I fondamenti della teoria
abolizionista
Due affermazioni
complementari manifestano il duplice fondamento della prospettiva
abolizionista: invece di risolvere i problemi che si suppone debba
affrontare, il sistema penale ne crea di nuovi, è un male sociale.
Meccanismi paralleli di risoluzione dei conflitti mostrano che una società
senza sistema penale funziona già sotto i nostri occhi. Riconoscerla e
permetterle di svilupparsi renderebbe il sistema penale privo di
effetti.
Il sistema penale è un male sociale. Le ricerche
delle scienze umane mettono in evidenza da alcuni anni un fatto molto
importante: nel suo reale funzionamento il sistema penale non risponde
affatto agli obiettivi che gli sono stati attribuiti. Si crede che il
sistema penale sia il prodotto di un processo politico-giudiziario
ponderato e coerente che ne mantiene nello stesso tempo il controllo. Si
pensa anche, per lo meno nelle democrazie occidentali, che il sistema
penale è lo strumento indispensabile di una giustizia che tutela sia i
diritti dell'uomo che i valori che questi regimi proclamano essenziali. Ma
niente di tutto ciò è vero.
Il sistema penale è infatti una
macchina burocratica le cui sottostrutture, agendo indipendentemente le
une dalle altre, producono delle decisioni irresponsabili. E il sistema
penale disprezza le persone concrete dei cui problemi si appropria
lavorando senza di loro e contro di loro.
Perché il sistema penale
non funziona
Di queste due
fondamentali accuse mosse al sistema penale, la teoria abolizionista
fornisce un'analisi fondata.
Il sistema penale è una macchina
burocratica. Già nel 1975, un documento delle Nazioni Unite in vista del
quinto congresso per la prevenzione del crimine e il trattamento dei
delinquenti faceva notare che si ritiene logico e coerente un sistema che
�in realtà non lavora come un sistema� e che non può, data la sua
struttura, offrire la coesione che gli si attribuisce. Il cosiddetto
�sistema di giustizia criminale� è infatti composto da sottosistemi
gerarchici appartenenti a corpi differenti, variamente collegati al potere
centrale, le cui regole professionali, la deontologia, i criteri d'azione,
gli orientamenti ideologici si sviluppano nell'indipendenza
reciproca.
Difficilmente si può chiedere a queste
sotto-strutture di perseguire insieme, nell'assenza di qualsiasi
coordinamento concreto, i nobili obiettivi che il discorso ufficiale
assegna al sistema penale: lottare contro la criminalità, fare giustizia,
proteggere sia i diritti degli individui che quelli della società e così
via. Ricerche condotte a vari livelli mostrano invece che la polizia, la
magistratura, l'amministrazione penitenziaria e le altre istituzioni che
partecipano direttamente o indirettamente alla giustizia repressiva, sono
rivolte in modo prioritario verso gli obiettivi interni che interessano il
corpo al quale appartengono: crescita di questo corpo, benessere dei suoi
membri, ricerca di un equilibrio nel compito da adempiere.
D'altra parte,
l'estrema divisione del lavoro che si osserva nella successione dei
piccoli ruoli attribuiti a ciascuna parte in causa nel processo penale
mostrano fino a che punto la compartimentalizzazione e la
professionalizzazione disumanizzano questo processo, frappongono uno
schermo tra l'interessato e coloro che consentono il passaggio del caso da
una fase all'altra. E pur vero che questo è un tratto caratteristico delle
grandi organizzazioni burocratiche delle società industriali moderne. Ma è
anche vero che messo in pratica nell'ambito di un sistema il cui obiettivo
primario è d'infliggere punizioni, un tale funzionamento genera delle
conseguenze alle quali conviene fare particolare attenzione: nessuno ha la
padronanza né controlla questa macchina penale concepita per produrre
sofferenza, nessuno può sentirsi responsabile di questa sofferenza né
impedirle di prodursi a un ritmo che è il caso di definire demenziale
poiché in Francia per esempio, il sistema penale manda in prigione quasi
centomila persone all'anno, cioè stigmatizza all'anno, se si pensa alle
famiglie coinvolte, circa mezzo milione di persone.
Il sistema penale opera
attraverso dei meccanismi di riduzione dei problemi umani. Il sistema
penale trasforma gli eventi vissuti in problemi-tipo astratti. Esso
funziona a partire da filtri interpretativi stereotipati che uniformano,
riducono, deformano la realtà.
