41 bis: testimonianze (2002)
Testimonianza n. 1
Fonte Ansa
Ex detenuto, per 5 anni sottoposto a regime carcere duro
Palermo, 26 settembre 2002
- Era accusato di un reato gravissimo, ha trascorso cinque anni al 41 bis
girando per le carceri italiane, poi è stato assolto, in primo e secondo
grado: ora vuole solo dimenticare. È palermitano, parla, ma solo con
la garanzia dell'anonimato. "Arrivai all'Asinara nel '94, e fu il periodo
migliore - esordisce - due ore d'aria di mattina, dopo la perquisizione corporale,
dalle otto alle dieci, in un cortile di 150 metri quadri, su e giù
a passeggiare in dieci detenuti. Poi di nuovo in cella, sino all'indomani,
a guardare le pareti. Niente socialità, niente ping pong, niente carte.
Mai visto un educatore o un cappellano. I familiari a colloquio per un'ora
una volta al mese, stessa periodicità per le perquisizioni della cella,
la doccia durava tre minuti, poi ci tiravano fuori, anche se eravamo ancora
insaponati. Pranzo alle 12, quasi sempre pasta con il sugo, cena alle 19,
ceci o fagioli. Di tanto in tanto il pesce fritto. "A Pianosa cambiò
tutto - prosegue - dalla nave alla sezione dovevamo camminare a testa bassa,
non si poteva guardare l'isola. Arrivammo alla sezione Agrippa, ho girato
tutti e tre i bracci. Stavamo in una cella con tre brande, ogni giorno erano
24 ore di alta tensione. Era obbligatorio parlare a voce bassa, tenere basso
il volume della televisione, la spesa era custodita in armadietti fuori dalla
cella e per prendere qualcosa bisognava ogni volta chiamare la guardia. Eravamo
continuamente controllati, gli agenti passeggiavano su e giù nei corridoi
fuori dalle celle. Le perquisizioni in cella si accentuarono, in quelle corporali
prima dell'aria gli agenti usavano il metal detector che, a contatto con le
parti intime, emette energia e non è piacevole. La tensione era continua:
a notificare la proroga del 41 bis arrivano la sera, a mezzanotte. Quando
si andava a fare una visita dal medico non dicevano mai prima dove si stava
andando: arrivavano un comandante e sette agenti e bisognava solo seguirli
in silenzio". Il presunto mafioso poi assolto lamenta perfino il "controllo"
delle proprie opinioni: "una volta espressi giudizi sul carcere parlando
con un altro recluso e mi chiamò il direttore: confermai tutto e gli
dissi che mi sembrava di stare ad Alcatraz". Punizioni? "Una volta
- risponde - negai, ed era vero, di avere parlato con un altro detenuto ad
alta voce, attraverso la finestra. Mi spostarono di cella in continuazione,
facendomi saltare il turno delle docce per una settimana". "A Viterbo
- racconta ancora - le bocche di lupo alle finestre impedivano alla luce del
giorno di entrare in cella ed ogni giorno dovevamo stare con la luce accesa,
a Caltanissetta le perquisizioni della cella diventarono giornaliere: scarpe,
pane, vestiti gettati quotidianamente nel lavandino dalle guardie a caccia
di armi o altro". Nell'ultimo periodo il 41 bis venne "ammorbidito",
alcune rigidità attenuate, fu concesso l'invio mensile di due pacchi
di cibo e vestiti invece di uno, e aumentato di un'ora il periodo di aria.
"A Roma - ricorda l'ex detenuto - spuntarono i libri, ne potevamo tenere
tre o quattro, e li potevamo chiedere anche in biblioteca, anche se arrivavano
con molto ritardo. Ogni domenica veniva un sacerdote a dire la messa, ma solo
per dieci minuti. Educatori? Nessuno. Volevo imparare ad usare il computer,
ma non è stato possibile. So che è concesso a detenuti comuni,
ma io ho fatto cinque anni di 41 bis e poi sono stato assolto. Perché
ero innocente. E ora voglio solo dimenticare".
Testimonianza n. 2
Fonte: sito delle Camere Penali http://www.camerepenali.it/
Napoli 23 aprile 2002
Sono in galera e dispongo di pochi libri. Per fortuna alcuni libri li ho letti
quando ero libero. Sono sottoposto al carcere duro e cioè ad una disciplina
così sottile, raffinata, perversa, da fare impallidire il supplizio
più atroce. Sono stato definito socialmente pericoloso e sono in attesa
di giudizio. Per la verità non mi ero avvilito perché ero convinto
della presunzione di non colpevolezza, di una Giustizia serena e di un'amministrazione
carceraria responsabile, ma anche umana. Non potevo mai immaginare che cosa
mi aspettasse. Sono continuamente in lotta contro quelli che sono diventati
i miei nemici di sempre: gli agenti di custodia. Pochi giorni or sono mi è
stata negata la biancheria intima (mutande, calzini). È vero che sono
imputato di fatti gravi; ma ero fermamente convinto che la mia igiene personale
riguardasse quel minimo di cura del mio corpo che nulla avesse a che vedere
con la mia pericolosità sociale. Ho pensato, anche per illudermi, che
si trattasse di un episodio isolato. No! Mi ero sbagliato! Quando pochi giorni
or sono dovevo comparire in video-conferenza, pur avendo subito le perquisizioni
di rito, mi è stato detto che dovevo calarmi i pantaloni. Ho chiesto
spiegazione per una richiesta che trovavo insolita, ma gli agenti di custodia
mi hanno risposto che era un atto dovuto se avevo interesse a partecipare
all'udienza. Ho obbedito! Non potevo mai pensare che, una volta calati i pantaloni,
mi facessero abbassare anche le mutande, mentre un dito esplorava il mio ano
con una pratica che oscillava tra rito e compiacimento da parte dell'operatore.
