo! Carezzevolmente
prendo il cucchiaio e lo appoggio al mio fianco. Con le dita cerco la punta.
È larga. Devo premere forte. Sì, è molto larga. Se solo
avessi la mia rivoltella. Ma la cartuccia potrebbe far cilecca. Ecco perché
Frick adesso è vivo e io devo morire. Come mi guardava al processo! C'era
odio nei suoi occhi, e anche paura. Girò gli occhi dall'altra parte,
non poteva guardarmi in faccia. Mi sono accorto che si sentiva colpevole. E
ora è vivo. Non l'ho sconfitto. Ho sbagliato, sbagliato...
"Sta buono laggiù, o ti scaravento in cella di punizione".
La voce dura mi fa trasalire. Devo essermi lasciato sfuggire una parola. Tirerò
il lenzuolo sulla testa, allora. A che cosa stavo pensando? Oh, ricordo. Lui
sta bene e io sono qui. Non l'ho preso. È vivo. Naturalmente, questo
non è importante. La possibilità di far propaganda c'è,
come risultato del mio gesto. Questo era il vero obiettivo. Ma io volevo ucciderlo,
e lui è vivo. Anche il mio discorso non è riuscito. Mi hanno imbrogliato.
Hanno tenuta segreta la data. Avevano paura che i miei amici intervenissero.
Era esasperante il modo in cui il pubblico ministero ed il giudice mi hanno
interrotto. Non ho letto neppure un terzo della mia dichiarazione. E tutto I'effetto
è andato perduto. Come ha tradotto quel tizio! Quel povero vecchio! Era
profondamente offeso quando gli correggevo la traduzione. Non sapevo che era
cieco. Lo ripresi e soffrii un'altra tortura quando si mise a strillare. Quasi
fui contento quando il giudice mi costrinse a interrompere. Quel giudice! Agiva
con indifferenza come se la cosa non lo riguardasse. Deve aver saputo che la
condanna significava la mia morte. Ventidue anni! Come se fosse possibile sopravvivere
tanti anni in questo posto orribile! Sì, lo sapeva; disse che doveva
costituire un esempio. Quel vecchio furfante! Ha continuato a fare così
in tutta la sua vita: fare un esempio delle vittime della società, le
vittime della sua stessa classe, del capitalismo. Beffa brutale - avevo qualcosa
da dire contro il verdetto? Tuttavia non mi aveva permesso di continuare con
la mia dichiarazione. "La corte è stata molto paziente!" Sono
contento di avergli potuto dire che non mi attendevo giustizia e non l'avevo
avuta. Forse avrei dovuto gettargli in faccia la parola che affiorava sulle
mie labbra. No, era meglio controllare la rabbia. Se no avrebbero avuto la gradita
possibilità di definire gli Anarchici volgari criminali. Cose simili
favoriscono i pregiudizi del Popolo contro di noi. Noi, criminali? Noi, che
siamo sempre pronti a donare la nostra vita per la libertà, noi, criminali?
E loro, i nostri accusatori? Infrangono le loro stesse leggi: sapevano che era
illegale moltiplicare le accuse contro di me. Hanno fatto sei capi d'accusa
di un unico reato, come se le "offese" minori non fossero comprese
nella maggiore, rese necessarie per il gesto stesso. Avevano sete di sangue.
Legalmente, non potevano danni più di sette anni. Ma io sono un Anarchico.
Avevo attentato alla vita di un grande magnate; in lui il capitalismo stesso
s'è sentito attaccato. Naturalmente, sapevo che avrebbero tratto vantaggio
dal mio rifiuto di essere difeso. Ventidue anni!
Il giudice ha dato la pena maggiore per ogni capo d'accusa. Beh! non mi aspettavo
nulla di meno e ora non fa alcuna differenza. Comunque, morirò.
Attanaglio il cucchiaio nella mia mano tremante. La estremità più
stretta contro il cuore, provo la resistenza della carne. Un colpo violento
lo infilerà tra le costole...
Uno, due, tre - il cupo suono metallico si spande nel silenzio, risonante, irresistibile.
Immediatamente, tutto si mette in movimento: sopra, di fianco, tutto vibra di
movimento. Gente sbadiglia e tossisce, sedie e letti vengono mossi rumorosamente,
pesanti passi corrono sul pavimento. Lontano si ode un rombo sordo, come di
tuono. Diventa sempre più alto e vicino. Sento gli ordini taglienti dell'ufficiale,
lo scatto familiare della serratura, porte che si aprono e che si chiudono.
Ora il rombo si avvicina, più distinto. Con un muggito il carrello dei
pane si ferma davanti alla mia cella. Un guardiano socchiude la porta. Il suo
sguardo si ferma su di me con una strana espressione, con sospetto, mentre un
detenuto-inserviente mi porge una piccola pagnotta. Ho appena il tempo di ritirare
il braccio prima che la porta venga chiusa e sprangata.
"Caffè? Prendi la tazza".
Tra le strette sbarre, il liquido mi viene versato nella sottile latta ammaccata
ed arrugginita. Nella semi-oscurità della cella il liquido fumante si
spande scottandomi i piedi nudi. Con un grido di dolore lascio cadere la tazza.
Nell'entrata illuminata fiocamente il pavimento sembra macchiato di sangue.
"Cosa credi di fare?" la guardia mi grida.
"Non riesco a tenerlo in mano".
"Vuoi fare il furbo, vero? bene, ci pensiamo noi. Ehi, Sam", la guardia
fa un cenno all'inserviente, "niente pranzo per l'A 7, capito?"
"Sissignore. Sissignore!"
"E basta caffè".
"Sissignore".
La guardia mi scruta con uno sguardo di odio sprezzante. La cattiveria si rispecchia
nel suo volto. Involontariamente rientro nella mia cella. Il suo occhio cade
sui miei piedi nudi.
"Non hai scarpe?"
"Sì? Non sai dire 'signore'? Hai le scarpe?"
"Sì"
"E allora mettile, maledizione".
La sua lingua sposta rapidamente la grossa cicca di tabacco da una guancia l'altra.
Con un sibilo, uno sputo marrone mi colpisce i piedi. "Maledizione, mettile".
Il rumore è cessato; i passi si sono spenti lontano. Tutto è immerso
nel buio. Solo qualche ombra scivola, silenziosa, spettrale.
"Avanti, march!"
La lunga fila di detenuti, con abiti a righe e rattoppati, assomiglia ad un
serpente ondeggiante, barcollante da un lato all'altro. col suo corpo che avanza,
ma che sembra rimanere nello stesso punto. Un migliaio di piedi battono il pavimento
ritmicamente, con un alternarsi di suoni, quando una schiera, affiancata dalle
guardie, si avvicina e supera la mia cella. Facce, abbrutite, repellenti nella
loro impudente indifferenza o nello sguardo malevolo. Qua e là una testa
ben disegnata, l'occhio intelligente, o l'espressione simpatica, non fa che
accentuare i lineamenti della fila a strisce: volgare e sinistro, con lo sguardo
colpevole e traditore del braccato senza pietà. Testa curva, il braccio
destro allungato, con la mano a toccare la spalla di chi precede, tutti uniformemente
vestiti a strisce orizzontali nere e grige, gli uomini sembrano denti senza
volontà di una ruota meccanica, che si muove ai comandi urlati dalle
guardie ai fianchi, severe e vigilanti.
I colpi ritmici divengono sempre più deboli e si estinguono col tonfo
sordo dell'ultimo passo, dietro la doppia porta chiusa che immette nel cortile
della prigioni. Al manto dei silenzio discende sulle celle. Mi sento terribilmente
solo, abbandonato e dimenticato tra i torreggianti muri di pietra e di ferro.
La calma mi abbraccia con un peso quasi palpabile. Sono seppellito tra le strette
pareti; la massiccia pietra mi opprime la testa, i fianchi. Non posso respirare.
L'aria puzzolente è soffocante. Oh, non posso, non posso vivere qui dentro!
Non posso sopportare quest'agonia. Ventidue anni! È una vita. No, è
impossibile. Devo morire. Lo voglio! Ora!
Afferrato il cucchiaio, mi getto sul letto. I miei occhi vagano per la cella,
debolmente illuminata dalla luce nel corridoio: le pareti bianche, ingiallite
dall'umidità - le macchie di sangue rosso scuro delle pareti - il tavolino
e la sedia malsicura - il pavimento sudicio, nero e grigio a macchie... ''Ma
è pietra! Posso affilare il cucchiaio. Pian piano mi rannicchio nell'angolo.
Lo stagno scivola sulla superficie ruvida, silenzioso, piano, finché
lo spesso strato di sudiciume viene via. Allora scricchiola e gratta. Col cuscino
attutisco il rumore. Il metallo si scalda nella mia mano. Faccio scorrere la
punta tagliente tra le dita. Gocce di sangue scorrono sull'impiantito. La ferita
si allarga, ma la lama è affilata. Furtivamente scivolo di nuovo sul
letto. Con la mano mi sento il cuore. Tocco la zona colla lama. Tra le costole
- qui - sarò morto quando mi troveranno... Se solo Frick fosse morto.
Si sarebbe potuta fare tanta propaganda - quel maledetto Most, se non si fosse
rivoltato contro di me! Rovinerà tutto l'effetto del mio gesto. Non è
che vigliaccheria. Ma di che cosa ha paura? Non possono chiamarlo in causa.
Da più di un anno non ci vediamo. Gli sarebbe facile provarlo. Il traditore!
Ha predicato la propaganda coi fatti per tutta la sua vita - e adesso condanna
il primo attentato in questo paese. Che agitazione tremenda avrebbe potuto fare!
Adesso mi respinge, non mi conosce. Vile! Mi conosceva abbastanza bene ed aveva
addirittura fiducia in me, quando insieme redigemmo la circolare segreta nell'ufficio
del Freiheit. Fu a William Street. Aspettammo che uscissero gli altri tipografi;
poi lavorammo tutta la notte. Mi consigliò:progettavo di andare in Russia,
allora. Sì, in Russia. Forse avrei potuto fare qualcosa di importante
là. Perché non ci andai? Beh!, non posso pensarci adesso. È
strano, però. Ma l'America era più importante. C'era un sacco
di rivoluzionari in Russia. E ora... Oh, non farò più niente.