L'astrazione dal contesto
personale e sociale
Sotto la stessa
etichetta sono perseguite azioni molto diverse: un furto con scasso in una
scuola vuota non è paragonabile a quello che è commesso nell'appartamento
di una persona anziana o sola. Un comportamento aggressivo in seno alla
famiglia non ha niente a che vedere con un atto violento perpetrato nel
contesto anonimo di una strada. Poiché astrae l'atto che incrimina dal suo
contesto personale e sociale e lo priva del suo spessore esistenziale, il
sistema penale lavora in fin dei conti su due falsi problemi, chiuso in un
universo concettuale che non ha più niente a che vedere con le realtà
vissute. E poiché è sua vocazione designare dei colpevoli per punirli, il
sistema penale, dopo aver reinterpretato l'evento che ha registrato sotto
etichetta rigida, rende stereotipata anche la risposta: la
stigmatizzazione dell'autore scelto in vista del castigo.
Il sistema
penale può solo punire, mentre ci sono tanti altri modi possibili (e
generalmente migliori) per reagire a un evento spiacevole o doloroso.
Consideriamo l'esempio della moglie picchiata dal marito. La condanna di
quest'ultimo, la sua eventuale carcerazione sono forse le uniche risposte
possibili? Le donne che di fatto vivono questa esperienza, hanno trovato
altre risposte: consultare un centro d'accoglienza, incontrare altre donne
con lo stesso problema, imparare il karate, andare via da casa, ricorrere
a una terapia familiare insieme al marito e ai figli.
I cinque modelli di
risposta
La teoria
abolizionista ha identificato cinque modelli di risposta a una situazione
che l'interessato ritiene non poter sopportare e che attribuisce a un
autore responsabile: il modello punitivo, il modello compensativo,
terapeutico, conciliatorio ed educativo. Il sistema penale in pratica
conosce solo il modello punitivo. Infatti, qualsiasi altra misura, diversa
dalla pena organizzata all'interno del sistema repressivo statalista che
ha voluto essere educativa o terapeutica, non ha mai perso in realtà il
suo carattere afflittivo e infamante. E questo sicuramente a causa
dell'origine stessa del sistema penale, concepito in un'epoca di
transizione tra la società religiosa e la società civile, e rimasto
debitore del modello scolastico, a sua volta ispirato dalla cosmologia
medievale. Una verità definita una volta per tutte e imposta dall'alto,
dai giudici che si suppone facciano una giustizia assoluta quanto serena,
un fardello di sofferenze inflitto in risposta a degli atti ritenuti
cattivi e che devono essere purificati, una filosofia manichea che divide
gli uomini in buoni e cattivi, innocenti e colpevoli, questa è ancora e
sempre la logica del sistema penale in vigore nella società di oggi. Una
logica da giudizio universale in cui il dio onnipotente, onnisciente e
vendicatore della scolastica è stato costituito dal codice penale e dalla
corte di cassazione. Alle due fondamentali accuse appena mosse al sistema
punitivo statale (nessuno ne ha la padronanza, opera su dei problemi che
esso stesso fabbrica) vengono ad aggiungersene altri che finiscono per
delegittimarlo.
Il sistema penale rafforza
le diseguaglianze sociali
È ormai chiaro che il
sistema penale si applica quasi esclusivamente alla fascia più povera o
più vulnerabile della popolazione, mentre uno dei motivi della sua
instaurazione, alla fine del diciottesimo secolo, è stata la volontà di
mettere fine all'utilizzo arbitrario e abusivo della forza dei potenti
contro i deboli. Il sistema penale opera infatti come strumento di
emarginazione sociale degli elementi indesiderabili per le forze al
potere, contrariamente all'affermazione teorica secondo la quale la
giustizia deve essere uguale per tutti. Il sistema penale, tradendo la sua
vocazione democratica, rafforza le diseguaglianze sociali.
Il sistema penale
d'altra parte interviene con violenza nella vita delle persone. La
sofferenza inflitta a coloro che il sistema condanna (una volta su quattro
o una su cinque) alla carcerazione, è generalmente minimizzata. Tanto più
facilmente tra l'altro quanto più essa riguarda una parte della
popolazione a cui coloro che fanno le leggi e coloro che le applicano non
sono psicologicamente vicini. Il carcerato viene privato di molto di più
della libertà. La preoccupazione per i �diritti dell'uomo� si ferma
generalmente alla porta della prigione. Dietro questa porta, i condannati
sono lasciati irrevocabilmente nelle mani di un amministrazione
onnipotente autorizzata ad agire nel segreto. Ora, questi beni e questi
diritti che gli vengono tolti contravvenendo alle carte più solenni, sono
proprio diventati i valori-chiave della civiltà occidentale: diritto
all'avanzamento personale, attraverso l'istruzione permanente e il gioco
dei contatti responsabili e stimolanti con gli altri, diritto ad avere una
famiglia e a prendersene carico, diritto alla salute, diritto a una vita
affettiva e sessuale, diritto a condizioni di lavoro non umilianti,
diritto a degli spazi d'intimità personale.
