Per concludere non posso non citare Jonathan Swift (I viaggi di
Gulliver) verso il quale ho un perenne debito di intelligenza e di
piacere.
Questo opuscolo è stato scritto e diffuso nel giugno del 2000, quando organizzammo
a Torino una giornata abolizionista per ricordare il rogo avvenuto nella sezione
femminile del carcere "le Vallette" di Torino 11 anni prima. In questo
incendio morirono 11 donne, 9 detenute e due vigilatrici. Naturalmente non furono
individuati responsabili, quando invece la responsabilità dei dirigenti del
carcere era palese ed eclatante. Ma non ci interessava mettere sotto accusa
pochi servi che amministravano il carcere, ma il carcere stesso nella sua globalità.
Due anni prima c'era stata, sempre a Torino, la vicenda degli "squatters",
inesistente e montata dalla stampa e dagli apparati poliziesco/giudiziari, che
portò alla morte in carcere di Edo, Sole (agli arresti domiciliari in comunità),
Enrico (suicidatosi anch'egli poco dopo nella stessa comunità dove era detenuta
Sole) e alla lunga carcerazione di Silvano. Di carcere ci si ammala e si muore,
qui in Italia come nel resto d'Europa, negli Stati Uniti, in Turchia, in Sudamerica,
in Africa e in oriente, in Israele e più in generale ovunque. Occorre rilanciare
con forza il discorso abolizionista, per porre fine a questa mostruosità. Per
dirla ancora con Riccardo d'Este, citandolo dal suo libro "Abolire
il carcere - ovvero come sprigionarsi" (Ed. Nautilus - TO - 1990):
"... L'ingabbiamento in galera, in campi di
concentramento, negli ospedali non è che il risultato finale di questo
ingabbiamento fuori dal sè di cui soffriamo tutti. Noi, abolizionisti,
vogliamo che gli individui in questione [i cosiddetti "criminali"] si
riapproprino dei loro atti, che siano o meno chiamati crimini. In sè,
il crimine non esiste. Se esistono, come esistono, delle circostanze
dolorose, degli atti orribili che ci vengono inflitti non chiediamo di
meglio che cercare di evitarli riflettendo da soli o con alcuni altri
sui mezzi per preservarci da ogni aggressione alla nostra integrità
mentale o fisica. Constatiamo che il progresso è una nozione
assolutamente vuota di senso e pensiamo dunque che ci si debba liberare
da un modo di pensare che ci ha condotto soltanto a dei vicoli ciechi.
Non è il Diritto, ma la libertà che può consentire agli individui di
vivere in armonia, stabilendo rapporti a partire da se stessi e non dai
rapporti sociali a cui si è oggi obbligati. Siamo spossessati di tutto
e resi stranieri alla nostra stessa vita. Non lo sopportiamo." ...
AnOK4u
Il carcere come paradigma del modello di sviluppo occidentale
a cura di AnOK4u del collettivo Il Mondo Capovolto
Nella società feudale il carcere inteso come pena, nella forma della
privazione della libertà, non esiste.
Il carcere medievale, punitivo e privatistico si fonda sulla categoria
etico-giuridica del "taglione", a cui si associa il concetto di
"espiatio", forma di vendetta basata sul criterio di pareggiare i danni
derivati dal "reato".
La prigione, o meglio la detenzione, era solo un passaggio temporaneo
nell'attesa dell'applicazione della pena reale, cioè la privazione nei
riguardi del "colpevole" di quei beni riconosciuti universalmente come
valori sociali: la vita, l'integrità fisica, il denaro.
La crudeltà e la spettacolarità assolvevano la funzione di deterrente
nei confronti di coloro che intendevano trasgredire le regole imposte
dal "signore". Si vedano in proposito i roghi dell'inquisizione della
"santa romana chiesa".
In alcuni casi la pena veniva sanzionata secondo criteri più "umani", in
uso anche presso altre civiltà, soprattutto di origine tribale:
l'allontanamento dalla comunità (temporaneo o definitivo) o il concetto
di "compensazione" (il colpevole veniva costretto a compensare in
qualche modo, ad esempio attraverso un lavoro di "utilità sociale", il
danno recato alla comunità o a individui).
La "privazione della libertà" come sanzione penale si affermerà solo
quando tutte le forme della ricchezza verranno ridotte alla forma più
semplice ed astratta: il lavoro umano misurato nel tempo.
Quindi con la rivoluzione francese, l'avvento del dominio della
borghesia e del capitalismo diffuso. Dunque è necessario che si affermi
il lavoro salariato e che il valore di scambio diventi un valore
dominante. Sarà altresì necessario che si compia il processo che
porterà la borghesia (mercantile prima e poi capitalistica) al ruolo di
classe dominante e, dall'altra parte, che cresca a dismisura quel
fenomeno di masse di vagabondi, mendicanti e sradicati dalle campagne,
nei confronti dei quali la borghesia, arrogante e spregiudicata, si
porrà il problema del controllo sociale e dell'imposizione
dell'ideologia del lavoro coatto con i mezzi più terribili conosciuti
dall'umanità.
Vale la pena ricordare che fabbriche, banche, carceri ed orologi, nonché
ospedali e manicomi, si sviluppano nella loro concezione "moderna" e si
diffondono tutte nello stesso periodo storico, fra la fine del '700 e
l'inizio dell'800, ovvero con l'avvento della rivoluzione industriale
e, di conseguenza, col passaggio dalla società feudale alla società
disciplinare.