Mi ribellai! Gridai! Fu tutto inutile! Questo esercizio, così umiliante,
fu praticato altre volte sul mio corpo. Da allora ho capito che sono un detenuto
ai confini della vita; sradicato dalla mia identità; un miserabile
oggetto; un fantasma; un io senza io. Quando ero libero mi dedicavo poco alla
mia famiglia. Nei confronti di mia moglie ero una maschera, e, con i miei
bambini ero assente; un padre che era tale solo per lo stato civile. Ma durante
quell'unico colloquio mensile che avevo ed ho con i miei familiari, sotto
la diretta sorveglianza degli agenti di custodia, e, con quel vetro divisorio,
che è una sorta di separazione fisica dagli affetti più cari,
io, definito un delinquente, un mostro, incominciai ad avvertire con me stesso
un disagio psichico. Poi con il ripetersi di quel colloquio a distanza, notai
un giorno che la mia bambina, di tenera età, dapprima tentò
di baciarmi comprimendo il suo musino contro il vetro divisorio, poi, si agitò
fino al punto di scoppiare in un pianto così isterico e convulso che
mia moglie ritenne di allontanarsi con la bambina. Sarò un delinquente,
ma per tutto il giorno mi sentii un abbozzo di uomo e di padre e scrissi a
mia moglie, chiedendole di non portare più la bambina al colloquio
perché soffriva. Mia moglie mi informò che la bambina era affetta
da crisi epilettiche, e, che si era chiusa in un mutismo cupo. Il medico le
aveva comunicato che la mia bambina poteva migliorare le sue condizioni di
salute in un colloquio diretto con me, e, cioè ricevendo carezze e
parole di conforto da me senza quel vetro divisorio che la scioccava e mandava
alla deriva il mio io. Ebbi vergogna di me! Avvertii, al di là dei
fatti che la Giustizia mi contestava, di essere un vile nei confronti della
mia bambina che, per come si era ridotta, poteva ormai essere sostenuta solo
dalle mie carezze, dal mio amore. Gi agenti di custodia, il Ministro, la Corte
Costituzionale, i medici, non vogliono sapere quanto siano importanti gli
affetti familiari e come siano tante volte capaci di trasformare un delinquente
in un osservante le leggi. Avevo scoperto, grazie a quel corpicino indifeso
della mia bambina, una ragione della vita che mi era completamente sfuggita
e che poteva cambiare in radice me stesso: la mia famiglia. Dissi a me stesso:
perché non posso cambiare? Perché non posso diventare un altro?
Perché un giorno non posso essere come voi? Volli cambiare condotta
in carcere. Cambiò il mio cervello. Incominciai ad osservare le norme
penitenziarie: diventai rispettoso, ossequioso, nei confronti dei miei superiori.
Chiesi di andare in chiesa; di lavorare; di istruirmi. E mentre avvertivo
dentro di me questo diritto alla metamorfosi, mi fu notificato altro decreto
ministeriale nel quale leggevo, con mio sommo stupore, che la buona condotta
carceraria non è segno di alcun ravvedimento. Anzi è il vero
alibi del camorrista per cui lungi dal vedere riconosciuto il mio cambiamento,
proprio in quanto osservante delle regole penitenziarie, ero ancora più
pericoloso. Allora compresi che il decreto ministeriale non solo è
lo stesso per tutti i detenuti, ma è il luogo di tutti i racconti possibili.
Compresi che nel carcere non entrano né la legge né il cuore.
Ma soprattutto divenni sempre più saggio e dissi a me stesso che a
nessuno stava a cuore la mia risocializzazione. Ho perduto il mio tempo. Nessuno
vuole che io cambi. Ma vi è di più! Il carcere è un territorio
nel quale il detenuto è abbandonato a se stesso; un luogo nel quale
si perfeziona la sua delinquenza. Scrissi al Ministro, a tutte le Autorità.
Mi ignorarono tutti. Pensai di rifare l'ordine delle mie esigenze e mi rivolsi
al mio avvocato al quale chiesi tutela per quanto avveniva in carcere e per
la mia difesa. Il mio avvocato, il più vanitoso di tutti, interpretava
le mie esigenze con un tono oracolare, con aggettivi rassicuranti e mi faceva
comprendere che la sua bravura si sarebbe misurata nella difesa. Quando comparvi
in video - conferenza per difendermi perché era incominciato il processo
a mio carico, bastarono poche udienze per comprendere che il mio avvocato
gestiva solo il suo vuoto nell'ignoranza completa degli atti. Fu per me un
raddoppiamento di solitudine. Mi innamorai del mio abisso nel quale mi facevano
precipitare l'angoscia del carcere duro e quella della difesa. Mi sentii braccato!
Pensai al ritornello perverso del decreto che mi accerchiava come un fantasma,
un affatturamento, e mi sussurrava all'orecchio: "Pentiti! Se tu ti penti,
cambia tutto". Sprofondai in una disperazione insulare perché
si trattava di pentirmi di ciò che non avevo commesso. In una notte
nella quale si confusero nella mia mente paure e speranze, le immagini della
vita e della morte, levai la mano su di me con numerose coltellate. Mi sono
risvegliato in infermeria dove i medici mi hanno riscontrato allucinazioni
emicraniche con perdite di memoria. Ora con la passione dell'ignoranza potrò
sopportare meglio il mio inferno.