Parlare del lavoro in carcere è parlare del carcere, e non è
possibile capire l’evoluzione storica dell’istituto senza accennare
a una analisi, necessariamente sommaria in questa sede, dell’evoluzione
della pena detentiva e della funzione, assai mutevole, che essa ha svolto nel
tempo.
Su questo tema il panorama è assai ampio e variegato ma sicuramente
l’interpretazione offerta dalla “critica materialistica della
penalità” e, specificatamente, dagli studi di economia politica
della pena di Rusche e Kirchheimer (1)
rappresentano una vera e propria rottura epistemologica, su cui si inserì
anche Focault con Sorvegliare e punire e la sua teoria della punizione
come disciplinamento. Quella rottura metteva finalmente in relazione la pena
con le vicende, soprattutto economiche, della società.
La pena detentiva, nella sua forma di privazione della libertà, si consolidò
infatti in un momento storico in cui la società, sulla base dei principi
filosofici dell’Illuminismo e del ripudio delle pene corporali e delle
mutilazioni quali risposte sanzionatorie tipiche dello Stato assoluto, la ritenne
più adeguata al fine di ristabilire l’ordine giuridico violato.
Si affacciò così l’idea di organizzare i luoghi della
pena, dove applicare la sospensione dalla libertà in maniera proporzionata,
secondo il dettato della legge. La stessa cultura della nuova società
borghese, poi, nella espressione religiosa delle società formatasi
attorno alla protesta e ai principi etico-morali di Calvino e Lutero, diede
vita alle prime forme di lavoro penitenziario sistematico.
La casa di correzione nasce infatti in Olanda ed è la struttura in cui
meglio si distingue per la prima volta l’intento di recuperare a fini
produttivi il reo, ripudiando l’adozione di sistemi punitivi contrari
al comune sentire della cittadinanza, ma soprattutto contrastanti con le
esigenze dell’economia.
Attraverso la forzosa trasmissione dell’etica del lavoro ai soggetti
devianti, la comunità protestante coniuga l’ambivalenza dell’esigenza
punitiva e retributiva con l’esigenza di recupero del reo. E questa
ambivalenza resterà impressa all’istituto del lavoro penitenziario:
un’ambivalenza tra intento di recupero alla società e intento
retributivo che è propria del concetto stesso di pena detentiva.
È stato così correttamente sottolineato che “il problema
peculiare del lavoro penitenziario, inteso come lavoro caratterizzato soggettivamente
dalla condizione di detenuto prestatore di lavoro, è quello del continuo
intersecarsi tra situazioni giuridiche nascenti dal rapporto di lavoro e istanza
punitiva dello Stato”. (2)
Il lavoro in carcere nell’evoluzione storica recente
Il Regio Decreto 18/06/1931 n. 787, che considerava il condannato come privo
di qualsiasi capacità di agire, attribuendo allo Stato una superiore
funzione educativa e di tutela, configurava il lavoro come mera modalità
di espiazione della pena con un carattere sostanzialmente afflittivo.
La riforma penitenziaria, introdotta con la legge 26 luglio 1975 n. 354 e il
successivo regolamento di esecuzione DPR 29/04/1976 n. 431 introduce una grande
novità sul tema del lavoro in carcere (3). Pur essendone ribadita l’obbligatorietà,
il lavoro diventa uno degli elementi cardine del trattamento penitenziario diretto
a promuovere il reinserimento sociale del detenuto.
Se l’intervento legislativo del 1975 ha avuto il pregio di porre in una
prospettiva radicalmente mutata il lavoro dei detenuti, dal punto di vista funzionale,
pragmatico, ha prodotto un regresso nello sviluppo delle opportunità lavorative.
Per evitare lo sfruttamento della manodopera dei detenuti da parte dei privati,
fu abrogato infatti il meccanismo delle concessioni in appalto. Fu lasciato alle
Direzioni, cioè in pratica ai direttori degli istituti, l’onere di
attivare e gestire le cd. lavorazioni penitenziarie, senza prevedere né
alcuna formazione specifica per i funzionari direttivi a capo delle strutture
né un potenziamento delle aree contabili. L’amministrazione centrale
si limitò nel tempo a caldeggiare l’implementazione del lavoro senza
mai prevedere alcun obbligo di attivare le lavorazioni, con la conseguenza che
si è progressivamente registrata una flessione del numero complessivo delle
lavorazioni presenti negli istituti penitenziari e delle opportunità occupazionali,
tenuto conto anche di un costante aumento della popolazione detenuta. Interventi
legislativi successivi che consentirono, in deroga alle norme di contabilità
generale dello Stato e di quelle di contabilità speciale, di vendere i
prodotti delle lavorazioni penitenziarie a prezzo pari o anche inferiore al loro
costo, non sortirono effetti rilevanti, né crearono nuovi posti di lavoro
per i detenuti.