Presto sarò morto. Mi troveranno freddo - un lago di sangue sotto di
me - il materasso sarà rosso - no, sarà rosso-scuro, ed il sangue
penetrerà nella paglia... Mi chiedo quanto sangue ho. Sgorgherà
dal mio cuore - devo colpire proprio qui forte e rapido - non farà troppo
male. Ma il filo è frastagliato - può strappare o lacerare la
carne. Dicono che la pelle sia resistente. Devo colpire forte. Forse è
meglio cadere sulla lama? No, la latta potrebbe piegarsi. Lo pugnerò
stretto - così - poi un colpo veloce - diritto al cuore - è il
modo più sicuro. Non devo sbagliare - sanguinerei lentamente - potrebbero
trovarmi ancora vivo. No, no! Devo morire all'istante. Mi troveranno morto il
mio cuore - lo sentiranno - non batterà - con la lama ancora infilata
chiameranno il dottore - "È morto". E la ragazza e Fedya e
gli altri verranno a saperlo - lei sarà triste - ma comprenderà.
Sì, sarà contenta che non abbiano potuto torturarmi qui - saprà
che li ho giocati - sì, lei... Dov'è adesso? Che cosa ne pensa
di tutto ciò? Pensa anche lei che ho fallito? E Fedya, anche lui? Se
solo potessi sapere qualcosa di lei - solo una volta. Sarebbe più facile
morire. Ma lei capirà, lei...
"Su dal letto! Non conosci il regolamento, eh? Esci fuori!"
Spaventato, senza parola, mi alzo in piedi. Il cucchiaio cade dal mio pugno
aperto. Batte sul pavimento, con un tintinnio rumoroso, maledetto. Il mio cuore
si arresta quando guardo in faccia la guardia. C'è qualcosa di piacevolmente
familiare in quell'uomo alto, con la bocca tirata in un sorriso derisione.
Oh, è il secondino di questa mattina!
"Astuto, vero? Dammi quel cucchiaio".
L'incidente del caffè mi ritorna alla mente. Provo repulsione e odio
per quel tizio. Per un istante rimango esitante. Devo nascondere il cucchiaio.
Non posso permettermi di perderlo - non così...
"Capitano, qua!"
Vengo trascinato fuori dalla cella. Quello alto esamina attentamente il cucchiaio,
con un ghigno malefico che si disegna sul suo viso.
"Guardate, Capitano. Tagliente come un rasoio. Proprio disperato, eh?"
"Portatelo dal Vice, Signor Fellings".
Nella rotonda che collega i bracci delle celle a nord con quelli a sud, il Vice
è dietro un alto scrittoio. Spigoloso e ossuto, con le spalle leggermente
curve, la sua faccia è una massa di piccole rughe come una pergamena.
Il naso aquilino sovrasta le sottili labbra strette. Quegli occhi metallici
mi squadrano freddamente, ostili.
"Chi è questo?"
La voce flebile, quasi femminea accentua la faccia e la figura cadaverica.
Il contrasto è impressionante. "Qual è l'accusa, Guardia?'"
"Due accuse, Signor McPane. È rimasto steso sul letto ed ha tentato
il suicidio".
Un sorriso di satanica soddisfazione lentamente si spande sul viso rugoso del
Vice. Le lunghe, forti dita della sua mano destra si agitano convulsamente,
come tambureggiando ostinatamente su un immaginario tavolo.
"Sì, ehm, sì. A 7, due accuse. Ehm, ehm. Come ha tentato
di... di commettere il suicidio?"
"Con questo cucchiaio, Signor Mc Pane. Tagliente 'come un rasoio".
"Sì, ehm, sì. Vuole morire. Non contempliamo nessun reato
come, ehm, il tentato suicidio in questo istituto. Cucchiaio affilato, ehm,
ehm; un grave pericolo. A questo penserò dopo. Per aver infranto il regolamento,
ehm, ehm, rimanendo a letto in ore non consentite, ehm, ehm, tre giorni. Portatelo
giù. Guardia. Si calmerà..."
Mi sento debole e affaticato. Un senso di grande indifferenza s'impadronisce
di me. Sono vagamente cosciente che le guardie mi stanno portando attraverso
corridoi scuri, trascinandomi lungo ripide rampe di scale, mi denudano, ed infine
mi gettano in un locale buio. Sono stordito; mi gira la testa. Barcollo e cado
sulle pietre del sotterraneo. La cella è invasa dalla luce. Mi fa male
agli occhi. Qualcuno è curvo su di me.
"Un po' di febbre. Meglio portarlo in cella".
"Ehm, ehm, Dottore, è in punizione".
"È rischioso, Signor McPane".
"Lo rimanderemo, allora. Ehm, ehm, riportatelo in cella. Guardie".
"Andiamo".
Le gambe sono come paralizzate. Si rifiutano di muoversi. Vengo sollevato e
portato sulle scale, attraverso corridoi e sale e poi gettato pesantemente su
un letto.
Mi sento così debole. Forse adesso morirò. Sarebbe meglio. Ma
non ho nessun'arma! Mi hanno portato via il cucchiaio. Non c'è nulla
in cella che io possa utilizzare. Queste sbarre di ferro - potrei sbatterci
contro la testa. Ma, oh! è una morte talmente orribile. Mi si spezzerebbe
il cranio e il cervello ne uscirebbe fuori... Ma le sbarre sono lisce. Mi si
spezzerebbe il cranio con un colpo solo? Temo che si potrebbe solamente incrinare
e io sarei troppo debole per dare un altro colpo. Se solo avessi il revolver;
sarebbe tutto più facile e veloce. Ho sempre pensato che avrei preferito
una morte così... con un colpo. La canna appoggiata alla tempia - non
si può sbagliare. Qualcuno lo ha fatto davanti ad uno specchio. Ma io
non ho specchi. Non ho nemmeno il revolver, d'altra parte... Anche in bocca
è mortale... Quello studente di Mosca - Russov si chiamava; sì,
Ivan Russov - si sparò in bocca. Naturalmente, è stato pazzo ad
ammazzarsi per una donna; ma io ammirai il suo coraggio. Aveva fatto tutti i
preparativi freddamente; lasciò pure un appunto in cui dichiarava di
lasciare il suo orologio d'oro alla padrona di casa, perché - scrisse
- dopo avergli trapassato il cranio, la pallottola avrebbe potuto danneggiare
la parete. Meraviglioso!
Effettivamente fu così. Vidi la palla conficcata nella parete vicino
al sofà e Ivan disteso così calmo e sereno, credetti che fosse
addormentato. L'avevo spesso veduto in quell'atteggiamento nello studio di mio
fratello, dopo le nostre lezioni. Che splendido istitutore fu! Mi piacque fin
dall'inizio, quando la mamma lo presentò: "Sasha, Ivan Nikolaievitch
sarà il tuo insegnante di latino durante le vacanze". La mia mano
rimase dolorante per tutto il giorno; lui l'aveva stretta così vigorosamente,
come una morsa. Ma fui contento di non aver gridato. Lo ammirai per questo;
sentii che doveva essere davvero forte e virile per avere una simile stretta.
La mamma sorrise quando glielo raccontai. Anche la sua mano le aveva fatto male,
disse lei. Mia sorella arrossì un poco. "Piuttosto energico"
osservò. E Maxim fu così contento dell'impressione favorevole
lasciata dal suo compagno di collegio. "Che cosa vi avevo detto?"
gridò, allegro; "Molodetz Ivan Nikolaievitch! Pensate, ha solo vent'anni.
Si laurea il prossimo anno. Il più giovane allievo dell'università.
Moldetz!"
Ma come erano rossi gli occhi di Maxim quando portò a casa la pallottola.
L'avrebbe conservata, disse, per tutta la vita: l'aveva tirata fuori con le
mani dalla parete della stanza di Ivan Nikolaieviteh. A pranzo aprì lo
scatolino, tirò fuori il cotone e mi mostrò la palla. Mia sorella
si mise ad urlare istericamente e la mamma chiamò Max bruto. "Per
una donna, una donna indegna! " gemette mia sorella. Pensai che era pazza
gettare la vita per una donna. Mi sentii un po' deluso: Ivan Nikolaievitch avrebbe
dovuto essere più virile. Tutti dicevano che lei era molto bella, la
reginetta riconosciuta di Kovno. Era alta e signorile, ma pensai che camminava
troppo affettatamente; sembrava piena di sé e artificiale. La. mamma
diceva che ero troppo piccolo per parlare di cose simili. Come sarebbe rimasta
meraviglia se avesse saputo che ero innamorato di Nadya, la compagna di mia
sorella. E che avevo anche baciato la nostra cameriera. Cara piccola Rosa -
ricordo e lei minacciò di dirlo alla mamma. Ero così spaventato
che non volevo venire a pranzo. La mamma mandò la cameriera a chiamarmi,
ma io rifiutai andarci finché Rosa promise che non l'avrebbe riferito...
Quella dolce gazza, con quelle sue guance rosse come mele. Come era gentile!
Ma quel piccolo demonio non poteva mantenere il segreto. Lo raccontò
a Tatanya, cuoca del nostro vicino, l'insegnate di latino del liceo. Il giorno
dopo quello mi fece domande sulla giovane cameriera. Di fronte a tutta la classe,
per di più. Avrei voluto che il pavimento si fosse aperto e mi avesse
inghiottito. Rimasi tanto mortificato... Come sembra lontano tutto ciò.
Secoli. Mi chiedo che cosa ne sia stato di lei. Dov'è adesso Rosa? Potrebbe
essere qui in America. L'avevo quasi dimenticato... la incontrai a New York.
Fu una grande sorpresa. Stavo in piedi sulla veranda della casa operaia dov'ero
in pensione. A quel tempo ero nel paese da pochi mesi. Una giovane donna mi
passò davanti. Ella guardò verso di me, poi tornò indietro
e salì gli scalini. "Non mi riconosce, Signor Berkman? Davvero non
mi riconosce?" Un errore, pensai. Non avevo mai visto prima quella splendida,
elegante ragazza. Mi invitò ad entrare nel vestibolo "Non lo racconti
alla gente qui. Io sono Rosa. Non ricorda? Ero la... cameriera di sua madre".
Arrossì di colpo. Quelle guance rosse certo, è Rosa!
Ripensai al bacio rubato. "Oserei farlo ora" mi chiesi, improvvisamente,
consapevole dei miei abiti logori. Lei sembrava star bene. Come erano cambiate
le nostre posizioni! Assomigliava ad una vera barishnya, come mia sorella. "È
qui sua madre", domandò lei. "La mamma? morta, appena prima
che me ne andassi". Le gettai un'occhiata apprensiva. Si ricordava quella
tremenda scena quando mia madre la colpi? "Non sapevo di sua madre".
La sua voce era velata; una lacrima luccicava nei suoi occhi. Quella cara ragazza,
con un cuore sempre generoso. Avrei dovuto chiedere scusa per l'offesa di mia
madre. Ci guardammo l'un l'altro con imbarazzo. Poi mi porse la mano guantata.