Oggigiorno, con l'avvento della rivoluzione tecnologica, assistiamo ad
un ulteriore passaggio del modello societario umano, dalla società
disciplinare alla società di controllo, il cosiddetto "carcere
immateriale", ovvero carcere globale. In questo nuovo tipo di società,
caratterizzata dalla perdita di ogni diritto acquisito, forte pressione
migratoria, squilibrio sempre maggiore nella distribuzione delle
ricchezze, e soprattutto nuova concezione del lavoro, basata su
flessibilità e precarietà, emerge un potenziamento senza precedenti
delle strutture segregative, carceri, comunità, ospedali e cliniche
psichiatriche (manicomi), affiancate a nuovi strumenti di controllo
(strutture e "servizi" socio-assistenziali, videosorveglianza,
tecnosorveglianza, farmacosorveglianza).
La nascita dell'istituzione carceraria moderna
L'avvio del processo di accumulazione capitalistica porta alla
dissoluzione della società rurale ed alla nascita del futuro
proletariato industriale.
Il processo che porterà al dominio borghese ed alla società industriale,
inizia però almeno due secoli prima, con il lento ma progressivo
sradicamento della cultura popolare, con l'apparizione dei primi luoghi
di concentramento di lavoro forzato (fabbriche, officine, miniere), e
con il progressivo mutamento degli assetti e dei rapporti sociali,
dovuto alla crescente poderosa pressione della borghesia su
un'aristocrazia indebolita ed in declino e su un proletariato povero,
incolto, confuso e disorientato.
Già nella sua prima fase questo passaggio costringe i più, per
sopravvivere, a trasformarsi in barboni, mendicanti, vagabondi,
briganti. Una massa di non occupati (quello che Marx più tardi chiamerà
"l'esercito industriale di riserva") che vive di espedienti e contro di
cui, sin dal secolo XVI e XVII, si svilupperà, in tutta Europa, una
legislazione sociale fortemente repressiva, caratterizzata da durissime
pene corporali: un vero e proprio sterminio della massa dei disoccupati
per attenuare la pressione sociale che essi esercitavano.
Al contempo si assiste ad un progressivo e sostanziale cambiamento del
concetto di pena e si forma il nucleo dell'ideologia penale
pre-illuminista. A poco a poco in Inghilterra i ladri e le prostitute,
insieme ai vagabondi, ai poveri e ai ragazzi abbandonati anziché essere
sottoposti alle comuni sanzioni dell'epoca vengono raccolti nel palazzo
di Bridewell (concesso dal sovrano) e obbligati a "riformarsi"
attraverso il lavoro e la disciplina. Nasceva così nel 1557 la prima
house of correction o workhouse (concetti e pratiche tornati
prepotentemente alla ribalta oggigiorno), caratterizzata
dall'organizzazione rigida del tempo strutturato in gesti sempre uguali
e ripetitivi.
A tal scopo vennero approvati (dapprima in Inghilterra e successivamente
in tutta Europa) una serie di istituti, come quello del 1601 che
riduceva il rifiuto del lavoro ad atto criminale, ed altri con i quali
veniva stabilita l'obbligatorietà del lavoratore ad accettare la prima
offerta di lavoro che gli venisse rivolta e contemporaneamente gli
veniva vietato di contrattare col proprio padrone. È il periodo delle
house of correction in Inghilterra, delle rasp-huis nei Paesi Bassi e
dell' hòpital in Francia.
Questa situazione europea dura fino alla chiave di volta rappresentata
dalla rivoluzione francese.
Successivamente, le nuove teorie rivoluzionarie borghesi, politiche e
sociali, favoriscono l'affermarsi di una nuova struttura
giuridico-normativa (in Francia il codice rivoluzionario del 1791 e in
Germania il codice bavarese del 1813) che stabilisce un'equivalenza tra
delitto e pena cercando di sottrarre quest'ultima all'arbitrio.
In questo clima vengono accolte con favore le teorie di alcuni
"riformatori" inglesi tra cui spicca Jeremy Bentham, che assegna al
carcere, prioritariamente, un carattere intimidatorio e di totale
controllo al fine di realizzare il ruolo produttivo e risocializzante.
È il progetto Panopticon basato sul "principio ispettivo" che i pochi
(carcerieri) possano controllare i molti (detenuti), e il controllo
possa essere esercitato su tutti gli atti del carcerato nell'arco delle
24 ore giornaliere.
Nasce così la nuova struttura architettonica del carcere moderno
(carcere Benthamiano), fatta di "bracci" (o "raggi") e rotonde,
costruito cioè in modo che i carcerieri stando fermi nel posto di
guardia posto sulla rotonda possano avere la visuale piena su un intero
braccio di celle, o su più bracci (struttura a raggiera). Al contempo
ogni detenuto sa che ogni suo movimento è controllato "a vista" con
estrema facilità.
È il risvolto carcerario della pretesa della ricca borghesia in ascesa
di riuscire a controllare totalmente le classi subordinate.
Sul piano pratico vengono introdotte, dapprima in Inghilterra (legge del
1810 e il Goal Act del 1823) e poi in tutta Europa, alcune innovazioni:
separazione tra i sessi, isolamento notturno e lavoro diurno in comune.
Le condizioni di vita nelle carceri peggiorano, così come peggiorano le
modalità di vita e lavoro per i poveri nelle workhouses.
Il carcere in America
Lo sviluppo dell'istituzione carceraria americana avrà notevole
influenza in Europa.
Già prima dell'indipendenza, in America vengono compiuti esperimenti
innovatori che avranno successo anche secoli dopo: a Geat Law, nella
Pennsylvania, regione quacchera già dal 1628 venne costruito un carcere
in cui il trattamento, davvero "innovativo", non era incentrato sul
lavoro e sulle pene corporali allora in voga, ma sul pentimento imposto
col condizionamento sensoriale (isolamento e silenzio) che il più delle
volte portava alla perdita delle facoltà mentali dei detenuti.