Si arriva così alla legge 12/08/1993 n. 296 che ha modificato gli artt.
20 e 21 e ha introdotto l’art. 20 bis legge n. 354/1975. Tali modifiche
hanno posto sullo stesso piano, almeno dal punto di vista programmatico, la destinazione
dei condannati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale,
consentendo, da un lato, l’organizzazione di lavorazioni gestite direttamente
da imprese pubbliche o private e, dall’altro, l’istituzione di corsi
di formazione professionale svolti da aziende pubbliche o private convenzionate.
Decentrando il coordinamento del settore con attribuzione di competenze ai Provveditorati
regionali, si prevede che l’organo periferico possa “affidare, con
contratto d’opera, la direzione tecnica delle lavorazioni a persone estranee
all’Amministrazione penitenziaria, le quali curano anche la specifica formazione
dei responsabili delle lavorazioni e concorrono alla qualificazione professionale
dei detenuti, d’intesa con le Regioni (art. 20 bis L. 354/1975). La seconda
novità è costituita dall’introduzione di un meccanismo di
assegnazione al lavoro intramurario, una sorta di collocamento interno ad opera
di una commissione composta da personale dell’amministrazione penitenziaria
e da rappresentanti dei sindacati, che opera attraverso la formazione di graduatorie
dei detenuti e di tabelle dei posti disponibili.
L’attivazione di questi meccanismi avrebbe dovuto, perlomeno in linea teorica,
agevolare la creazione di nuove attività produttive in carcere e una maggiore
trasparenza nei criteri di assegnazione al lavoro. L’impianto normativo
mirava ad allargare le possibilità di operatività del privato sociale
ed imprenditoriale facendo leva sulla messa a disposizione da parte degli istituti
penitenziari di locali in comodato d’uso, con la previsione di un rimborso
spese forfettario e una percentuale bassissima sugli utili e una manodopera che
poteva essere retribuita nella misura non inferiore ai due terzi del trattamento
economico previsto dai contratti collettivi di lavoro. Questi elementi non sono
stati comunque sufficienti ad attivare un meccanismo virtuoso tale da determinare
l’ingresso in massa nelle carceri di imprenditori o del privato sociale.
Fornire una risposta esaustiva al perché ciò non sia avvenuto appare
alquanto improbabile. Si possono comunque citare alcuni fattori che rappresentano
delle rigidità consolidate del sistema carcere:
Le forme di lavoro possibili
A questo punto appare utile delineare le diverse tipologie di rapporto di lavoro
carcerario che, anche alla luce di una pluriennale giurisprudenza della Corte
Costituzionale, si possono così riassumere:
Il lavoro in carcere: obbligo o diritto?
Prima della riforma penitenziaria del 1975 si può quindi affermare che
il lavoro, concepito come parte integrante della pena, era un obbligo, non un
diritto, e il detenuto lavoratore non poteva invocare la tutela giuridica di interessi
collegati all’attività lavorativa prestata, mancando qualsiasi corrispettività
tra lavoro prestato e mercede ricevuta. Le attività lavorative erano esclusivamente
inframurarie e riguardavano lavori domestici, agricoli, di tipo industriale e
artigianale anche gestiti da imprese private, appaltatrici di manodopera.
Con questo quadro normativo il numero degli occupati al 31/12/1971 risultava essere
di circa 13.000 detenuti su un totale di 22.235. escortdate private escorts
Con la riforma penitenziaria del 1975, in linea generale si afferma l’idea
che il lavoro penitenziario, per assolvere al compito di favorire la rieducazione
del condannato e il suo reinserimento sociale non deve avere “carattere
afflittivo”. Sebbene ne permanga l’obbligatorietà per i condannati
e per i sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa
di lavoro, esso deve essere organizzato secondo metodi che riflettono quelli del
lavoro nella società libera (art. 20 ord. pen.). Inoltre la determinazione
delle remunerazioni dovute, a seconda della quantità e qualità del
lavoro prestato, viene agganciata alla contrattazione collettiva nella misura
dei due terzi (art. 22 ord. pen.).