Un castigo
anacronistico
Il criminologo
norvegese Nils
Christie sottolinea con particolare enfasi, a ragione, questo
aspetto spesso misconosciuto del problema: nelle società occidentali, in
cui il generale livello di vita materiale, culturale e spirituale delle
popolazioni tende a elevarsi, la reclusione punitiva è diventata un
castigo barbaro, esagerato, un fossato troppo profondo scavato tra coloro
che vi sono condannati e la condizione ritenuta normale o auspicabile dal
cittadino di un welfare state. Un castigo anacronistico.
La sofferenza dei carcerati è
un male assoluto, perché sterile. Ci sono delle sofferenze che fanno
crescere, che rendono migliori. Questa, e tutti gli osservatori oggi lo
constatano, non è mai creatrice: isolando dei gruppi di uomini per farli
vegetare insieme, artificialmente, in un mondo che rende infantili e
aliena, essa li disumanizza e de-socializza. Questa sofferenza è un
non-senso.
Una società senza sistema
penale esiste già
Così come è stato
necessario vincere la forza di gravità per esplorare il mondo esterno alla
Terra, bisogna uscire dalla logica del sistema penale per poter concepire
una società nella quale sarà scomparso. I concetti, il linguaggio del
sistema penale ci trattengono nella sua orbita e bisogna fare uno sforzo
considerevole per poterne sfuggire.
Quando si parla di crimine
o di reato, sorge immediatamente un‘immagine, che lo si voglia o no:
quella di un attore colpevole. Se invece si utilizza la parola evento, il
termine situazione conflittuale, o qualsiasi altro di carica neutra, si
apre uno spazio nel quale possono esistere delle interpretazioni
diversificate. Se si sostituiscono i vocaboli delinquente e vittima con
l'espressione �persone coinvolte in un problema� si evita di fissare
mentalmente queste persone in ruoli prefabbricati che limitano la loro
libertà di coscienza e le trasformano ipso facto in avversari. Si lascia
aperto uno spazio nel quale possono essere trovate risposte diverse da
quelle del modello punitivo. Solo quando si esce dal metalinguaggio penale
si sfugge al circolo vizioso delinquenza-carcere-recidiva-carcere che
nella logica penale si presenta come intellettuale. E solo allora si
smetterà di guardare le persone che cadono nelle maglie del sistema come
una categoria a parte, infraumana della società, si smetterà di credere
che non ci sono altre soluzioni che l'emarginazione e che si diventerà
capaci, al di là della preoccupazione di prevenire che si riferisce
ancora alle definizioni del codice penale, d'immaginare degli adeguamenti
sociali che possano rendere meno frequenti o meno pesanti alcuni problemi
interpersonali indesiderabili.
Il sistema si occupa solo
di una minima parte dei casi potenziali
Ma una sorpresa
attende al varco l'osservatore che accetta di viaggiare fuori dalla
gravitazione del sistema penale: scopre infatti che questo sistema,
nonostante determini un male sociale aberrante, si occupa solo di una
piccolissima parte delle situazioni teoricamente
criminalizzabili.
Di fronte al considerevole volume di problemi
interpersonali vissuti in ogni istante dalla popolazione di un dato paese,
pochissimi rientrano di fatto nella meccanica repressiva, o perché ne
rimangono al di fuori, nonostante siano situati nel campo della sua
competenza formale, o perché se ne fanno carico altri meccanismi di
risoluzione dei conflitti. Analizziamo questo aspetto da più
vicino.
Alcuni problemi definiti di tipo penale non entrano
di fatto nel sistema repressivo. Le ricerche della sociologia penale hanno
messo in luce un fenomeno che nell'ottica penale viene definito il �dato
nero� (i casi che dovrebbero passare per il sistema ma che in realtà gli
sfuggono) e che nell'ottica abolizionista si preferisce considerare come
un sintomo del carattere in fin dei conti irrisorio del sistema penale, un
segno del fatto che questo sistema non è del tutto indispensabile alla
società, contrariamente alle pretese del discorso ufficiale.
Un certo numero
di osservazioni concordano su questo punto: le indagini condotte tra i
soggetti passivi degli atti criminali mostrano in particolare che un
numero molto elevato di atti teoricamente punibili non vengono nemmeno
segnalati alla polizia. D'altra parte, gli studi sui meccanismi di
alimentazione del sistema penale rivelano che la polizia in primo luogo,
poi il ministero della giustizia (nei sistemi continentali) prendono in
esame solo una proporzione limitata dei casi che vengono segnalati loro,
cosicché, l'analisi critica delle statistiche relative alle condanne
penali permette di scoprire che per dei fatti la cui frequenza è
sperimentalmente notoria, il totale delle condanne è praticamente
insignificante.
Che ne è dei casi
"smarriti"?