Molto grande, pensai; e anche rossa, probabilmente. "Arrivederci, Gospodin
Berkman" disse. "Arrivederci a presto. Per favore, non dite a questa
gente chi sono". Provai un senso di colpa e di vergogna. Gospodin Berkman
- assomigliava un po' al servile barinya, che i domestici erano soliti rivolgere
a mia madre. Con tutta la sua eleganza ostentata, Rosa non l'aveva dimenticato.
Le era troppo radicato in testa, povera ragazza. Non si era emancipata. Non
l'avevo mai vista alle nostre riunioni; è una conservatrice senza dubbio.
Era così ignorante, non sapeva nemmeno leggere. Forse l'ha imparato in
questo paese. Ora leggerà di me e saprà come sono morto... Oh,
non ho il cucchiaio! Che cosa farò, che cosa farò? Non posso vivere.
Non potrei sopportare questa tortura. Forse se fossi stato condannato a sette
anni, avrei provato a scontare la pena. Ma non avrei potuto comunque. Forse
riuscirei a vivere qui dentro un anno, due. Ma ventidue, ventidue anni! A che
scopo? Nessun uomo potrebbe sopravvivere. È terribile, ventidue anni!
La loro maledetta giustizia - parlano sempre di legge. Ma secondo la legge non
avrei preso più di sette anni. Secondo la legge! Come se loro si preoccupassero
della legalità". Volevano fare di me un esempio. Naturalmente, lo
sapevo in anticipo; ma se avessi avuto sette anni... forse potrei sopportarli;
ci proverei. Ma ventidue - è una vita, una vita intera. Nemmeno diciassette
sarebbe meglio. Quel Jamestown si è preso diciassette anni. Aveva la
cella vicino alla mia in carcere. Non pareva un rapinatore, era così
piccolo e sparuto. Dovrebbe essere qui adesso. È un pazzo a credere di
poter vivere qui per diciassette anni. In quest'inferno - che imbecille! Avrebbe
dovuto suicidarsi molto tempo prima. Lo trasferirono prima del mio processo;
circa tre settimane fa. Un tempo sufficiente; perché non ha fatto qualcosa?
Comunque, morirà presto, qui dentro; sarebbe meglio suicidarsi. Un uomo
forte potrebbe viverci cinque anni; ma ne dubito; forse lo potrebbe un uomo
molto forte. lo non potrei; no, so che non potrei; forse due o tre anni, al
massimo. Ne avevamo spesso parlato insieme, la Ragazza, Fedya ed io. Avevo allora
una ben strana idea della prigione: pensavo che sarei rimasto seduto sul pavimento
in un raccapricciante, nero buco, con le mani ed i piedi incatenati alla parete:
ed i vermi mi sarebbero strisciati addosso ed avrebbero lentamente divorato
la mia faccia ed i miei occhi, mentre impotente sarei rimasto incatenato alla
parete. La Ragazza e Fedya ne avevano un'idea simile. Lei disse che avrebbe
potuto sopportare la vita carceraria per poche settimane. Io per un anno, ritenevo;
ma ero dubbioso. Mi immaginavo impegnato a togliere i vermi dai piedi; vedevo
i parassiti mangiarmi le carni, finché sarebbero giunti al cuore; quella
sarebbe stata la fine... E i parassiti, qui, queste grosse, scure cimici, devono
essere come vermi, così schifosi ed affamati. Forse qui ci sono anche
i vermi. Devono esserci in quel sotterraneo: ho una piaga sul piede.
Non so come mi sia venuta. Ero stordito in quel luogo buio - era proprio come
mi immaginavo prima la prigione. Non ci potrei vivere nemmeno una settimana
laggiù: è tremendo. Qui è un po' meglio; ma non c'è
mai luce in questa cella, sempre nella semioscurità. E così piccola
e stretta; niente finestre; è umido e sempre puzzolente. Le pareti sono
bagnate e viscide; macchiate di sangue, poi. Cimici - puah! - è nauseante.
Non molto meglio di quel buco nero, con mani e faccia incatenate al muro.
Solo un po' meglio - le mani non sono incatenate. Forse potrei viverci pochi
anni: non più di tre, o forse cinque. Ma queste guardie brutali! No,
no, non potrei sopportarlo. Voglio morire! Qui morirò presto, comunque;
loro vogliono uccidermi. Ma non voglio dare al nemico questa soddisfazione;
non potranno dire che mi stanno torturando in prigione, o che mi hanno ucciso.
No! Preferisco piuttosto uccidermi. Certo, uccidermi. Devo farlo - con la testa
contro le sbarre - no, non adesso! Di notte, quando tutto è buio - allora
non mi potrebbero salvare. Sarà una morte orribile, ma dev'esser fatto...
Se solo sapessi qualcosa di quelli di New York - la Ragazza e Fedya -sarebbe
allora più facile morire... Che cosa stanno facendo? Stanno facendo propaganda
per il mio caso? Devono aspettare notizie del mio suicidio. Sanno che non posso
vivere a lungo qui. Forse si domandano perché non mi sono suicidato subito
dopo il processo. Ma non potevo. Credevo che sarei stato portato dal tribunale
alla mia cella in prigione; di solito si fa così con i detenuti processati.
Mi ero preparato ad impiccarmi quella notte, ma devono aver sospettato qualcosa.
Mi hanno portato direttamente qui dall'aula. Forse avrei potuto essere morto
a quest'ora.
"Colazione! Caffè? Tieni la tazza!" grida l'inserviente dalla
porta. All'improvviso sussurra "Prendi, presto!" Un oggetto lungo,
scuro viene gettato nella cella attraverso le sbarre, cadendo ai piedi del letto.
L'uomo se n'è andato. Raccolgo il pacchetto, avvolto stretto in carta
marrone. Che cosa può essere? La carta copre due strati di vecchi giornali;
poi appare alla vista un oggetto bianco. Un asciugamano! C'è qualcosa
di rotondo e duro dentro - è un pezzo di sapone. Un senso di riconoscenza
esce dal mio cuore, mentre mi chiedo chi potrebbe essere il mittente. Fa bene
sapere che c'è almeno un essere umano qui con uno spirito di amicizia.
Forse è qualcuno che ho conosciuto in prigione. Ma come si è procurato
queste cose? Sono permesse? L'asciugamano è leggero e soffice; è
un sollievo dopo il duro letto di paglia. Tutto è così ruvido
e duro qui - le parole, le guardie... Mi passo l'asciugamano sulla faccia; mi
dà un po' di sollievo. Posso lavarmi - mi sento la testa così
pesante - non mi sono lavato da quando sono qui. Quando ci sono venuto? Vediamo;
che cos'è oggi? Non so, non riesco a fare i conti. Ma il mio processo
- fu lunedì, 19 settembre. Mi portarono qui nel pomeriggio; no, alla
sera. E quella guardia - mi spaventò tanto con quella lanterna. Fu la
notte scorsa? No, dev'essere stato prima ancora. Sono qui solamente da ieri?
Ma, sembra tanto tempo! Che sia martedì, solo martedì? Lo chiederò
all'inserviente la prossima volta che passa. Cercherò anche di sapere
chi mi ha mandato questo asciugamano. Forse potrei avere un po' d'acqua fredda
da lui; o forse ce n'è un po' qui...
I miei occhi si stanno abituando alla semioscurità della cella. Distinguo
gli oggetti abbastanza bene. C'è un piccolo tavolo di legno e una vecchia
sedia nell'altro angolo, quasi nascosto dal letto, il bugliolo; lì vicino,
al centro della parete opposta alla porta, c'è un rubinetto dell'acqua
sopra un piccolo lavabo circolare. L'acqua è tiepida e torbida, ma riesce
a rinfrescarmi. Il massaggio con l'asciugamano mi rinvigorisce. Il sangue stimolato
corre nelle vene con un formicolio piacevole. All'improvviso una puntura, come
di un ago, mi colpisce il viso. C'è uno spillo nell'asciugamano. Quando
lo tolgo, qualcosa di chiaro svolazza per terra. Un biglietto! Con l'orecchio
attento ai rumori dei passi, leggo precipitosamente la scrittura a matita: "Distruggi
subito dopo che l'hai letto, viene da un amico. Stiamo facendo un buco e tu
puoi venire con noi, sappiamo che sei un bravo ragazzo. Stenditi e tieni i tuoi
fanali accesi di notte, bada alle viti e agli sgabelli: sono peggio dei tori.
La prigione ne è piena e non parlare. Ci vediamo domani. Un vero amico".
Leggo il biglietto attentamente, più volte. Quello strano gergo mi confonde.
Ne sospetto vagamente il significato; evidentemente è stata progettata
una fuga. Il cuore mi batte violentemente, mentre ne soppeso la possibilità.
Se riuscissi a fuggire... Oh, non devo morire! Perché non ci ho pensato
prima? Che azione gloriosa sarebbe questa! Naturalmente metterebbero sottosopra
tutto il paese per me. Dovrei nascondermi. Ma che importa? Sarei libero. E che
tremendo effetto! Sarebbe una grande propaganda: la gente diverrebbe più
sensibile, e certo, avrei nuove possibilità...
L'ombra del sospetto si insinua nei miei pensieri pieni di speranza, sommergendomi
nella disperazione. Forse è una trappola! Non conosco chi ha scritto
il biglietto. Mi dimostrerei un ben sciocco cospiratore se cadessi in trappola
così facilmente. Ma perché dovrebbero ingannarmi? E chi? Qualche
guardia? A che scopo? Ma è gente così spregevole, così
violenta. Quella guardia alta - il Vice l'ha chiamato Fellings - lui mi sembra
abbia qualcosa contro di me. Potrebbe essere opera sua, per mettermi nei guai.
Davvero si presterebbe ad una cosa simile? Queste cose succedono - sono accadute
in Russia. E lui assomiglia ad un provocatore, quel mascalzone. No, non mi prenderà
in quel modo. Devo rileggermi il biglietto. Ci sono tanti termini che non comprendo.
Dovrei "tenere i miei fanali accesi". Che fanali? Non ce ne sono in
cella; dove devo andarli a cercare? E a quali "viti" devo badare?
E gli "sgabelli" - qui dentro ho solo una sedia. Perché dovrei
badare ad essa? Forse può essere utile come arma. No, deve voler dire
qualcos'altro. Il biglietto dice che si rifarà vivo domani. Riuscirò
a sapere dal suo aspetto se ci si può fidare di lui. Sì, sì,
questa è la soluzione migliore. Aspetterò fino a domani. Oh, vorrei
che fosse adesso!