Per ottenere la disciplina, il sistema si fondava su un meccanismo di
alternanza privilegi/punizioni.
Il carcere in Italia
Nella seconda metà del XVII secolo si realizza una delle prime
esperienze carcerarie moderne: a Firenze all'interno dell'Ospizio del
S. Filippo Neri per giovani abbandonati viene istituita una sezione
destinata fondamentalmente a giovani di buona famiglia con problemi di
disadattamento. È il primo caso di isolamento cellulare a scopo
correzionale: la sezione era infatti composta da otto cellette singole
in cui i giovani erano rinchiusi in isolamento giorno e notte.
A Milano alla fine del XVII secolo vengono realizzati una "Casa di
Correzione" e un "Ergastolo".
A Napoli è in funzione la Vicaria: vi sono rinchiusi un migliaio di
prigionieri in condizioni terribili, molto al di sotto dei livelli di
sopravvivenza. Altrettanto aberranti sono le condizioni della Casa dei
poveri, il cosiddetto "Serraglio". A Roma nel 1770 viene realizzato il
carcere cellulare del San Michele (prigione vaticana).
Nel 1811 in tutti i paesi italiani sottomessi alla dominazione
napoleonica, viene introdotto il codice penale francese del 1810 il cui
nucleo fondamentale è rappresentato dalla difesa della proprietà
privata e dell'autorità dello Stato. Si diffondono anche nel nostro
paese i principi della pena detentiva e del lavoro forzato.
Nel 1839 vengono approvati, in vari Stati italiani, nuovi codici penali
e riforme dell'istituzione carceraria maggiormente rispondenti al
momento storico di un paese che si avvia all'unificazione, ad una
presenza considerevole di proletariato e sottoproletariato la cui
potenzialità di ribellione alle regole della borghesia capitalistica
spinge il potere statuale a realizzare una gestione del carcere di tipo
terroristico-ideologico come strumento per il controllo sociale.
Nel 1889 viene emanato il codice penale Zanardelli, entrato in vigore
nel '90, che sostituisce il codice sardo del 1859: viene abolita la
pena di morte (sostituita con l'ergastolo) ma restano severissime le
pene per i reati contro la proprietà. Nel 1891 viene approvato il nuovo
regolamento generale per gli istituti carcerari.
Si vanno diffondendo frattanto una serie di concezioni portate avanti da
alcuni intellettuali (Lombroso, Ferri, Garofalo, ecc.) che considerano
il reato come "fatto umano individuale" causalmente determinato. La
misura della pena risponde quindi al principio della "pericolosità
sociale", non più alla gravità del reato; ma i vari governi che si
succedono si oppongono a questo concetto e si attestano su una linea
conservatrice.
Le forti mobilitazioni sociali successive alla prima guerra mondiale che
oltre alla classe operaia urbana coinvolsero anche le campagne e il
proletariato contadino, creò un forte stato di allarme tra le classi
dominanti. Queste, agitando lo spettro della rivoluzione bolscevica
attraverso i media del tempo con toni fortemente demagogici, riuscirono
a mobilitare i settori della piccola borghesia (rovinata dalla guerra)
che vedeva i suoi privilegi residui minacciati dalle richieste
popolari. Così si spianò la strada al fascismo.
La repressione per il fascismo era un'esigenza di politica
economico-sociale (come del resto lo è per i governi odierni).
L'azione di intimidazione e di repressione nei confronti del
proletariato urbano e rurale superò di gran lunga ciò che era
consentito dalla pur durissima "repressione legale" dei paesi a regime
formalmente democratico.
Gli accordi del fascismo con la Chiesa cattolica (Patti Lateranensi
dell'11 febbraio 1929) rivestirono la pena di caratteristiche
moralizzatrici come era secoli addietro, considerando il reo come
"peccatore che deve compiere un percorso di espiazione e rimorso".
Nel 1926 viene approvata la nuova legge di Pubblica Sicurezza (si
introduce il confino di polizia). Nel 1930 è approvato il codice Rocco.
Nel 1931 è approvato il Regolamento carcerario che rimarrà in vigore
fino alla riforma del 1975. Nel 1934 vengono approvate altre leggi
(n.1404 e n.1579) che regolamentano il funzionamento del Tribunale dei
minorenni e delle Case di rieducazione per minorenni e che istituiscono
i Centri di Osservazione, con lo scopo di "fare l'esame scientifico del
minorenne, stabilirne la vera personalità, e segnalare i mezzi più
idonei per assicurare il recupero alla vita sociale".
Nel 1930 venne anche approvato il codice di procedura penale dove, nel
famigerato art.16, si garantiva l'impunità agli agenti di pubblica
sicurezza "per fatti compiuti in servizio e relativo all'uso delle armi
o di altro mezzo di coazione fisica". Una licenza di uccidere che
ricomparirà, con l'accordo di quasi tutte le forze politiche negli anni
'70 e che perdura tuttora.
Un altro elemento caratteristico dell'ideologia che ispira il codice
Rocco è quello che pone a carico dell'accusato l'onere di dimostrare la
propria innocenza e non all'accusatore dar prova dell'accusa,
stravolgendo anche le basi del diritto romano: alla faccia di tutti gli
stupidi simboli e riti che tentavano di stabilire un legame proprio con
la romanità.