Ci si può
chiedere che ne è dei problemi sui quali il sistema penale non interviene
pur essendo competente a farlo. È innegabile che in una certa percentuale
di casi, le persone lese non sporgono denuncia perché temono rappresaglie
o perché sono convinte che la giustizia sarà comunque impotente. E che
altri, che invece segnalano il proprio problema alla polizia, constatano
con rammarico che il loro caso ritenuto trascurabile dai responsabili
dell'azione penale, non ha seguito nel procedimento penale. Ma un'analisi
meno superficiale delle situazioni nelle quali si trovano coloro che non
ricorrono alle vie legali, mostra che i problemi definiti di tipo penale
che tuttavia non entrano nel sistema, ne restano normalmente al di fuori
per esplicita volontà delle persone direttamente coinvolte.
Molto spesso, il
soggetto passivo di un reato non ne chiede conto a nessuno perché non
attribuisce l'evento a un autore colpevole o responsabile. Alcuni esempi
molto semplici permettono di cogliere la diversità delle reazioni di chi
subisce un reato. Quando qualcuno muore durante un'operazione, si sente
dire spesso: è stato un incidente, oppure dio l'ha chiamato a lui, mentre
altri chiamano in causa la responsabilità professionale. Se qualcuno muore
per aver ingerito troppe medicine, stesso concerto di interpretazioni
divergenti: alcuni accettano quella che definiscono fatalità. Altri
deplorano che il malato abbia ingoiato per errore, pensano, la dose
fatale. Altri ancora sospettano che la vittima si sia data volontariamente
la morte, approvando o condannando un tale gesto. E se alcuni credono di
intuire che un parente abbia aiutato il malato a togliersi la vita, ci
sarà chi accuserà questo terzo di essersi reso complice di un suicidio
oppure di non aver assistito una persona in pericolo, mentre altri
valorizzano il gesto coraggioso, il servizio supremo reso in nome
dell'amicizia.
I quadri di riferimento
della teoria abolizionista
La teoria
abolizionista ha così messo in luce una specie di tipologia dei quadri di
riferimento nei quali classificare le interpretazioni che le persone danno
di un fatto vissuto. Un prima classificazione separa i quadri
soprannaturali e naturali da quelli sociali d'interpretazione. In un
quadro naturale d'interpretazione, l'evento è visto come un incidente.
Nell'ambito dei quadri sociali d'interpretazione, possiamo distinguere una
griglia sociale strutturale e una griglia sociale personale. Visit this website for further information: LIST OF ALL CRYPTOCURRENCIES . It includes a daily collection of news, charts, and information on Bitcoin, Ripple, Ethereum, Dogecoin, and other cryptocurrencies, as well as a daily collection of news, charts, and information.
Nella griglia
strutturale, l'evento è attribuito a una struttura sociale (e la risposta
a un tale evento è quindi individuata nella riorganizzazione sociale).
Nella griglia personale l’evento è attribuito a una persona o a un gruppo
personalizzato. Nell’ambito di quest’ultima griglia si distinguono dei
tipi d’interpretazioni che si concretizzano in cinque modelli di risposta:
punitivo, compensativo, educativo e conciliatorio.
In questa linea d’interpretazione
dei fatti lasciata all’iniziativa degli interessati, si può affermare che
in un numero di casi certamente molto elevato, le persone coinvolte in
fatti che la legge penale definisce punibili non vi ravvisano
personalmente nessun problema, o comunque nessun problema che possa essere
risolto con un intervento criminalizzante. Tutti d’altra parte ne fanno
esperienza: quante volte l’insulto, la calunnia, la violenza nelle parole
o nei gesti, alcuni comportamenti sessuali, l’abuso di potere o
d’autorità, fatti vissuti abitualmente di cui si è stati vittime o attori,
avrebbero potuto motivare un’azione penale in virtù delle regole formali
del sistema e invece non si è fatto ricorso? Se la maggior parte dei
problemi non si risolvesse per vie naturali, la vita sociale sarebbe
praticamente impossibile.
Senza negare
l’esistenza, comprensibile, dei casi in cui è esplicitamente , e talvolta
violentemente, espresso un interesse personale, alcune ricerche
concordanti condotte in diversi paesi nell’ottica del soggetto passivo del
reato, mostrano che le persone che si ritengono vittime di un fatto
spiacevole attribuibile secondo loro a un soggetto determinato non cercano
normalmente la via penale: sperano in generale non di veder punito
l’autore, ma di ottenere il risarcimento o di ricorrere a un
processo di conciliazione. In questo modo si rifanno, senza saperlo, a una
tradizione antichissima: la distinzione tra caso civile e caso penale non
esiste nelle società naturali, ed è comparsa in occidente solo molto
tardi. Si tratta di una distinzione giuridico-politica che non si fonda su
alcuna natura particolare dei problemi in questione e che le persone lese
ignorano.