LA VOLONTÀ DI VIVERE
Le giornate si trascinano senza fine nella semioscurità della cella.
Il gong regola la mia vita con deprimente monotonia. Ma il tenore dei miei pensieri
ha preso un'altra piega col biglietto misterioso. Inutilmente ho atteso che
mi si presentasse il suo autore - tuttavia la possibilità di fuggire
ha originato la speranza. La volontà di vivere comincia a rafforzarsi,
divenendo sempre più pressante man mano che i giorni trascorrono. Mi
stupisco a riflettere come la mia mente indugi sempre più raramente sul
suicidio, sempre più superficialmente. Il Pensiero dell'autodistruzione
mi riempie di sgomento. Qualsiasi possibilità di fuga dev'essere ben
approfondita, rassicuro la mia coscienza tormentata. Sicuramente non ho paura
della morte - quando arriverà il momento. Ma la fretta sarebbe imprudente;
Peggio, del tutto inutile. In realtà è mio dovere di rivoluzionario
soppesare qualsiasi possibilità di far propaganda: la fuga mi offrirebbe
molte possibilità di servire la Causa. È stato avventato da parte
mia condannare quel Jamestown. Mi sono addirittura risentito per il suo apparentemente
imperdonabile indugio a suicidarsi, tenendo conto dell'intollerabile condanna
a diciassette anni. Davvero fui ingiusto: Jamestown, senza dubbio, sta facendo
i suoi piani. Ci vuol tempo per maturare una tale impresa: ci si deve innanzitutto
familiarizzare col nuovo ambiente, rendere sopportabile a se stessi il carcere.
Finora non ho avuto che poche occasioni di farlo. Evidentemente è la
politica dell'autorità a tenermi in isolamento e quindi all'oscuro del
complicato sistema di passaggi, doppi cancelli e corridoi sinuosi. Nel caso
fossi nella possibilità di lasciare questo posto, mi sarebbe difficile
trovare la via d'uscita senza aiuto... ah se avessi l'anello magico che mi son
sognato l'altra notte! Era un talismano portentoso, datomi dalla dea della Rivoluzione
Sociale. La vedevo molto chiaramente: alta e severa, il bagliore dell'amore
onnipotente nel suo sguardo. Era vicina al mio letto, con un sorriso di incomparabile
dolcezza che copriva il suo comportamento regale, il braccio disteso verso di
me, benedicente e indicandomi il muro scuro. Avidamente guardai nella direzione
del braccio teso - là, in una crepa, qualcosa di luminoso brillava con
luccichio della rugiada fresca in una giornata di sole. Era un anello a forma
di cuore con una fessura al centro. I suoi raggi scintillanti nobilitavano 'angolo
buio con l'aureola di una grande speranza. D'un balzo lo afferrai mi misi l'anello
quando, oh! i raggi appiccarono il fuoco facendo immediatamente scomparire il
ferro e l'acciaio e cancellando la prigione coi suoi cuori, schiudendomi davanti
allo sguardo rapito campi verdi e boschi e uomini donne gioiosamente al lavoro
nella luce della libertà. E poi... qualcosa scacciò la visione.
Oh, se avessi ora quel cuore magico! Per fuggire, per essere libero! Forse però
il mio sconosciuto amico manterrà la parola. Starà probabilmente
mettendo a punto i suoi piani o forse è più sicuro che lui non
mi incontri. Se i miei compagni potessero aiutarmi, la mia fuga sarebbe realizzabile.
Ma la ragazza e Fedya non ne vedranno l'opportunità. Non c'è dubbio
che si tengano dallo scrivermi perché attendono di sapere che mi sono
suicidato. Come dev'essere sconvolta la Ragazza! Tuttavia avrebbe dovuto scrivere:
già son quattro giorni dal mio trasferimento nel penitenziario. Ogni
giorno tendo ansiosamente l'arrivo del Cappellano, che distribuisce la posta.
Eccolo! Il rapido passo è divenuto familiare al mio orecchio. In ansia
seguo tutti i suoi movimenti; riconosco la porta sbattuta forte e lo scatto
della serratura. I corti passi percuotono la passerella che collega la rotonda
supera con i bracci delle celle e passano lungo il corridoio. Il suono solitario
dei passi nel silenzio mi fanno venire in mente la timida fretta di qualcuno
e attraversi un cimitero di notte. Adesso il Cappellano si ferma: sta contando
il numero dei blocco di legno appeso fuori della cella con quello la lettera.
Qualcuno non ha dimenticato un amico in prigione. I passi proseguono e si affievoliscono
quando l'uomo gira l'angolo opposto. Percorre il braccio dall'altra parte, sale
sul braccio superiore ed infine raggiunge il piano su cui è la mia cella.
Il cuore mi batte più veloce mentre il rumore s' avvicina: dev'esserci
sicuramente una lettera per me. Si sta avvicinando alla mia cella - si ferma.
Non posso ancora vederlo, ma so che sta confrontando i numeri. Forse la lettera
è per me. Spero che il Cappellano non faccia errori: Raggio K, Cella
6, Numero A 7. Qualcosa di chiaro scivola sotto la porta della cella vicina
e il veloce, corto passo mi ha superato. Niente posta per me! Altre ventiquattr'ore
devono trascorrere prima che possa ricevere una lettera, e poi, un'altra volta,
forse, la timida ombra non si fermerà alla mia porta.
Il pensiero della mia condanna a ventidue anni mi porta alla disperazione. Utilizzerei
qualsiasi mezzo, per quanto tremendo, per fuggire da quest'inferno, per riguadagnare
la libertà! Che cosa mi offrirà dopo quest'esperienza? Avrei le
massime possibilità per l'attività rivoluzionaria. Opterei per
la Russia. Gli accoliti di Most mi hanno abbandonato. Mi terrò in disparte,
ma essi impareranno che cosa è capace di compiere un vero rivoluzionario.
Se c'è un rimasuglio di umanità in loro, arrossiranno per il loro
atteggiamento meschino verso il mio gesto, per il loro vergognoso comportamento
nei miei confronti. Come allora saranno desiderosi di testimoniare la loro amicizia
esagerando la confidenza, per pulire la coscienza colpevole! Non dovrei soffrire
per mancanza di sostegno finanziario, se tenessi al corrente i nostri ambienti
più intimi dei miei progetti al riguardo la futura attività in
Russia. Sarebbe magnifico, magnifico! Sst...
È il Cappellano. Forse ha della posta per me, oggi... Può darsi
che distrugga le lettere dei miei amici; o probabilmente è colpa del
Direttore: tutta la corrispondenza viene esaminata prima nel suo ufficio. Adesso
il Cappellano scende a pianterreno. Si ferma. Dev'essere la Cella 2 che riceve
posta. Ora sta avvicinandosi. L'ombra è di fronte alla mia porta, - andato!
"Cappellano, un momento, per favore".
"Chi è?"
"Qui, Cappellano. Cella 6 k."
"Che c'è, ragazzo mio?".
"Cappellano, vorrei qualcosa da leggere".
"Leggere? Beh, abbiamo una splendida biblioteca, ragazzo mio; una bellissima
biblioteca. Ti manderò un elenco e potrai avere un libro ogni settimana".
"Ho saltato il giorno della biblioteca per questo raggio. Dovrò
attendere un'altra settimana. Ma mi piacerebbe avere qualcosa da leggere nel
frattempo, Cappellano".
"Tu non lavori, ragazzo mio".
'No"
"Hai rifiutato di lavorare?"
"No, non mi è stato assegnato ancora alcun lavoro".
"Oh, bene, te ne verrà dato uno presto. Abbi pazienza, ragazzo mio".
"Ma non posso avere qualcosa da leggere adesso?"
"Non c'è una Bibbia nella tua cella?"
"Una Bibbia? Non ci credo a quelle cose, Cappellano".
"Ragazzo mio, non ti farà male leggerla. Potrebbe giovarti. Leggila,
ragazzo mio".
Per un momento rimango esitante. Un' idea disperata mi attraversa la mente.
"Va bene, Cappellano, leggerò la Bibbia, ma non mi interessa la
versione inglese. Forse lei ne ha una con le note in greco o in latino?"
"Certo, certo, ragazzo mio, tu leggi il latino e il greco?".
"Sì, ho fatto studi classici".
Il Cappellano appare impressionato. Si avvicina alla porta, appoggiandosi nella
posizione di chi si prepara a sostenere una lunga conversazione. Parliamo dei
classici, delle fonti del mio sapere, delle scuole russe, delle condizioni umane.
Un uomo interessante ed intelligente, questo Cappellano della prigione, un gran
viaggiatore la cui visita in Russia l'aveva impressionato per le grandi possibilità
del paese. Infine si rivolge alla guardia: "Lascia che A 7 venga con me".
Con un'occhiata di sospetto verso di me, l'agente apre la porta. "Devo
venire con voi, Cappellano?" chiede.
"No, no. Va tutto bene. Vieni, ragazzo mio".
Passata la fila delle celle vuote, saliamo le scale fino alla rotonda superiore,
alla cui sinistra c'è l'ufficio del Cappellano. Ansioso ed attento, afferro
ogni particolare dell'ambiente. Mi sforzo di apparire indifferente, mentre seguo
furtivamente ogni movimento del Cappellano, mentre sceglie la chiave della rotonda
dal grosso mazzo che tiene in mano ed apre la porta. Un desiderio estremo di
libertà mi sta bruciando. Un piano di fuga sta prendendo forma nel mio
cervello. Il Cappellano ha con sé tutte le chiavi - vive nella casa del
Direttore, collegata al carcere - è così esile -potrei facilmente
averne la meglio - non c'è nessuno nella rotonda - gli soffocherei le
grida gli prenderei le chiavi...
"Siediti, ragazzo mio. Siediti. Qui ci sono alcuni libri. Dagli un'occhiata.
Ho un'altra copia della mia Bibbia personale, con le note. È qui da qualche
parte".
Con sguardo febbrile lo vedo lasciare le chiavi sul tavolo. Una mossa veloce
e potrebbero essere mie. Quella grande e pesante, dev'essere quella del cancello.
È così grossa - un colpo lo ucciderebbe. Ah, c'è una cassaforte!
Il Cappellano ne sta estraendo alcuni libri. Mi volta la schiena. Una spinta
e lo chiuderei dentro... Furtivamente, impercettibilmente, mi avvicino al tavolo,
gli occhi fissi sulle chiavi. Ora mi curvo sopra di esse, facendo finta di osservare
un libro, mentre la mia mano scivola avanti, lentamente, cautamente. In fretta
mi ci curvo sopra; il libro aperto nelle mie mani nasconde completamente le
chiavi. Le tocco con la mano. Disperatamente afferro il mazzo grande e pesante,
il mio braccio si alza lentamente...