Il Regolamento carcerario del 1931 si fonda sostanzialmente su questo
assunto:
lo Stato incarna il bene comune, lo Stato è al centro della vita del
cittadino, il delinquente è un nemico del popolo, quindi dello Stato,
poiché offende la dignità dello Stato e si contrappone ai sentimenti
popolari e alle pubbliche virtù. La pena dunque deve avere una funzione
afflittivo-punitiva e deve essere esemplare. Il carcere di conseguenza
sarà inflessibile e distruttivo nei confronti degli "incorreggibili",
flessibile e attenuato per gli altri:
"Occorre stabilire norme di vita carceraria che siano bensì idonee ad
emendare il condannato, ma non tolgano alla pena il carattere
afflittivo ed intimidativo ... E perché la pratica resti ferma ed
ossequiente al pensiero del legislatore, ho riconosciuto la necessità
non solo di dettare i precetti positivi, ma di formulare altresì una
disposizione, che implica il divieto di ogni giuoco, festa o altra
forma di divertimento che a quell'austerità [del carcere] possa recare
offesa..." (Relazione di presentazione al nuovo regolamento per gli
Istituti di Prevenzione e Pena).
Lo stesso Mussolini intervenendo nel dibattito parlamentare sulla
presentazione del nuovo Regolamento penitenziario ci tenne a dire la
sua mettendo in guardia coloro che studiano le carceri dal "vedere
questa umanità sotto un aspetto forse eccessivamente simpatico ...
Credo che sia prematuro abolire la parola pena e credo che non sia
nelle intenzioni di alcuno convertire le carceri in collegi ricreativi
piacevoli, dove non sarebbe tanto ingrato il soggiorno". È questa
l'essenza dell'ideologia fascista della punizione espressa dal duce del
fascismo che però oggi ritroviamo tranquillamente espressa, e senza
vergogna, dalla gran parte delle forze politiche che si
autodefiniscono, bontà loro, democratiche.
Negli anni successivi al secondo dopoguerra rimase in vigore il
regolamento penitenziario fascista del 1931, fino alla riforma del
1975, che sotto moltissimi aspetti avrà caratteri fortemente
peggiorativi data la situazione di lotte e rivolte all'interno delle
carceri che hanno caratterizzato gli anni '70.
Con un semplice decreto ministeriale, il n. 450 del maggio 1977, vengono
istituite le carceri speciali e di "massima sicurezza", per rispondere
alle lotte che si erano sviluppate e continuavano a realizzarsi nel
circuito carcerario, per cercare di ostacolare i livelli di
aggregazione in continua crescita ed anche per tentare di frenare il
movimento di evasioni creatosi in quegli anni.
L'istituzione della carceri speciali spianerà la strada all'introduzione
di una stretta repressiva inaudita ed allucinante: il famigerato
articolo 90 e i "braccetti di massimo isolamento" (Braccetti della
morte). È il Decreto Ministeriale 22.12.1982 che tra le altre cose
decreta:
- è sospeso il diritto dei detenuti di corrispondere con altre persone
detenute, anche ove trattasi di congiunti. La corrispondenza
indirizzata a persone non detenute o proveniente dall'esterno è sempre
sottoposta a visto di controllo;
- è sospesa la partecipazione dei detenuti al controllo delle tabelle e
della preparazione del vitto, alla gestione del servizio di biblioteca,
alla organizzazione delle attività culturali, ricreative e sportive;
- è sospesa la corrispondenza telefonica dei detenuti con i propri
familiari, conviventi e terzi;
- è sospeso il diritto dei detenuti a ricevere generi alimentari ed
oggetti contenuti in pacchi - salvo quelli contenenti biancheria ed
indumenti intimi- provenienti dall'esterno;
- è sospesa la possibilità in questi reparti di avere colloqui tra
detenuti, familiari, conviventi e terzi fuori dei limiti e della durata
stabilita nel 7° comma dell'art 35 e nella prima parte del 9° comma
dello stesso articolo (ossia non più di un'ora di colloquio al mese con
i familiari stretti);
- ai soggetti anzidetti è consentito di permanere all'aperto da soli per
sei ore non consecutive a settimana;
- non potranno utilizzare le attrezzature di lavoro, di istruzione e di
ricreazione, nonché la biblioteca dell'istituto;
- non potranno ricevere quotidiani, periodici, libri, non potranno
avvalersi della televisione.
Il carcere dal dopoguerra ai giorni nostri
Cosa succede dunque nelle carceri dall'immediato secondo dopoguerra ai
giorni nostri?
Nel 1945 viene emanato un decreto per rendere più rigido e severo il
controllo nelle carceri, frustrando le aspettative di chi sperava nella
"liberazione dal fascismo" un clima nuovo e più libero anche nelle
galere.
Viene investito di enorme importanza l'istituto del manicomio criminale
che altro non è che un prolungamento del carcere punitivo, ultimo
stadio della devastazione mentale e dell'annientamento dei
comportamenti non-compatibili.
L'Italia, forcaiola e sostanzialmente ancora succube dell'ideologia
fascista soprattutto per quanto attiene ai concetti di punizione e pena
bene incarnati dai settori reazionari della piccola borghesia,
spregiudicati soltanto nel togliersi di dosso rapidamente l'orbace per
indossare la croce, perse un'altra occasione per portarsi su un terreno
che avesse un minimo di "civiltà giuridica", alla faccia dei valori
espressi dalla resistenza.
Terreno che ha ulteriormente perso negli anni '80 e nei '90 e continua a
perdere in preda ad una ossessione punitiva stretta tra l'incapacità di
operare sul terreno politico-sociale per contenere i problemi della
non-integrazione e una sottocultura totalitaria che ha bisogno del
"nemico" per canalizzare le ansie e le frustrazioni di massa.
Una situazione di abbruttimento e sottomissione coatta, di
disumanizzazione e criminalità istituzionale. Una delle peggiori pagine
della storia del nostro paese, un universo abbandonato e sconfitto che
ritroverà un minimo quanto parziale riscatto quando, sul finire degli
anni '60, il proletariato delle carceri riuscirà a stabilire un
contatto con la realtà esterna in grande fermento; riuscirà a prendere
insegnamento dall'immensa ricchezza di nuova cultura e progettualità
antagonista che caratterizzò il 68 e 69 ed attuerà anche nelle carceri
una stagione di lotte e rivendicazioni tra le più significative nella
storia delle carceri di tutti i paesi, perché acquisirà la coscienza di
essere una frazione del proletariato sfruttato che solo nella lotta
collettiva può trovare il suo riscatto.