In termini concreti, come già detto, alle scelte di civiltà operate
con la riforma del 1975 è seguito un periodo di impasse, che permane a
tutt’oggi, che ha visto, a fronte di un aumento esponenziale della popolazione
detenuta dagli anni ’90 in poi, una sostanziale stabilità del numero
dei posti di lavoro disponibili all’interno degli istituti penitenziari.
Fonti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria indicano che al
30/06/2002 il numero dei lavoranti era di 14.355, pari a circa il 25% dei presenti.
Questo dimostra una incapacità del sistema di dare concreta applicazione
a una previsione normativa in cui il lavoro, considerato l’unico elemento
“obbligatorio” del trattamento rieducativo, è assolutamente
carente e tale carenza è avvertita dalla stragrande maggioranza dei detenuti
come “violazione” di un diritto. I detenuti vogliono infatti lavorare,
non tanto forse per essere rieducati quanto per non pesare sulle famiglie o, soprattutto
nel caso degli stranieri, per avere una vita dignitosa in carcere dove anche generi
di prima necessità come i detersivi, il caffè, i francobolli devono
essere acquistati.
È ancora troppo presto per ipotizzare quali saranno gli effetti degli
ultimi interventi normativi in termini sia di aumento o meno dei posti di lavoro
sia di una maggiore o minore garanzia dei diritti dei detenuti lavoratori. La
linea di tendenza che sembra emergere dalle ultime disposizioni normative è
quella di un’apertura al privato, affinché si occupi non solo delle
attività produttive in senso proprio, ma anche dei servizi tradizionalmente
attribuiti alla diretta gestione dell’amministrazione penitenziaria, nella
speranza che si verifichi un allargamento delle occasioni di lavoro inframurario,
che in qualche modo bilanci un’applicazione sempre più restrittiva
delle norme che consentono la possibilità di svolgimento di attività
lavorative all’esterno in regimi alternativi alla pena.
Fonte: pubblicato su resmedia-magazine.net, la rivista della
Camera del Lavoro di Roma Centro della CGIL, all'indirizzo http://www.resmedia-magazine.net/rubricacarceri.htm
Note:
1. Rusche e Kirchheimer, Pena e struttura sociale, 1939, ed. ital. Trad. da
Melossi-Pavarini, Il Mulino, 1978
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2. Vitali Monica, Il lavoro penitenziario, p. XV, Giuffrè ed., 2001
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3. La materia del lavoro in carcere è disciplinato dagli artt. da 20
a 25 della L. n. 354/1975 e dagli artt. da 47 a 57 del nuovo regolamento di
esecuzione (DPR 30 giugno 2000 n. 230) che ha sostituito il precedente regolamento
di esecuzione.
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4. Con riferimento al ruolo del privato sociale nella relazione introduttiva
al disegno di legge Smuraglia si legge ancora: “Sono infatti le cooperative
sociali i soggetti che assumono più facilmente persone condannate, perché
esse sono incentivate dalla legge n° 381 del 1991, la quale prevede gli
sgravi contributivi a favore delle cooperative che assumono almeno il 30% di
lavoratori appartenenti alle categorie svantaggiate, tra cui rientrano i condannati
ammessi alle misure alternative alla detenzione.
Tuttavia, sulla base della normativa ora richiamata, le cooperative sono indotte
ad assumere esclusivamente soggetti che beneficiano delle misure previste dal
titolo I, capo VI, dell’Ordinamento penitenziario, in quanto nel concetto
di persona svantaggiata non rientrano i detenuti ristretti all’interno
degli istituti di pena.
Nasce qui l’opportunità, in primo luogo, di estendere il concetto
di persona svantaggiata e le relative agevolazioni fiscali anche ai soggetti
detenuti, che non fruiscono di misure alternative alla detenzione, facilitandone
così l’avviamento al lavoro, e appare inoltre coerente prevedere
sgravi contributivi a favore delle imprese che utilizzano manodopera detenuta”.
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5. Fondamentale è la sentenza 30 novembre 1988 n.
1087 che ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 22 L. n. 354/1975 riguardante le mercedi dei detenuti.
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