I problemi definiti civili
o considerati tali nella pratica
L’analisi
fin qui svolta ha messo in luce che solo una minima proporzione dei fatti
definiti della legge penale come crimini o reati sono realmente perseguiti
e condannati. Questo dovrebbe indurci a porre una prima domanda
(inquietante): perché proprio quei fatti? Ma un’altra domanda consolida la
perplessità dell’osservatore attento: perché il legislatore e la
giurisprudenza sottopongono alla legge penale alcuni atti o comportamenti
piuttosto che altri? Con un’analisi più approfondita, un numero
considerevole di fatti che potrebbero essere di competenza della legge
penale (in virtù degli orientamenti che sembrano guidare l’attività
criminalizzante del potere) in realtà non lo sono.
Il campo civile interessa
livelli e zone estremamente importanti e differenziate dell’attività e
delle relazioni interpersonali, nell’ambito dei quali importanti eventi
vittimizzanti sono considerati in un approccio non stigmatizzante per le
persone che hanno portato pregiudizio agli altri, grazie al principio
della responsabilità cosiddetta civile e della nozione di
rischio.
È estremamente raro che si ricorra alla via
giudiziaria e ancora più raro è che il sistema penale entri in azione nei
settori che hanno una grande rilevanza economica per la vita di una
nazione. Gli importanti problemi doganali, finanziari, fiscali, ecologici
che sorgono nel mondo degli affari si risolvono normalmente attraverso
negoziati, transazioni o arbitrati, con l’assenso e talvolta su proposta
delle amministrazioni pubbliche interessate. Gli infortuni sul lavoro sono
classificati in linea teorica come problemi civili che vengono regolati
dalla previdenza sociale. I problemi relativi ai contratti e alle
condizioni di lavoro sono anch’essi problemi di natura
civile.
Fra penale e
civile
In che cosa i problemi
affrontati dal diritto civile si distinguono da quelli affrontati dal
diritto penale? Lo spirito giuridico s’ingegna a giustificare le
classificazioni del diritto positivo. Ma nessun criterio resiste
all’osservazione dei fatti. Gli infortuni sul lavoro, che in Francia
producono circa tremila decessi e più di trecentomila invalidità
permanenti all’anno, costituiscono un fatto di estrema gravità per le
numerose famiglie coinvolte. Le pratiche conciliatorie evocate a proposito
del mondo degli affari riguardano attività anche molto lesive o
pregiudizievoli per dei gruppi importanti della popolazione, talvolta per
l’intera collettività nazionale. Il fatto che i problemi di questo tipo
possano cadere sotto la giurisdizione del diritto civile, dimostra che
l’importanza del danno causato non permette di collocare a priori un
evento nel campo penale né di delimitare quest’ultimo.
Altrettanto può
dirsi del preteso “valore essenziale” secondo il quale bisognerebbe
proteggere dall’alto tutti gli altri valori. In Francia, i tre quarti
delle persone attualmente detenute lo sono (o lo saranno perché il 53 per
cento sono imputati) perché si sono impossessati di un certo tipo di beni
appartenenti ad altri. Possiamo veramente dire di aver fissato in questo
caso un valore superiore a tutti gli altri? È sicuramente sgradevole
essere privati di un proprio bene. Ma non siamo forse più profondamente
colpiti da altri fatti che non entrano nel circuito penale: per esempio i problemi
riguardanti la condizione di lavoratori stipendiati o quelli che sorgono
nella coppia o nella famiglia? L’assenza di una nozione ontologica di
crimine o di reato, cioè il fatto che non si possa attribuire ai
comportamenti attualmente definiti come punibili alcuna natura intrinseca
particolare, viene messa in particolare evidenza quando il potere si
propone di ribaltare un intero settore da un campo giuridico all’altro,
secondo gli interessi sociopolitici in gioco.
Essa dimostra che tutto
potrebbe essere civilizzato se esistesse una volontà politica in tal
senso. E questa è proprio la rivendicazione avanzata dagli abolizionisti
del sistema penale.