È una fase che si concluderà anche questa sul finire degli anni '70,
con l'ennesima vittoria (anche e soprattutto militare) della borghesia
sul proletariato.
Così, rapidamente come era cresciuto, il livello di coscienza del
proletariato detenuto è sceso di nuovo ai livelli pre-rivolte. Dagli
anni '80 in poi sono di nuovo ricomparsi i poteri dei boss mafiosi, di
nuovo l'individualismo e l'assenza di solidarietà, di nuovo la
mortifera alleanza tra boss e custodia, in assenza di mobilitazione e
coscienza da parte dei detenuti.
Chi ha contribuito al degrado delle carceri, a riportarle ai livelli
degli anni 50 ed anche prima?
Lo Stato in primo luogo: i suoi solerti funzionari negli anni '60 e '70
si sono spaventati, temendo che le lotte dei detenuti impedissero (e
spesso hanno realmente impedito) gli intrallazzi e i ricchi imbrogli
tra sistema carcere e malavita organizzata; un interesse economico
miserabile da una parte, ma anche la mentalità reazionaria e del tutto
priva di cultura giuridica della grandissima parte di chi opera nel
sistema carcere a livelli alti di responsabilità; quei pochi operatori
capaci, sensibili e colti in un ambiente come l'istituzione carceraria
in cui vige il sistema mafioso e clientelare per avanzare nella
carriera, non arrivano mai ad alti livelli. Corruzione, ignoranza,
metodi mafiosi, traffici illeciti, totale illegalità delle istituzioni
... tutto questo ha operato pesantemente perché finisse la stagione di
lotta nelle carceri italiane. Ma anche i partiti -tutti- soprattutto
quelli di sinistra che avevano nel proprio codice genetico la critica
radicale del carcere e di ogni altra istituzione totale, anch'essi, per
accattonare qualche voto dal ceto medio reazionario hanno buttato via
un patrimonio storico-culturale di valore inestimabile.
Oggi il carcere, come era un tempo, è tornato ad essere il luogo del più
sfrenato individualismo, dell'assenza di ogni solidarietà sincera e
costruttiva; è di nuovo il luogo dove alligna e cresce il mito
dell'uomo forte e violento, del prevaricatore, del protetto e del
raccomandato. Oggi il carcere è il luogo più diseducativo esistente
sulla terra; questa sola ragione dovrebbe bastare per decretarne la
chiusura permanente.
Purtroppo è il modo stesso di vita dominante in questa società che ha
assimilato i "valori negativi" del "vecchio" carcere prevaricatore: una
società proiettata anch'essa verso l'individualismo, il carrierismo e
l'ignoranza assoluta e tracotante, condita coi miti del superman, della
debordante idiozia massmediatica. Oggi più che mai la società, il
cittadino medio, il borghese piccolo-piccolo, perfino il proletario
confuso, disorientato, stordito e spersonalizzato, ha bisogno del
carcere. Ne ha bisogno perché là dentro, oltre quei muri oscuri,
ritrova la rappresentazione del suo nemico principale: le proprie
frustrazioni, le voglie represse, le paure ancestrali; ritrova, per
odiare, il ribelle incatenato, il randagio addomesticato, il diverso
rinchiuso: rivede il viaggio che avrebbe voluto fare ma che ha sempre
avuto il terrore di iniziare... la paura di osare.
Che cosa resta a lui se non ... il bisogno ansioso e frustrante di
ordine, ordine.. ordine .. ordine .. totalizzante e rassicurante?
Lascia comunque sgomenti il fatto che una società che è diventata essa
stessa un enorme carcere, abbia bisogno proprio delle galere come
valvola di sfogo delle proprie frustrazioni e perversioni.
Il carcere del presente e quello che si prospetta per il futuro
Come abbiamo già accennato in precedenza la rivoluzione tecnologica, col
passaggio dalla società disciplinare a quella del controllo globale ha
stravolto alcuni vecchi schemi.
Ciò che caratterizza questa fase di transizione è un potenziamento delle
strutture segregative tradizionali (carceri e istituzioni totali) e un
affiancamento di nuove strutture di controllo rivolte a intere
categorie di soggetti (migranti, tossicodipendenti, tifosi, squatter,
autonomi...) il cui allarme sociale è alimentato da continue campagne
emergenziali.
Il modello penitenziario statunitense, rispetto cui l'Italia e L'Europa
presentano sempre più analogie, vede una crescita esponenziale del
sistema di controllo caratterizzata dalla incarcerazione di un numero
sempre crescente di persone (2 milioni di persone, con un tasso di 600
persone incarcerate ogni 100.000 abitanti), la costruzione di nuove
prigioni, il fiorire di carceri e polizie private, la creazione della
potente lobby della polizia penitenziaria, in grado di influenzare le
dinamiche economiche e politiche dei diversi stati e contee americane.
Il carcere USA non solo si è espanso e riempito, ma ha svolto una
funzione di agenzia di controllo diffuso. Nei confronti di intere
categorie di persone (proletariato nero e ispanico, microcriminalità
femminile e minorile) si è assistito a un uso massificato del carcere
senza un incremento dei reati, ma in base a considerazioni sull'allarme
sociale suscitato.
Dunque appare che nella società di controllo il carcere cresce e aumenta
la sua funzione di contenitore segregativo per intere fasce di
popolazione. In questo modo amplifica ulteriormente la differenziazione
tra le persone detenute. Si va dal carcere di massima sicurezza, per i
"nemici dello stato", a quello puramente contenitivo, passando per i
diversi gradi del trattamento.