"Ragazzo mio, non riesco a trovare quella Bibbia in questo momento, ma
ti darò qualche altro libro. Siediti, ragazzo mio. Sono così dispiaciuto
per te. lo sono un funzionario dello Stato, ma credo che tu sia stato trattato
ingiustamente. La tua condanna è proprio eccessiva. Posso comprendere
lo stato d'animo che ha spinto te, un giovane entusiasta, in quest'epoca nevrotica.
Era in relazione con Homestead, vero, ragazzo mio?"
Ricado sulla sedia, scosso, spossato. Quella profonda nota di simpatia, la sincerità
della voce emozionata - no, no, non posso toccarlo...
Finalmente, posta da New York! Lettere dalla Ragazza e da Fedya. Con un senso
di ansia mista a risentimento, un'occhiata alla calligrafia conosciuta. Perché
non m'hanno scritto prima? Il senso di attesa si è andato offuscando
per la lunga ansia. La Ragazza e il Gemello, il mio più caro, più
intimo amico di ieri - ma l'ieri appare tanto distante nel passato, essendo
la sua effettiva realtà sommersa nella marea degli avvenimenti tormentosi.
C'è un'inflessione di delusione, quasi di amarezza, nella lettera della
Ragazza. Il fallimento del mio gesto diminuirà l'effetto morale, insieme
al suo valore propagandistico. La situazione è aggravata da Most. A causa
del suo atteggiamento denigratorio, i tedeschi rimangono indifferenti. Per buona
parte, anche l'ambiente rivoluzionario ebreo è stato influenzato da lui.
Il Gemello, in un russo tortuoso, accenna al tentativo di completamento della
mia opera, progettato, tuttavia impossibile da realizzare.
Sorrido sprezzantemente al "completamento" che non ha avuto successo.
La prospettiva maledettamente sbagliata della Ragazza mi esaspera e rabbiosamente
mi irrito per lo stupore pieno di disapprovazione che io sia vivo, che percepisco
nelle due lettere.
Rileggo parecchie volte quelle righe. Ogni parola stilla amarezza nel mio spirito.
Sono diventato patologicamente sospettoso, o davvero vogliono rimproverarmi
per il mio mancato suicidio? Con che diritto? Con impazienza reprimo il sussurro
accusatore della mia coscienza, "Col diritto dell'etica rivoluzionaria".
La voglia di vivere scaturisce testarda, ancor più vibrante e categorica
a quella sfida implicita.
No, io lotterò e combatterò! Amico o avversario, sapranno che
non mi faranno fuori facilmente. Voglio vivere, per fuggire, per vincere!
SILENZIO SPETTRALE
Il silenzio si fa più opprimente, la solitudine insopportabile. Il mio
naturale ottimismo è schiacciato da un terrore senza volto. Con pena
mi accorgo di perdere l'elasticità del mio passo, la vivacità
mentale. Mi sento stanco fisicamente e spiritualmente. Il suono regolare del
gong, che annuncia il lavoro o i pasti, accentua la snervante routine. Rintocca
inquietante nel silenzio, come il preannuncio di qualche calamità, orrenda
e improvvisa. Timori senza forma, ancor più terrificanti perché
vaghi, mi riempiono il cuore. Inutilmente cerco di domare i miei pensieri ribelli
con la lettura e l'esercizio. Le pareti sono lì, sentinelle immote, circondandomi
da ogni lato, finché il movimento diviene una tortura. Nell'oscurità
costante della cella senza finestre le lettere danzano davanti ai miei occhi,
ora formando figure fantastiche, ora scomparendo in gruppi ed immagini di morte.
Le visioni morbose mi affascinano la mente. Il sibilante becco a gas nel corridoio
mi attrae irresistibilmente. Ad occhi semichiusi, seguo quella luce tremula.
Il suo chiarore che si espande forma un caleidoscopio di disegni multiformi,
ora cristallizzandosi in scene della mia gioventù, ora raffigurando la
mia vita a New York, con la grottesca illuminazione di quei tragici momenti.
Ora la fiamma è colpita da una ventata. Saltella qua e là, rabbiosamente
lottando contro l'oscurità attorno. Sbuffa e salta contro il suo avversario,
che barcolla, poi avanza con ombra da gigante, minacciando la luce con frenetici
gesti sulla parete bianca. Guarda! L' ombra diviene sempre più grande,
fino a "superare i cancelli di ferro che cadono pesantemente dietro di
me. " Sei a casa, adesso ", ghigna la guardia. Io guardo dietro. Il
grigio edificio si staglia sopra di me, freddo e severo, e sulla cima la nera
figura mi guarda di sottecchi soddisfatta. Le mura mi osservano arcigne. Sembrano
umane nella loro crudele immobilità. Le loro enormi braccia torreggiano
nella notte, come per schiacciarmi all'istante. Mi sento così piccolo,
indicibilmente fragile e indifeso nella solitudine - il soffio del sepolcro
è sul mio viso, si avvicina, mi circonda e chiude gli ultimi raggi di
luce alla mia vista. Terrorizzato mi fermo... La catena diviene più tesa,
i colpi taglienti si abbattono sul mio polso. Barcollo in avanti e mi sveglio
sul pavimento della cella. Incubi senza tregua e sogni orribili perseguitano
le lunghe notti. Sto con orecchio teso per cogliere il rintocco del gong, che
annuncia la partenza dell'oscurità. Ma il nuovo giorno non porta né
speranza né gioia. Soffocante come il precedente, privo di interesse
come i giorni che verranno dopo, triste in modo infinito e plumbeo: i carrelli
sferraglianti col loro carico di pane semicotto; il liquido scuro senza sapore;
le file di miseria a strisce che mi passano davanti; i comandi secchi; il passo
pesante; e poi - il silenzio di tomba.
Perché continuare questa vana tortura? Nessun vantaggio potrebbe provenire alla Causa dal prolungare quest'agonia. Ogni via di fuga è preclusa; la fortezza è inespugnabile. La buona gente ha generosamente fortificato questa moderna bastiglia; il mondo esterno può dormire in pace, indisturbato per il momento del Calvario. Nessun grido di anima sofferente perforerà questi muri di pietra, ancor meno il cuore dell'uomo. Perché, allora, prolungare l'agonia? Nessuno ci bada, nessuno se ne interessa, se non forse i miei compagni - e loro sono lontani e senza sostegno. Senza sostegno, assolutamente. Ah, se il nostro movimento fosse forte, il nemico non oserebbe commettere tali offese, sapendo che la vendetta rapida e spietata costituirebbe la rappresaglia per l'ingiustizia. Ma il nemico sa che siamo deboli. A nostra eterna vergogna, il massacro di Chicago non è stato ancora vendicato. Vae victis! Le vittime saranno sempre le stesse. Solo la potenza è rispettata; essa sola può influenzare i tiranni. Se avessimo la forza - ma se gli assassinii legali del 1887 non riuscirono a sollevare altro che passiva indignazione, posso aspettarmi sviluppi radicali in conseguenza della mia troppo brutale condanna? È irragionevole. Cinque anni, in effetti,sono passati dalla tragedia di Haymarket. Forse il Popolo ha imparato all' amara scuola dell'oppressione e della sconfitta. Oh, se il movimento dei lavoratori comprendesse il significato del mio gesto, se il lavoratore capisse i miei scopi e le mie motivazioni, potrebbe venir provocato ad un'ampia protesta, forse ad un'energica rivendicazione. Ah, sì! Ma quando, quando questo ottuso capirà le cose? Quando aprirà gli occhi? Cieco alla sua stessa schiavitù e degradazione, posso aspettarmi che percepisca i torti subìti da altri? E chi può illuminarlo? Nessuno concepisce la verità profondamente e chiaramente come noi anarchici. Persino i socialisti non si azzardano a sostenere l'intera, nuda verità. Essi hanno coperto la Dea della Libertà con una foglia di fico; la religione, la vera fonte della bigotteria e dell'ingiustizia, è stata ufficialmente dichiarata Privatsache. D'ora innanzi questi timidi liberatori del mondo devono badare a non calpestare le orme del pregiudizio e della superstizione. Presto si eleveranno alla rispettabilità borghese, un partito di politicanti "pratici" e dalla "giudiziosa" morale. Che misera caduta dalle vette del Nichilismo che lanciava la sfida ad ogni istituzione in quanto tale, quindi in quanto ingiustizia. In effetti non c'è una sola istituzione nella nostra pseudo civiltà che meriti di esistere. Ma solo gli anarchici osano dichiarare guerra a tutte le forme di ingiustizia, ed essi sono pochi di numero, senza potere. Le divisioni interne, inoltre, aggravano la nostra debolezza; ed ora, anche Most è diventato apostata. I compagni ebrei saranno influenzati dal suo atteggiamento. Rimane solo la Ragazza. Ma ella è nuova del movimento, e quasi sconosciuta. Indubbiamente ha del talento come oratrice, ma è una donna, piuttosto male in salute. In tutto il movimento, non conosco nessuno capace di far propaganda coi fatti, o di un atto di vendetta, eccetto il Gemello. 0 almeno non mi aspetto che alcun altro compagno si assuma il pericoloso compito di liberazione. Il Gemello è un vero rivoluzionario; un po' impulsivo ed irresponsabile, forse, con propensioni leggermente aristocratiche, tuttavia, assolutamente fidato per compiti rivoluzionari. Ma non ci penserà neanche. Avevamo delle idee così strane del carcere: la vista di un.'uniforme da poliziotto, un arresto, visioni di un pozzo senza fondo, sparizione senza ritorno, come in Russia. Come potrei avviare il discorso su quest'argomento col Gernello? Tutta la corrispondenza passa tra le mani del censore; la mia corrispondenza, soprattutto - in quanto condannato a lunga pena ed anarchico - sarà minuziosamente controllata. Non sembra esserci alcuna possibilità. Sono sepolto vivo in questa tomba di pietra. La fuga è disperata. E quest'agonia di morte vivente - non posso sopportarla...