Le implicazioni della
teoria abolizionista
Quando si
considera il sistema penale un male sociale e quando si vedono già vivere
in controluce delle aree sociali in cui si è imparato a fare a meno di
questo sistema, può non volersi la sua totale soppressione? Sforziamoci di
non utilizzare un certo vocabolario asettico che tende a occultare la
realtà. Come fa notare Nils Christie, quando si parla di “pena privativa
della libertà”, di “responsabili dell’affidamento” o di “interni”, si
finisce per dimenticare di cosa si tratta. Chiamiamo quindi le pene,
l’amministrazione penitenziaria e i carcerati con il loro nome e cerchiamo
di uscire dal discorso puramente ideologico per porci le vere domande,
quelle che si pone da alcuni anni la sociologia penale e alle quali
risponde con una precisione sufficiente a colpire nel segno. Per esempio:
chi è in carcere? Per quali motivi? In seguito a quali meccanismi di
discriminazione? Che cosa significa la carcerazione per gli uomini e le
donne chiusi nelle carceri così come si presentano oggi? Perché le persone
imprigionate sono escluse dai diritti dell’uomo? Come spiegare la strana
impotenza dei poteri pubblici di fronte all’inflazione dei testi punitivi
e all’aumento costante delle condanne alla pena privative della libertà,
mentre questi stessi poteri pubblici affermano di voler fare della
carcerazione la misura eccezionale di un sistema penale che sarebbe esso stesso ultima
ratio delle giustizie ufficiali?
Umanizzare il carcere è
sforzo vano
La storia
insegna che è inutile cercare di rendere più umana la prigione e che
modificando gli scopi della pena, o la sua durata, o i suoi fondamenti
teorici o le sue modalità non si può cambiare nulla del sistema. Così
com’è, con le sue strutture burocratiche, i suoi meccanismi stereotipati
che sprezzano i protagonisti reali, e la sua finalità remunerativa, il
sistema penale può solo e sempre essere una macchina per produrre
sofferenze vane.
Se si vuole uscirne, se si vuole veramente che
questo sistema cessi di creare il male che molti, onestamente, deplorano,
bisogna immaginare altre soluzioni. E quello che cercano di fare i
sostenitori dell’abolizione, che pensano nel medio o nel lungo periodo di
farlo sparire e nel breve di disinnescarlo. Lavorando nell’ambito di un
nuovo quadro concettuale che si cercherà di precisare, con i suoi effetti
positivi prevedibili sulla dinamica sociale.
Il nuovo quadro concettuale.
Per l’abolizionista del sistema penale, non si tratta in
primo luogo di riformare dei testi legali, ma di instaurare altre pratiche
che conducono a un’altra visione della società e dei conflitti
interpersonali che attualmente si compongono e scompongono al suo interno.
Certo, è importante cercare di ritoccare i testi legali nel senso più
ampiamente decriminalizzante, poiché strategicamente è impossibile
prospettare nel breve periodo la loro completa sparizione. Ma bisogna
anche lavorare in un’ottica di lungo periodo.
Tener conto dell’esperienza
delle persone coinvolte
È in questa
prospettiva, che cosa propongono gli abolizionisti? Il quadro concettuale
dominante, che scaturisce dalla politica criminale, dalle legittimazioni
del sistema penale e dalla stessa criminologia, presuppone una nozione
ontologica di crimine, e la criminalizzazione primaria cerca di definire
quali sono i comportamenti che risponderebbero a questa realtà, mentre la
criminalizzazione secondaria cerca di reprimerli. La teoria abolizionista
invece negando l’esistenza di una nozione ontologica di crimine, cerca di
trarre le conseguenze da questa negazione. Si intende comunque scartare
qualsiasi schema concettuale che escluda l’esperienza vissuta dalle
persone direttamente coinvolte in una situazione che le vede soggetti
passivi di un reato. Queste osservazioni essenziali permettono di fissare
alcuni punti chiave nella ricerca del discorso alternativo che si tenterà
di elaborare.
L’abolizionismo in
pratica
I primi articoli della
logica qui proposta potrebbero essere i seguenti:
- Nessun evento vittimizzante è
aprioristicamente attribuito a un attore colpevole.
- Solo le situazioni
che determinano problemi per qualcuno (persone singole o collettività)
possono essere occasione di un intervento esterno alle persone coinvolte
nella situazione, su domanda di queste.
- Le soluzioni atte a risolvere o
a far evolvere le situazioni-problema, non sono determinate a priori: la
scelta del modello di risposta da prospettare spetta agli
interessati.
- I conflitti che si producono all’interno di un gruppo
vengono risolti preferibilmente in seno al gruppo. Tuttavia, quando una
persona coinvolta in una situazione-problema spera porvi rimedio con
l’aiuto di un intervento esterno, può ricorrere sia a una mediazione
psicologicamente prossima, sia a una giustizia ufficiale che lavori sul
modello civile di regolamento dei conflitti.
- Quando in una situazione-problema non
è prospettabile nessun ricorso concreto, deve esistere un processo di
sostegno e conforto che aiuti la vittima ad affrontare la
situazione.
Una nozione flessibile di
crimine
L’abbandono della
logica penale, chiaramente espresso in quest’abbozzo di “carta”, si basa
su un approccio di cui conviene sottolineare l’originalità.