Le nuove strutture di controllo che affiancano il carcere si aggiungono
ad esso affiancandolo senza sostituirlo.
I ghetti metropolitani, la detenzione amministrativa e preventiva, le
terapie coatte in comunità, le strutture ospedaliere e psichiatriche,
l'affidamento ai servizi socio assistenziali, i sistemi diffusi di
videosorveglianza e tecnosorveglianza hanno lo scopo di costruire
attorno al carcere in espansione un cerchio ancora più grande e
crescente di soggetti sottoposti a forte controllo sociale. Il modello
statunitense insegna che a fronte di 2 milioni di persone incarcerate
ve ne sono più del doppio in libertà vigilata e le metropoli USA si
ristrutturano secondo un'urbanistica del controllo, così come
d'altronde accade anche in Europa.
La direzione che va prendendo il carcere odierno si orienta su due
livelli:
Il primo è la sua funzione "classica" di contenimento ed attenuazione
dell'enorme pressione sociale determinata dalla nuova massa sempre
crescente di poveri, disgraziati e diseredati che il neoliberismo sta
generando, e qui l'espressione più visibile e lampante è l'istituzione
dei lager per gli immigrati, luoghi questi, dove la gente viene
rinchiusa senza aver commesso alcun reato, ma semplicemente per il
fatto di essere sprovvista del "permesso di soggiorno".
È chiaro ancora una volta come il capitale abbia bisogno di controllo
sociale totale sul suo esercito industriale di riserva, e di deterrenza
verso qualsiasi azione insurrezionale o rivendicativa. A tal scopo,
all'istituzione carceraria viene affiancata una sempre più massiccia
militarizzazione del territorio, accompagnata e giustificata da
incessanti e martellanti campagne massmediatiche tese a creare in
sequenza "emergenze" inesistenti o mistificatorie al fine di
disorientare, confondere e impaurire (terrorizzare) la popolazione, e
creare consenso al regime militar-carcerario (stato di polizia).
I soggetti meno compatibili a questo modello di "sviluppo" sociale,
finiscono quasi inevitabilmente nel circuito carcerario, che nella fase
di detenzione sperimenta nuove tecniche di contenimento ed
annientamento della personalità: controllo fisico e psicologico,
deprivazioni sensoriali, metodi di tortura sempre più raffinati,
sperimentazioni selvagge (farmaci, esperimenti da laboratorio),
meccanismi premianti, inasprimento delle pene e delle condizioni di
vita, pene "alternative" spesso peggiori della detenzione stessa.
Le cosiddette "pene alternative", che sempre più spesso costituiscono la
prosecuzione della "normale" fase di detenzione, mirano appunto a
proseguire indefinitamente il controllo e la perseguibilità degli
individui. È il caso ad esempio degli affidamenti in prova ai servizi
socio-assistenziali o delle "case di lavoro" e "colonie agricole". È
il carcere immateriale, invisibile, l'ergastolo bianco. Per anni un
soggetto è costretto a strettissimi controlli da parte dell'apparato
poliziesco-giudiziario e/o medico-sanitario, e per qualsiasi minima
mancanza a questo regime riparte l'iter carcere-misure alternative in
una spirale che può perdurare all'infinito.
Quindi la fase di reclusione serve a frantumare la personalità e
l'identità dell'individuo, le "pene alternative" a proseguirne il
controllo e verificarne costantemente la "pericolosità".
Il successo delle tecniche di annientamento della personalità e di
"riconversione" degli individui nel periodo di reclusione vengono poi
testati attraverso cosiddetti "meccanismi premianti" che possono
portare a: permessi, semilibertà, piccoli privilegi, lavoro all'esterno
delle mura del carcere, ecc., prima di essere commutati definitivamente
in misure alternative al carcere.
I meccanismi premianti ormai non si sogna più nessuno di metterli in
discussione: l'efficacia con cui essi mettono a tacere ogni forma di
conflittualità all'interno delle carceri va mantenuta, soprattutto in
vista del peggioramento delle condizioni di vita e di sovraffollamento.
Il livello di detenzione "attenuato" consentito dalle misure alternative
ha infine il compito di reinserire i soggetti meno refrattari nel
circuito produttivo, o in altri istituti di controllo (comunità
terapeutiche, ospedali, servizi sociali, privato sociale) e sostituisce
le vecchie strutture dello stato sociale con il Terzo Settore.
Va sottolineato come per raggiungere gli obiettivi che il periodo di
reclusione si prefigge, tra le altre cose le autorità carcerarie usino
sempre di più droghe e farmaci. Questi contenimenti chimici sono
costituiti principalmente da droghe psicotiche come antidepressivi,
sedativi, tranquillanti, con potere ipnotico. Droghe come il Valium, il
Tavor o il Serenase offrono l'equivalente chimico di una camicia di
forza e il loro uso sta diventando sempre più massiccio con l'aumento
della popolazione carceraria e con un sempre maggior numero di
prigionieri "trattati".
In USA questa tendenza è diventata un "percorso terapeutico" che
raggiunge la sua apoteosi con le "modificazioni del comportamento", ed
all'interno del quale l'uso di meccanismi di ricompensa e punizione è
la prassi per condizionare il comportamento.
Ma anche l'Europa sta raggiungendo rapidamente gli stessi livelli.
Droghe come l'Acnetine (un derivato del curaro) che produce sia paura
che panico sono usate in terapie di avversione al sistema dominante. In
carcere le possibilità per testare le nuove droghe del controllo
sociale sono enormi, i controlli praticamente nulli.