UN RAGGIO DI LUCE
Desidero moltissimo un po' di compagnia. Anche la sola vista di un
essere umano è un sollievo. Ogni mattino, dopo la colazione, mi metto
ad ascoltare attentamente il fruscìo familiare sul pavimento del corridoio:
è il vecchio scopino che "pulisce". La bocca delicata arricciata
in un fischio non udibile, il detenuto con un braccio solo muove la scopa con
la sinistra, l'estremità del manico premuta contro l'ascella. "Eilà,
Aleck! Come stai oggi? È di fronte alla mia cella, dalla parte opposta
della parete, la scopa ferma a mezz'aria. Colgo un'occasionale occhiata dei
begli occhi azzurri, mentre la sua testa è continuamente in movimento,
oscillando da destra a sinistra, attento all'arrivo di una guardia. "Come
va, Aleck?" "Oh, non diversamente dal solito". "So cosa
vuoi dire, Aleck, l'ho passato anch'io. Tieni a posto i nervi, e andrà
bene, caro mio. Sei ancora giovane, tu". "Vecchio abbastanza per morire",
replico, amaro. "Sst! Non parlare così forte. La vite ha lunghe
orecchie". "La vite?". Una speranza selvaggia scuote il mio cuore.
La "vite! " Quell'incomprensibile termine nel biglietto misterioso
- forse l'ha scritta costui. In attesa ansiosa, guardo lo scopino. La schiena
voltata verso di me, la testa curva, si mette freneticamente a muovere la scopa
col veloce, breve movimento dell'unica mano. "Sst, sussurra, senza voltarsi,
appena supera la linea della mia cella. Ascolto attento. Non un suono, salvo
il movimento regolare della scopa. Ma il più esperto orecchio del vecchio
detenuto non sbagliava. Una lunga ombra attraversa la galleria. La guardia alta
dagli occhi cattivi era alla mia porta. "Cosa avevi da dire?" chiede.
"Non dicevo nulla". "Non negare. Torna dentro il tuo buco. Non
stare vicino alla porta, capito?" Rivolto verso il fondo del corridoio,
la guardia grida: "Ehi tu, sciancato! Stavi parlando, vero?" "No,
signore". "Non t'azzardare a mentirmi. Non è vero". "Giuro
su Dio che non parlavo". "Bene, se ti becco a parlare con quel figlio
di.... ti sistemo io".
Il fruscio della scopa è cessato. Lo scopino sta spolverando le porte.
I colpi dei piumino vengono più vicino. L'uomo si ferma ancora dinanzi
alla mia porta, la sua testa gira a destra e a sinistra, mentre pulisce accuratamente.
"Aleck", sussurra, "stà attento a quella vite. È
un... Hai visto come m'è saltato addosso?" "Che cosa ti farebbe
se ti vedesse parlare con me?". "Mi sbatterebbe nel buco, nel sotterraneo,
sai. Perderei anche il lavoro". :'Allora, è meglio che tu non parli
con me". 'Oh, non mi fa paura, quello. Non può beccarmi, non lui.
Non mi ha visto parlare; ha solo tentato. Ma non può fare il furbo con
me, comunque". "Ma stai attento". "Va tutto bene. Se n'è
andato in cortile, ora. Non ha incarichi nel blocco, comunque, se non per i
pasti. Sta solo cercando rogne. È un farabutto, quel Corubread Toni".
"Chi?" "Quella vite di un Fellings. Lo chiamiamo Focaccia Tom
perché rubacchia la nostra focaccia di granoturco". "Che focaccia
di granoturco?" "Ha, ha! Il martedì e il sabato ci danno una
focaccia di farina di granoturco per colazione. Non è niente di speciale,
ma meglio dei funghi. Sai cosa sono i funghi? Non conosci il gergo, vero? I
funghi sono il pane". Sorride compiaciuto dei suo riuscito bon mot. Di
colpo, tende le orecchie e con un rapido gesto di avvertimento, si allontana
dalla mia cella. Dopo qualche minuto ritorna, bisbigliando: "Tutto OK.
Non c'è nessuno. Tom è stato chiamato in officina. Non sarà
di ritorno prima di pranzo, grazie al cielo. Solo il Capo è nel blocco,
il vecchio Mitchell, di guardia a quest'ala. È il Blocco Nord".
"Le donne stanno al Blocco Sud?" "No. Le ragazze hanno un edificio
speciale. Il Blocco Sud comprende le nuove celle, appena finite. Già
zeppe e il pesce fresco arriva ogni giorno. Il tribunale a Pittsburgh lavora
molto. Conosci nessuno qui dentro?" "Be', fai conoscenze, Aleck. Ti
darà qualcosa da fare. Immagino che tu ne abbia bisogno. So come ti senti,
ragazzo. Credevo di morire quando mi chiusero qui dentro. Terribile. Un tale
mi consigliò di darmi da fare e farmi degli amici. Credevo che mi volesse
prendere in giro, ma era un bravo ragazzo, davvero. Fatti qualche amico, Aleck;
diventerai pazzo, se no. Devo andarmene, adesso. Ci vediamo. Il mio nome è
Wingle". "Wingie?" 'Mi chiamano così. Sono stato soldato;
fui a Bull Run. Correva tanto forte che persi il braccio destro, ha, ha, ha!
Arrivederci". Avidamente non vedo l'ora di scambiare quattro chiacchiere
con Wingie. Sono gli unici momenti di sollievo nella monotonia della mia vita.
Ma i giorni passano senza poter scambiare una parola. Silenzioso, il detenuto
mutilato mi passa davanti, apparentemente dimentico della mia presenza, mentre
col cuore che pulsa scruto tra le sbarre attendendo un cenno di saluto. Solamente
una strizzatina d'occhi veloce mi rassicura e mi avverte che è il secondino
che vigila. Gradatamente l'ingegnosità di Wingie ci permette più
frequenti scambi di osservazione e raccolgo molte informazioni sulla prigione.
I detenuti sono alla mia parte, dice Wingie. Loro sanno che io sono "un
bravo ragazzo". Sono sicuro di trovare degli amici, ma devo stare attento
ai "piccioni da chiamo", che riferiscono qualsiasi cosa alle guardie.
Wingie conosce bene la storia di ogni secondino. La maggior parte di loro è
"marcia", mi assicura. Soprattutto il Capitano del turno notturno
è "feroce e un ex moscà ". Solo tre "viti"
sono di turno di notte per ogni blocco, ma ci sono un centinaio di genti "che
girano nel carcere" di giorno. Wingie promette di essere amico di darmi
altre informazioni.
OFFICINA
Sto in fila con una dozzina di detenuti nell'anticarnera dell' ufficio del Vice.
Mi sento umiliato appena vedo,per la prima volta,in piena luce, i miei vestiti
a strisce. Sono al livello di una bestia! La mia prima impressione di un detenuto
in uniforme è penosamente vivida: assomiglia ad un pericoloso bruto.
In qualche modo l'immagine nella mia mente è associata ad una tigre selvaggia
- ed ora anch' io do quell'impressione. La porta della rotonda si apre, lasciando
passare l'alta allampanata figura del vicedirettore. "Su le mani!"
Il Vice lentamente passa lungo la fila osservando una mano qui ed una là.
Divide gli uomini in gruppi: poi, indicando quello in cui sono anch' io, dice
con voce femminea: "Nessuno storpio. Guardie, portateli, ehm, ehm, al Numero
Sette. Poi Sig. Hoods". "Allineati! Avanti, march!" Il mio rancore
verso quel modo di trattarci come una mandria lascia il posto all'attesa ansiosa.
Finalmente mi vien concesso di lavorare! Penso alla dislocazione del "Numero
Sette" ed alle possibilità di fuga. Affiancati dai secondini, attraversiamo
il cortile della prigione a file serrate. Le sentinelle alle mura, coi fucili
appoggiati mollemente sul braccio curvo, guardano la fila a strisce che si svolge
come un serpente lungo lo spazio aperto. Il cortile grande e pulito, il prato
ben tenuto ed invitante. La prima boccata di aria fresca in due settimane stimola
violentemente il mio desiderio di libertà. Forse l'officina offrirà
una possibilità di fuga. Il pensiero eccita il mio spirito di osservazione.
Chiusi a nord, est e sud dal muro di pietra, i due blocchi del carcere formano
un parallelogrammo, racchiudente le officine, la cucina, l'ospedale e, all'estremità
sud, il quartiere delle donne. "Rompete le file!" Entriamo al "Numero
Sette", una fabbrica di stuoie. Con difficoltà distinguo gli oggetti
nella sala scura, dal basso soffitto con le finestre piccole, sbarrate. L'atmosfera
è impregnata di polvere; il frastuono dei telai è assordante.
Una cappa di rumore soffoca l'ambiente. Il guardiano incaricato mi assegna ad
una macchina occupata da un prigioniero magro nelle sue strisce. "Jim,
mostragli che cosa deve fare". Un lungo periodo di tempo trascorre, senza
che Jim mi badi nemmeno. Curvo sulla macchina, sembra assorto nel lavoro, le
sue mani muovono abilmente la navetta, col piede sul pedale. Poi bisbiglia,
rauco: "Pesce fresco?" "Cosa hai detto?" "Tu, sei qui
da molto?' "Due settimane". "Quanto devi fare?" "Ventidue
anni". "Vuoi prendermi in giro" "Sul serio". "Davvero?
Perbacco!" La navetta va e viene. Jim rimane in silenzio per un po', poi
mi chiede, all' improvviso: "Perché ti hanno messo qui?" "Non
so". "Ti sei ribellato?" " No". "Allora sei un
pezzo grosso". "Perché dici così?" "Questa
qui è un'officina tremenda. Non ci mettono mai un tipo ubbidiente a meno
che non sia un pezzo grosso, oppure se vogliono spremerlo un po'". "Come
ci sei capitato, tu?" "I o? Dio li maledica... mi hanno punito. Vedi
questo?" Mi indica un profondo sfregio sulla tempia. "Una discussione
con le viti. Mi hanno quasi accecato. È stato quel grosso toro laggiù,
Pete Hoods. Dovrò occuparmi anche di lui, certo, maledetta la sua sudicia
anima. Lo ucciderò. Perdio se lo farò. Comunque tirerò
le cuoia qui dentro". "Forse non è così grave",
cerco di incoraggiarlo. "Ah no, eh? Che cosa ne sai tu? Non me la passo
bene, e sputo sangue ogni notte. Questa polvere mi uccide. E ucciderà
anche te, maledettamente presto". Come per sottolineare le sue parole,
è squassato da un accesso di tosse, lungo e profondo. La navetta nel
frattempo è rimasta impigliata nelle frange dello stuoino. Riprendendo
respiro, Jim afferra il coltello al suo fianco e con pochi abili colpi libera
il metallo. Avanti ed indietro continua ad andare quell'oggetto luccicante e
Jim è di nuovo assorbito nel suo lavoro. Coi muscoli tesi, il suo lungo
corpo quasi tirato attraverso il telaio,tirando e spingendo ritmicamente, Jim
mette ogni sforzo per sbrigarsi a completare il compito giornaliero. "Che
succede qui?" Il secondino si avvicina. "Come va?" chiede, indicandomi
con un cenno del capo. "Lui va bene. Ma, Hoods, questo non è un
posto per il ragazzo. S'è preso ventuno anni". La testa senza forza
rotolò da un lato, sbattendo contro il piede del telaio. "Chiudi
quella maledetta bocca! " replica la guardia, rabbiosa. Il tisico si curva
sul suo lavoro, guardando spaventato l'asta di misurazione del secondino. Quando
la guardia si gira per andarsene, Jim protesta: "Sig. Hoods, ho perso del
tempo per insegnargli. Non le dispiacerebbe togliere qualcosa? La roba da fare
è più di quanto possa farne e io sono malato". "Stupidaggini.