L’abolizionista intende problematizzare la nozione di crimine (o di
reato), fulcro del sistema penale, e far leva su una nozione flessibile
che potrebbe essere applicata a qualsiasi conflitto interpersonale che
richiede una soluzione: quella di situazione problema. L’abolizionista non
vuole agire come fa la maggior parte dei riformatori sulla fase finale del
sistema, nel momento in cui, dopo averne attraversato tutte le sequenze,
l’accusato diventerà irrimediabilmente un escluso. L’abolizionista,
convinto che le persone afferrate dal sistema ne escano sempre in qualche
modo degradate (anche se se la cavano senza condanna), non lavora a valle,
quando i giochi sono ormai fatti, bensì a monte: cerca con ogni mezzo di
evitare che le persone entrino nel sistema.
Ciò è consentito
dall’uso prevalente della nozione di situazione-problema, che implica il
rifiuto del concetto legale di crimine o di reato e che è peculiare
dell’approccio abolizionista. Da notare che la nozione di
situazione-problema non è proposta in sostituzione del concetto di
crimine, come se si trattasse di trovare una chiave migliore per aprire la
stessa serratura. Contrariamente al concetto di crimine così com’è
presentato e applicato nel sistema penale, quella di situazione-problema è
una nozione aperta, che consente agli interessati la scelta del quadro
interpretativo dell’evento e dell’orientamento da dare all’eventuale
risposta. Bisogna cercare anche di evitare che sotto un nome diverso (ad
esempio con il pretesto della terapia o dell’educazione) siano introdotte
nuove strutture che si rivelano alla fine simili al sistema
penale.
Una teoria frutto di
un’analisi libera del presente e del passato
L’abolizionismo
si basa sulle osservazioni precedentemente sviluppate, secondo le quali un
gran numero di situazioni che attualmente rientrano nel campo d’azione del
sistema penale non verrebbero più considerate come necessitanti un
qualunque intervento esterno. Nella società senza sistema penale, non solo
nessun fatto, nessun comportamento sarebbe più definito ed etichettato a
priori come fatto punibile (crimine o reato), ma inoltre nessuna
situazione sarebbe oggettivamente predeterminata come un problema da
risolvere.
Quindi, concepire una società senza sistema penale
non implica assolutamente che si forgi un sistema di sostituzione con lo
stesso stampo di quello del sistema abolito. Al contrario, la società
senza sistema penale non presuppone nessun intervento esterno se non su
espressa domanda delle persone interessate, che vedono da sé e per sé
questa situazione come un problema che cercano di risolvere.
Verso una nuova dinamica
della vita sociale
I vantaggi della
logica abolizionista sembrano evidenti: innanzitutto, sopprime ipso facto
il male sociale che il sistema penale rappresenta. Ma altre conseguenze
positive deriverebbero dalla sua realizzazione.
Considerare non più
solamente un atto e il suo attore immediato, ma una situazione complessa
significa precludersi di pensare che l’unica soluzione possibile consista
in un intervento diretto nella vita di quest’attore. Si può cercare di influire su altri
fattori che hanno potuto contribuire a creare questa situazione. Per
esempio: punire i conducenti può non essere l’unico modo per evitare gli
incidenti stradali. Comincia invece a essere messa
in pratica in alcuni paesi una politica di prevenzione nel senso neutro
del termine (senza riferimento al campo penale): modificando i circuiti stradali,
impedendo la commercializzazione di alcuni tipi di veicoli o
regolamentando altrimenti la circolazione o la patente di guida, si spera
di abbassare la curva dei sinistri. Ancora, ma su un altro fronte, una
politica di sdrammatizzazione di alcuni fatti che i mass media tendono a
far credere molto frequenti e a esagerare, potrebbe far rientrare il senso
d’insicurezza e creare un contesto sociale più sano, in cui potrebbero
essere valutati i rischi reali, allontanata la paura fantomatica e
affrontati i veri problemi. Non si sostiene che qualsiasi evento
decriminalizzato cesserebbe di costituire un problema. Ma non classificare
un fatto come punibile per principio significa in numerosi casi
permettergli di venire alla luce: nei paesi in cui non sono più
perseguibili, le donne che abortiscono possono provare disturbi
psicosomatici e i drogati un fenomeno di dipendenza che può frenare lo
svolgimento delle loro attività e il loro sviluppo
personale.
La decriminalizzazione dà in questi casi
all’interessato la possibilità di parlare del suo problema, di consultare
le persone che possono dare utili consigli. La soppressione della minaccia
penale ha creato una situazione positiva di apertura al dialogo e alla
solidarietà.