Nella fase successiva alla reclusione vengono poi sperimentati nuovi
strumenti tecnologici di controllo e repressione quali braccialetti
elettronici, chips sottocutanei, controllo satellitare, e quant'altro.
È ancora da notare come questi strumenti tecnologici vengano
pubblicizzati dalle case produttrici come mezzi "per la totale
supremazia psicologica dei carcerati potenzialmente fastidiosi".
Il secondo livello su cui si sta orientando il carcere odierno è quello
di convertire progressivamente la struttura carceraria alle regole del
mercato globale, alle speculazioni finanziarie e di borsa. Renderla
sempre più produttiva e redditizia, sempre più affine al modello di
"sviluppo" mercantil-tecnologico-ipercapitalista che la borghesia
imperialista impone.
Perché limitarsi a sorvegliare e punire, quando questo può diventare
anche un lucroso affare?
Abbiamo già visto come il carcere sia uno straordinario laboratorio di
sperimentazione ed investimento per il capitale. E come sempre più
spesso si affianchi al concetto di pena ed espiazione, quello della
"rieducazione" attraverso il lavoro forzato.
A fianco del carcere pubblico prende sempre più piede l'istituzione di
carceri private, gestite da aziende.
Negli Stati Uniti il carcere privato non è una novità. In pratica, senza
dilungarsi troppo, è sempre esistito.
Ma oggigiorno, con la popolazione carceraria che aumenta continuamente
dato il progressivo immiserimento degli strati più deboli della
società, ed a fronte delle sempre crescenti ondate di immigrazione dal
sud verso il nord del mondo, le prigioni, sia pubbliche che private,
negli Stati Uniti ed ora anche in Europa si stanno rivelando vere e
proprie miniere di forza lavoro.
Questo origina un meccanismo realmente terrificante. Il capitale si
ristruttura e va ad investire nei paesi dove costi e manodopera hanno
costi irrisori generando, di conseguenza, l'aumento di povertà
all'interno dei paesi industrializzati. Sempre più gente per
sopravvivere è costretta a "delinquere", quindi si va costantemente ad
ingrandire la massa della popolazione carcerata. Questa, messa al
lavoro a regimi di sfruttamento elevatissimi, genera al contempo un
esercito di manodopera a costi bassissimi. In tal modo le classi
subalterne vengono ovunque costrette al lavoro e ad una condizione di
vita ai limiti della sopravvivenza, il tutto a beneficio della piccola,
media e grande borghesia internazionale.
Non è un caso che le società che gestiscono le carceri private siano
ormai delle multinazionali quotate in borsa.
Ad esempio negli USA in base alla nuova legge le imprese private possono
utilizzare a scopo di profitto il lavoro dei detenuti (ma questo accade
anche in Inghilterra e nei paesi del nord Europa, e presto si estenderà
a tutti quanti). Manufatti che prima erano prodotti all'esterno,
vengono oggi lavorati dai carcerati che ricevono una paga pari il 20
per cento del salario minimo, a cui è impedito di aderire ai sindacati
o di godere dei più elementari diritti riconosciuti a ogni lavoratore.
La legge inoltre ha fatto decadere il principio in base al quale il
lavoro in carcere dovrebbe essere volontario, facendo passare invece
quello che sancisce il dovere del detenuto a lavorare per pagare la sua
carcerazione (lavoro forzato). Come già detto la maggior parte dei
paesi europei si sta allineando sulle stesse posizioni, con
provvedimenti analoghi. Ad esempio il governo inglese sta letteralmente
vendendo intere strutture carcerarie ad aziende private.
Il carcere si va dunque scindendo in pubblico e privato.
Quello privato per tutti quei soggetti che vanno a costituire la nuova
miniera di forza lavoro e facili profitti per la borghesia
imperialista, formata soprattutto da microcriminalità facilmente
controllabile e ricattabile, con secondini altrettanto sfruttati e
sottopagati.
Quello pubblico articolato su due livelli: carcere "ordinario" per i
soggetti da avviare alle strutture di recupero sociale, supercarceri e
massima sicurezza per gli individui "socialmente pericolosi", non
compatibili e/o irriducibili.
Per quanto riguarda il carcere pubblico, oltre ai programmi governativi
su sicurezza-carcere-controllo, la voce da padrone in questa fase di
ristrutturazione, la stanno facendo direttori e guardie penitenziarie.
Entrambe le categorie vanno ad assumere nuove responsabilità
all'interno di questo sistema e rivendicano la loro parte di potere.
Già negli anni passati è accaduto che fossero proprio funzionari
penitenziari (medici, direttori, guardie) a far esasperare la
situazione tra i detenuti dentro il carcere per portare avanti con più
autorevolezza le proprie rivendicazioni.
Direttori e guardie penitenziarie si configurano come figure forti, che
insieme a un massiccio ed efficiente apparato giudiziario possono
gestire il nuovo sistema penale e carcerario. I primi vogliono
riconosciuto un più alto livello dirigenziale, i secondi continuano a
strappare aumenti di organico, di retribuzione e amnistie per i
maltrattamenti ai detenuti, essendo riconosciuti come interlocutori
privilegiati del mondo carcerario.
Ad un'analoga dinamica si è assistito anche in occasione della
ristrutturazione del sistema sanitario carcerario in Italia, entrata in
vigore all'inizio di quest'anno con il passaggio di competenze dal
ministero di grazia e giustizia a quello della sanità. Lì fu la lobby
dei medici penitenziari a sfruttare le drammatiche condizioni delle
persone malate detenute per fare in modo che fossero quanto più
mantenuti i privilegi acquisiti dalla loro categoria durante la
gestione separata della sanità carceraria.
Liberi tutti!