Non hai un bel niente, Jim. Sei solo pigro, ecco che cosa sei. Non simulare,
adesso. Non ci riesci con me". Mentre gli stavo spiegando l'accaduto, il
dottore mi guardava curiosamente. A mezzogiorno l'incaricato mi chiama presso
di lui. "Tu sei nuovo, qui" Poi chiese il mio nome. "Oh, il famoso
caso" sorrise. "Conosco molto bene", mi dice, "non stare
ad ascoltare Jim.Voleva fare il duro, ma noi gli abbiamo fatto cambiare atteggiamento.
Adesso è a posto. Tu rimarrai qui per molto tempo; bada di comportarti
bene. Questo non è un luogo di divertimenti, capito?" Mentre sto
per riprendere il mio posto nella fila che si era formata per ritornare in cella
per il pranzo, mi richiama: "Dì, Aleck, faresti meglio a tener d'occhio
il tuo compagno Jim. È un po' strambo, sai". Fa un gesto rotatorio
col dito vicino alla testa, in modo significativo. "Sì... siamo
a corto di uomini". L'officina sta cominciando a minarmi la salute; la
polvere mi ha irritato la gola e la vista mi si sta indebolendo nell'oscurità
costante. L'incaricato ha ripetutamente espresso insoddisfazione per il mio
lento apprendimento del lavoro. "Ti darò un'altra possibilità",
mi ha avvertito ieri, "e se non fai un buono zerbino per la prossima settimana,
te ne ritorni nel buco. "Ha rimproverato aspramente Jim per la sua inefficienza
come istruttore. Quando il tisico stava per ribattere, gli prese un attacco
di tosse. La faccia devastata divenne giallo grigio, ma di colpo sembrò
riprendersi e continuò il lavoro. All'improvviso lo vidi afferrarsi al
telaio, uno sguardo terrorizzato dipinto sul suo viso, cominciò ad ansimare
in cerca di aria, poi un fiotto di sangue scuro gli uscì dalla bocca
e Jim cadde sul pavimento. scopo. Il misurato ronzio dei telai continuava. Il
detenuto che lavorava alla macchina vicina gettò un'occhiata furtiva
alla figura distesa a terra e si curvò ancor di più sul suo lavoro.
Jim giacque immoto, il sangue tingendo di rosso il pavimento. Corsi dalla guardia.
"Sig. Hoods, Jim, è ". "Torna al tuo posto, maledetto!"
gridò. "Come osi lasciarlo senza il mio permesso?"
"Volevo solo..."
"Via, chiaro?" ruggì, alzando il pesante bastone.
Ritornai al mio posto. Jim era sempre a terra, le labbra aperte, il viso cenerognolo.
Lentamente, con passo misurato, il secondino si avvicinò.
"Che succede qui?"
Indicai Jim. La guardia diede un'occhiata all'uomo svenuto, poi toccò leggermente la faccia sanguinante con il piede.
"Alzati, Jim, alzati".
La testa senza forza rotolò da un lato, sbattendo contro il piede del telaio.
'Forse non simula", borbottò la guardia. Poi mi puntò contro
l'indice,
minaccioso: "Non lasciare mai il tuo posto senza ordini. Ricordatelo!"
Dopo un lungo periodo di tempo, che mi fece credere che Jim era stato dimenticato, arrivò il dottore. Era il Sig. Rankin, il vecchio medico del carcere, un uomo piccolo, tarchiato oltre la mezza età, con un bagliore divertito nello sguardo. Ordinò di portare in infermeria il detenuto ammalato. "Qualcuno ha visto cadere quest'uomo?" domandò,
"Sì, costui" replicò la guardia, indicandomi.
Mentre gli stavo spiegando l'accaduto, il dottore mi guardava curiosamente. Poi chiese il mio nome. "Oh, il famoso caso" sorrise. "Conosco molto bene il Sig. Frick. In fondo un uomo non tanto cattivo. Ma voi sarete trattato bene qui, Berkman. Questa è un'istituzione democratica, sapete. Comunque, che cosa vi è successo agli occhi? Sono infiammati. Sono sempre così?"
"Solamente da quando lavoro in questo laboratorio".
"Oh, sta benissimo, dottore" s'intromise la guardia. "È qui solamente da una settimana".
Rankin gettò uno sguardo canzonatorio alla guardia.
"Lo volete qui?"
"Sì... siamo a corto di uomini".
"Bene, io sono il medico, Sig. Hoods". Poi, rivolgendosi a me, aggiunse: 'Fatevi mettere questa mattina nella lista dei malati".
La visita del dottore ha portato al mio trasferimento al settore maglieria.
Il cambiamento mi ha ridato nuova speranza. Un reparto disciplinare, cui sono
generalmente assegnati i "casi difficili" - detenuti ai primi stadi
di alienazione mentale, o eccezionalmente insubordinati - l'officina di stuoini
è il posto di sorveglianza speciale e della più severa disciplina.
È l'officina più controllata, da cui la fuga è impossibile.
Ma nel settore maglieria, un recente apporto all'industria locale, potrei trovare
l'occasione favorevole. Ci vorrà tempo, naturalmente; ma la mia pazienza
sarà adeguata al grande scopo. Le condizioni di lavoro, inoltre sono
più
favorevoli: l'ambiente è luminoso ed areato, la disciplina non così
opprimente. La mia miopia mi ha assicurato l'esenzione dal lavoro alle macchine.
Il vice all'inizio insisteva che la mia vista era "sufficientemente buona"
da vedere i numerosi aghi della macchina da maglieria. È vero, li potevo
vedere; ma non tanto distintamente da poter inserire in modo efficace le trame
iniziali. L'ammettere la capacità parziale avrebbe significato, ritenevo,
che mi avrebbero ordinato di produrre il lavoro stabilito; e il lavoro non terminato
o sbagliato, sarebbe stato punito severamente. La necessità mi portò
al sotterfugio: assicurai la mia assoluta incapacità a distinguere gli
aghi. Poiché ripetute minacce di punizione non riuscirono a mutare la
mia decisione, mi fu assegnato il relativamente più facile lavoro di
"voltare" le calze. Il lavoro, sebbene ripetitivo, non è impegnativo.
Consiste nel raccogliere insieme i manufatti lavorati dalle macchine di maglieria,
da cui il prodotto esce senza piedi. lo porto il mucchio sulla tavola che ha
un montante di ferro, alto all'incirca diciotto pollici, sormontato da un piccolo
disco capovolto. Su questo strumento le calze vengono voltate infilando l'articolo
sul montante, poi rapidamente sfilandolo. La maglia così "girata"
è portata verso la macchina che la annoda, con cui il prodotto è
ultimato e mi viene rimandato indietro, e ancora dev'essere girato, pronto per
essere confezionato e spedito.
I giorni e le settimane trascorrono in modo monotono. La pratica mi dà
una gran destrezza nel lavoro, ma le ore di duro lavoro si trascinano pesantemente.
Cerco di accelerare i tempi sforzandomi di prendere interesse nel lavoro. Conto
le calze che giro, i movimenti richiesti per ogni operazione e la quantità
realizzata in un dato periodo di tempo. Ma nonostante questi sforzi, la mia
mente ritorna costantemente su argomenti
abituali: i miei amici e la propaganda; la terribile ingiustizia della mia condanna
eccessiva; suicidio e fuga.
Le notti sono senza riposo. Oppresso da un peso indefinito, o tormentato dal terrore, mi risveglio di soprassalto, ansimante e spaventato, per provare il momentaneo sollievo del pericolo passato. Ma il momento successivo sono schiacciato dalla coscienza del mondo circostante, e mi rituffo nell'ansia e nella disperazione, impotente, senza speranza.
Così il giorno succede alla notte e la notte succede al giorno, nella lotta senza fine della speranza e dello scoraggiamento, della vita e della morte, tra il tono estremamente placido dei miei incubi di Pennsylvania.
[...]
PERSECUZIONE
La sofferenza ed il pericolo costante sono dei rapidi maestri. Nei tre mesi
dì vita in penitenziario ho imparato molte cose. Non so se le vaghe paure
immaginate dalla mia inesperienza fossero più terrificanti della realtà
dell'esistenza carceraria.
Sotto un aspetto, soprattutto, la realtà è una fonte di amarezza e di costante irritazione. Nonostante tutti i terrori, forse per causa loro, avevo sempre ritenuto il carcere un luogo dove, in un certo modo, la natura ridiventa se stessa: le differenze sociali sono abolite, le barriere artificiali distrutte; nessun bisogno di nascondere i propri pensieri ed emozioni; ognuno può essere se stesso, lasciando ogni ipocrisia ed artificiosità ai cancelli della prigione. Ma com'è differente questa realtà! È piena di inganni, di falsità e di fariseismo - un contrappunto peggiorativo del mondo esterno. L'adulatore, il calunniatore, lo spione - questa gente trova qui dentro suolo fertile. L'astio dI una guardia vuoi dire sciagura, che può essere scansata solo strisciando e adulando, e il servilismo serve per avere un lavoro più facile. Lo spirito di ipocrisia a strisce piagnucola la propria conversione, nelle orecchie soddisfatte delle dame cristiane, facendo attenzione a non venir sorpresi senza libretto di preghiere o senza Bibbia - e subito la devozione simulata assicura il perdono, per la gioia degli angeli, per il ritorno del peccatore all'ovile. Queste scene mi disgustano.