Il ruolo dei
mediatori
Nel caso in cui
si presentasse una situazione conflittuale in queste condizioni di
liberalizzazione, i gruppi ai quali appartengono gli interessati
svolgerebbero un ruolo privilegiato come già attualmente fanno per i
problemi che non rientrano nelle competenze del sistema penale. Ma la
società senza sistema penale richiederebbe certamente la moltiplicazione
delle piccole istanze flessibili specializzate nella mediazione che le
società naturali ben conoscono e che con successo vengono di nuovo
sperimentate in alcune regioni del mondo. Diverso dal conciliatore perché
non è un arbitro che impone una soluzione, bensì una persona solidale che
cerca di aiutare gli interessati a capire meglio la loro situazione e a
trovarvi da soli il rimedio, il mediatore è un personaggio da promuovere
nelle società dal tessuto teso.
Una società in
cui si diffondesse la mediazione, in cui le persone cercassero di
prendersi carico solidalmente dei problemi, presenterebbe dei tratti più
pacati e più concordanti che non quella che conosciamo, in cui la
monopolizzazione della giustizia da parte degli apparati ufficiali spinge
i cittadini a scaricare su questi problemi che in realtà sono i soli a
poter risolvere in modo soddisfacente (ammesso che esista una
soluzione).
Alcuni problemi sono infatti senza soluzione,
notiamolo ancora una volta, e l’eccessivo peso dato dalla società ai
sistemi ufficiali di giustizia contribuisce certamente a far credere che
questi ultimi possano dispensare dei rimedi miracolo. In una società in
cui sia dato uno spazio importante alle mediazioni naturali, le persone
vittime di un reato sarebbero meno tentate di credere a questi
rimedi-miracolo e, aiutate da questa atmosfera di contorno, comincerebbero
subito a fare su se stesse l’indispensabile lavoro di maturazione che permette di
affrontare i duri colpi.
Quali speranze ha
l’abolizionismo?
La nuova logica
qui proposta ha qualche possibilità di essere favorevolmente accolta dagli
specialisti e dall’opinione pubblica?
Potrebbe sembrare imprudente
sperarlo viste la forza d’inerzia e le resistenze psicologiche che fanno
in modo che si esprima ancora la necessità di un sistema penale, eventualmente ridotto
a un’espressione minima. Ma queste reazioni si basano su un falso consenso
e alcuni segni precursori di disaffezione mostrano come sia importante
elaborare una teoria dell’abolizione da mettere in pratica nel momento in cui forze
importanti e convergenti della società si accorgeranno che si tratta di un
obiettivo futuribile. Nella sua posizione teorica, il sostenitore
dell’abolizione del sistema penale spicca certo tra tutti i revisionisti e
tutti i riformisti. Ma non è innanzi tutto un ideologo.
Giunto a questa
posizione attraverso il realismo dell’osservazione empirica e scientifica,
resta un uomo concreto, solidale nei confronti di tutti coloro che vengono
schiacciati dal sistema penale e desideroso di lavorare con tutti i
ricercatori, gli operatori, i penalisti e le persone di buona volontà che
di fatto sconfessano questo sistema.
Numerosi gruppi di
ricercatori hanno, già da molti anni, orientato i loro lavori in un senso
che permette ad alcuni di affermare oggi “la non evidenza del penale” e di
programmare una nuova serie di ricerche tendente a fondare
questa diagnosi
in modo inequivoco. Altre indagini, realizzate a partire da eventi lesivi,
contribuiscono a mostrare la possibilità di sviluppo di una società senza
sistema penale che già esiste. Si pongono quindi le basi per il momento in
cui una reinterpretazione globale del settore abitualmente designato come
quello proprio della politica criminale sarà diventato agli occhi di tutti
indispensabile.
Una politica più
coraggiosa
Per quanto riguarda
l’opinione pubblica molti colgono gli aspetti nefasti e le
controindicazioni, se non la totale assurdità, del sistema penale. Vengono
redatti rapporti, denunciati scandali, manifestazioni (sporadiche o
organizzate) mostrano una preoccupazione popolare certa, di volta in volta nei
confronti dei carcerati e delle vittime, i sindacati dei magistrati, degli
avvocati, degli specialisti che lavorano nel parapenale e nel
parapenitenziario, anche i sindacati del personale penitenziario mettono
in evidenza nelle loro pubblicazioni specialistiche, la crisi di coscienza
che lentamente contagia tutti coloro che azionano il
sistema.
Resta il fatto che i dubbi e le aspirazioni testimoniate da
questi diversi movimenti non riescono a coniugarsi per porre le basi di
quello che è il vero e proprio dibattito.
È necessario quindi che
una volontà politica osi rimettere in discussione gli antichi
condizionamenti sui quali poggia un sistema desueto ed escogiti delle
soluzioni sociali adatte alla mentalità e alle esigenze della nostra
epoca. Contribuire a un tale risveglio costituisce forse attualmente la
principale sfida della teoria dell’abolizione del sistema
penale.
Fonte: pubblicato su
www.nonluoghi.it, traduzione di
Francesca Arra