Le guardie rendono immediatamente evidente la realtà ai nuovi ospiti: protestare contro un'ingiustizia è inutile e pericoloso. Ieri in officina sono stato testimone di un incidente caratteristico - una lite tra Johnny Davis e Jack Bradford, tutt'e due arrivati da poco e ancora dei ragazzi. Johnny, un tipo dall'aria maschia, lavora a una macchina per maglieria, a pochi passi dalla mia tavola. Dalla parte opposta è Jack, la cui precedente esperIenza in un riformatorio l'ha "fatto furbo", come dice. Il mio soggiorno di tre mesi mi ha insegnato l'arte di conversare con un quasi impercettibile movimento delle labbra. In questo modo ho saputo da Johnny che Bradford gli sottrae la roba finita, facendogli prendere numerose punizioni per la lentezza nel lavoro. Sperando di fare cessare i furti, Johnny si è lamentato col guardiano, pur senza accusare Jack. Ma la guardia ha ignorato il reclamo e ha continuato a riprendere il giovane. Poi Johnny venne mandato nel sotterraneo. Ieri mattina ritornò al lavoro. Il cambiamento in quel ragazzo rubicondo era stupefacente: pallido e cogli occhi scavati, camminava con passo debole ed esitante. Appena prese il suo posto alla macchina, lo sentii dire alla guardia:
"Sig. Cosson, per favore mettetemi da qualche altra parte".
"Perché?" domandò la guardia.
"Non posso lavorare qui. Lavorerò ad un'altra macchina, per favore, Sig. Cosson".
"Perché non puoi farlo lì?"
"Mi portano via le calze".
"Oh, ricomincI con la solita storia, eh? Vuoi tornare nel buco?"
"Non potrei più starci in quel buco, Sig. Cosson, lo giuro su Dio. Ma qui mi rubano le calze".
"Ti rubano un cavolo! Chi ti ruba le tue calze, eh? Non mi prendere in giro ancora. Nessuno può portarti via le calze sotto i miei occhi. Và a lavorare, adesso, e faresti meglio a fare il tuo dovere, capito?"
Nel pomeriggio sul tardi, quando fu fatta la conta, Johnny risultò con diciotto paia in meno. Bradford era in supero.
Vidi Cosson avvicinarsi a Johnny.
"Ehi, trenta, macchina trenta" urlò. "Non vuoi lavorare, e li? Mettiti giacca e berretto".
Parole fatali! Significavano un immediato rapporto al vice e l'inevitabile condanna al sotterraneo.
"Oh, Sig. Cosson", protestò Johnny, "non è colpa mia, davvero".
"Ah, no, eh? Di chi è la colpa, mia?"
Johnny esitò. I suoi occhi si abbassarono, poi si fissarono su Bradford, che evitò accuratamente di incontrarli.
"Non posso fare la spia", disse, calmo.
"Oh, Cristo! Non hai proprio niente da far la spia. Mettiti giacca e berretto".
Johnny passò la notte nel sotterraneo. Stamattina ritornò di sopra, con le guance ancor più incavate, gli occhi ancor più infossati. Lavorò con disperata energia. Faticò duramente, furiosamente, lo sguardo sempre attento al mucchio crescente di calze. Di tanto in tanto gettava un'occhiata a Bradford, che, fiducioso nel favore della guardia, scambiava l'occhiata d'odio con un malizioso ammiccare dell'occhio sinistro.
Una volta Johnny, senza fermarsi nel suo lavoro, voltò un po' la testa verso di me. Gli sorrisi in modo incoraggiante ed in quello stesso istante vidi la mano di Jack allungarsi attraverso il tavolo ed afferrare lestamente una manciata di calze di Johnny. Subito un grido penetrante gettò scompiglio nell'officina. Con fatica divisero il ragazzo infuriato da Bradford caduto a terra. Tutti e due i detenuti vennero portati dal vice per essere puniti, con la Guardia Anziana Cosson come unico testimone.
Impazientemente attesi il risultato. Attraverso la finestra aperta vidi tornare il secondino. Entrò nell'officina con un sorriso all'angolo della bocca. Decisi di parlargli quando mi passò vicino.
"Sig. Cosson", dissi con ostentata cortesia, "posso farvi una domanda?"
"Ma certo, Burk, non ti mangio mica. Spara!"
"Che cosa ne è dei ragazzi?"
"Johnny s'è beccato dieci giorni di buco. Un po' salato, eh? Vedi, è stato lui a cominciare il litigio, perché non aveva voglia di lavorare. Oh, sono più furbo io di lui. Non possono ingannarmi così facilmente, vero, Burk?"
"Be', direi di no, Sig. Cosson. Avete visto com'è, iniziata la baruffa?"
"No. Ma Johnny ha ammesso di aver colpito Bradford per primo. È sufficiente, lo sai. Trad ritornerà in officina domani. L'ho tirato fuori bene, come vedi; è un buon lavoratore, fa sempre più del suo lavoro. Ha perso il pranzo. Credo che lo sopporterà. Non si perde molto, vero, Burk?"
"No, non molto", ammetto. "Ma, Sig. Cosson, era colpa di Bradford".
"Cioè?" domandò la guardia.
"Ha rubato le calze di Johnny".
"Non l'hai visto, tu".
"Sì, Sig. Cosson. L'ho visto..."
"Senti, Burk. È tutto a posto. Johnny non è un bravo ragazzo, comunque; è troppo insolente. Faresti meglio a non raccontare niente di tutto questo, chiaro? Il vice è d'accordo con me".
La tremenda ingiustizia mi tormenta. Povero Johnny, è ormai da quattro giorni nel sotterraneo. Per la terza volta, e tuttavia completamente innocente. Il sangue mi ribolle al pensiero del feroce trattamento e della perfidia della guardia. È mio dovere di rivoluzionario stare dalla parte dei perseguitati. Sì, farò così. Ma come fare in questo caso? Reclamare contro Cosson pare sia assolutamente inutile. E la guardia, informata del mio atteggiamento, mi renderebbe la vita impossibile: la sua autorità nell'officina è assoluta.
Vari progetti che rimesto dentro di me si rivelano, ad un'analisi più approfondita, inattuabili. Considerazioni di interesse personale si scontrano contro il mio senso del dovere. L'immagine di Johnny nel sotterraneo, la sua macchina ferma e il sorriso trionfante di Bradford, tiene sveglia la coscienza dell'accusa, finché il silenzio diviene insopportabile. Decido di parlare al vicedirettore alla prima occasione.
Parecchi giorni passano. Spesso vengo preso dai dubbi: è opportuno parlarne al vice? Non può giovare a Johnny: mi metterà nei pasticci. Ma subito dopo mi vergogno della mia debolezza. Mi ritorna in mente l'ammirato eroe della mia giovinezza, il famoso Mishkin. Con un senso opprimente della mia impotenza, rivedo i gesti coraggiosi di Hippolyte Nikitich. Che uomo! Con la sua unica mano cercò di liberare Chernishevsky dalla prigione. Ah, la maledizione della umiliazione! Se non fosse stato per quello, Mishkin ci sarebbe riuscito e il grande ispiratore della gioventù russa sarebbe stato restituito al mondo. Indugio sui particolari della fuga quasi riuscita, la lotta di Mishkin coi cosacchi che lo inseguivano, il suo arresto, e il suo grande discorso durante il processo. Condannato a dieci anni di lavori forzati nelle miniere della Siberia, sfidò il tiranno russo con la sua orazione funebre sulla tomba di Dmokhvsky, e la sua audacia gli costò altri quindici anni di katorga. Ricostruisco nei particolari i suoi ripetuti tentativi di evasione, il trasferimento del temibile prigioniero nella fortezza Petropavloskaia e quindi nella tremenda prigione di Schlusselburg, dove Mishkin affrontò la morte vendicando i maltrattamenti dei suoi compagni su un alto ufficiale del governo. Ali! così agiscono i rivoluzionari; e io - certo, sono deciso. Nessun pericolo suggellerà le mie labbra contro le offese e l'ingiustizia.
Finalmente ho un'occasione. Il vice entra nell'officina. Alto e grigio, un po' curvo, con la testa in avanti, assomiglia ad un lupo che segue la traccia.
"Sig. McPane, un momento, per favore".
"Ritengo che Johnny Davis stia subendo una punizione ingiusta".
"Lo credi, ehm, ehm. E chi è questo innocente Johnny, ehm, ehm, Davis?"
Le sue dita tambureggiano nervose sul tavolo; mi squadra con occhi sprezzanti, sospettosi.
"Macchina trenta, vice".
"Ah, sì; macchina trenta; ehm, ehm, Reddy Davis. Ehm, ha avuto un litigio".
"Quell'altro gli rubava le calze. L'ho visto io, Sig. McPane".
"Bene, bene. E come mai, ehm, ehm, l'hai visto, mio caro giovanotto? Dunque ammetti, ehm, ehm, che non stavi impegnandoti, ehm, ehm, nel tuo lavoro. Questo è male, ehm, molto male. Sig. Cosson!"
La guardia gli corre incontro.
"Sig. Cosson, quest'uomo vi ha, ehm, ehm, accusato. Prigioniero, non interrompermi. Ehm, qual è il tuo numero?"
"Sig. Cosson, A 7 fa un ehm, reclamo contro la guardia ehm, responsabile di quest'officina. Per favore, ehm, ehm, se lo annoti".
Si misero tutti e due da una parte, parlottando a bassa voce. Le parole "disubbidiente", "ragazzino", giungono alle mie orecchie. Il vice annuisce alla guardia, i suoi occhi d'acciaio puntano su di me con malevolenza.
Mi sento disperato, senza amici. La consolazione del saluto affettuoso di Wingie mi manca. Il mio povero amico è nei guai. Da brani di conversazione nell'officina ho messo insieme tutta la storia. Dutch-Adams, un detenuto che è alla sua terza reclusione è lo spione favorito del vice, ha perso la sua razione di tabacco di questo mese per una scommessa su un pugile. Domandò che Wingie, che era quello che teneva le scommesse, dividesse la vincita con lui. Infuriato per il diniego, Dutch accusò il mio amico di giocare d'azzardo. L'improvvisa perquisizione della cella di Wingie portò alla luce il tabacco, così dimostrando in apparenza la fondatezza delle accuse. Wingie fu mandato nel sotterraneo. Ma dopo espiata la pena di cinque giorni il mio amico non rientrò nella sua vecchia cella ed io venni a sapere che era stato condannato all'isolamento per aver rifiutato di denunciare la gente che gli aveva affidato i soldi.
Il destino di Wingie mi tormenta. Il mio povero caro amico sta crollando sotto gli effetti della terribile punizione. Stamattina, accadendomi di passare davanti alla sua cella, lo chiamai, ma non mi rispose. Forse non mi aveva sentito, pensai. Con impazienza attesi il ritorno al blocco per il pranzo. "Ehi, Wingie!" chiamai. Era sulla porta, fissando lo sguardo tra le sbarre. mi fissava freddamente,con occhi vuoti,senza espressione. "Chi sei?" gemette, farfugliando. Poi cominciò a balbettare. Di colpo la tremenda verità mi parò dinanzi. Il mio povero, povero amico, il primo a dirmi qualcosa di gentile, è impazzito!.