Abolire il carcere per liberare il mondo
Sfacciatamente, ancora oggigiorno, media e partiti politici ci propinato
la vecchia manfrina secondo cui il carcere serve a rieducare, a
istruire, a "recuperare" ai valori della cosiddetta "società civile".
Niente di più falso. È evidente che il carcere non assolve minimamente
neanche una di queste funzioni: serve a privare della libertà e a
tenere sotto controllo (o sedare definitivamente) soggetti che
altrimenti non sono compatibili col modello di sviluppo borghese, punto
e basta.
Di più. Il carcere odierno come tutti sanno è una scuola di
"criminalità", ovvero chi vi entra per qualsiasi ragione ne uscirà (se
ne uscirà) più violento e rabbioso, e senz'altro più esperto nel
continuare a "delinquere". Questo passaggio sarà tra l'altro
incentivato dal meccanismo che per un individuo il fatto di essere
stato carcerato, comporta quasi inevitabilmente una serie di
stigmatizzazioni sociali (difficoltà nel trovare un lavoro, perdita di
quei pochi beni che possedeva prima della carcerazione, esclusione,
emarginazione).
Quindi il carcere moderno svolge anche la funzione di riprodurre se
stesso all'infinito, ponendosi come una autentica fabbrica di soggetti
incompatibili alla società e alle sue regole.
In ultima analisi un carcere esige altre nuove carceri, più polizia, più
magistrati, più tribunali, più controllo, più allarme sociale, e via
dicendo in una spirale perversa che si riproduce indefinitamente.
La retorica dei media funge da fabbrica del consenso, continuando a
snocciolare concetti che si rincorrono in sequenza allucinante:
criminalità, pericolo, emergenza, carcere, prigione, penitenziario,
reato, colpa, pena, crimine, espiazione, colpevolezza, paura, misure di
sicurezza.
Il risvolto tragico di questa faccenda è che tutto ciò è originato da
null'altro che dalla divisione in classi di questa società (ricchi e
poveri, potenti e sottomessi, sfruttatori e sfruttati, oppressori ed
oppressi) e dall'esigenza spietata della borghesia di continuare ad
accumulare redditi, profitti e proprietà, da difendere con ogni mezzo
da una massa sempre più vasta di disgraziati, poveracci e diseredati
che preme alle sue porte.
È urgente più che mai riaprire dal basso il discorso sul carcere in
senso abolizionista.
Abolire il carcere è possibile? È un punto di partenza o un punto di
arrivo? È un passaggio riformista o rivoluzionario?
Il discorso sull'abolizione del carcere appare assai complesso, perché
va ad aprire un gioco di scatole cinesi: che ce ne facciamo poi delle
leggi e dei codici (è evidente che leggi e codici sono pensate e
studiate in funzione del carcere e non viceversa!)? E le classi
dominanti come espleterebbero la loro necessità assoluta di controllo
sociale? E quale provvedimento si potrebbe poi intraprendere nei
confronti di chi palesemente ha sgarrato anche solo le regole dettate
dal comune buon senso?
È evidente che non si può parlare di abolizione del carcere senza
pensare alla liberazione globale del genere umano. Il problema è come
arrivarci: attraverso una pressione sociale, una serie di lotte che
induca il potere a intraprendere una serie di riforme volte ad
umanizzare il concetto di pena-espiazione, fino ad arrivare alla
progressiva abolizione del concetto di "privazione della libertà", o
attraverso un passaggio rivoluzionario che tutto di un colpo trasformi
radicalmente la società umana e i suoi assetti?
Se l'obiettivo è stabilito, ovvero l'abolizione del carcere, possono
andar bene sia l'uno che l'altro, dipenderà dal livello di coscienza
acquisito dalla gente e dalla sua disponibilità alla lotta.
Ma in entrambi i casi non si può non tener conto che il concetto di
abolizione del carcere implica anche necessariamente la soppressione di
quelle forme di carcere diffuso, globale o immateriale che dir si
voglia, che in un modo o nell'altro ci legano tutti, e che comunque
rimandano alla prigionia sociale, al controllo sociale, a quella
privazione della libertà che si espleta attraverso una serie infinita
di obblighi, norme e divieti; che ci espropria di noi stessi,
relegandoci in una sorta di megaprigione sociale, con comportamenti e
percorsi autorizzati o vietati.
Il problema fondamentale è elaborare e diffondere coscienza e cultura
abolizionista.
Che ognuno prenda coscienza e si adoperi e si impegni come meglio può
per un effettivo salto in avanti del genere umano.
Abolire il carcere non è un'utopia, è una necessità assoluta sulla
strada di una società che si voglia minimamente dire "civile".
Bisogna che ogni individuo si riappropri di tutto ciò che secoli di
capitalismo, violenza di stato e narcosi mediatica gli hanno rubato:
gioia di vivere e lottare, desiderio di libertà, solidarietà verso gli
oppressi, rifiuto alla sottomissione.
Questo è il primo passo per avviarsi sulla strada dell'abolizione del
carcere e verso una società che non abbia più bisogno di pene e
punizioni per valutare l'operato degli individui, liberata per sempre
dai fantasmi ossessivi che la perseguitano e alimentata dalla libertà
di tutti, in assenza di discriminazioni e ingiustizie, di classi
sociali, di mercificazione dell'esistente, di galere di ogni genere.
Terra terra, là dove siamo e non abbiamo mai smesso di essere, è
importante praticare una cultura abolizionista, esprimere ovunque
l'importanza della libertà, battersi contro ogni forma di
sopraffazione, di negazione, di morte annunciata e differita,
nell'universale quanto nel particolare, e viceversa. Io diffido di chi
vuole abolire le galere ma, intanto, non fa niente affinché chi ci sta
dentro non ne sia strangolato o asfissiato: lì vedo avvoltoi alla
ricerca di cadaveri da esibire come ridicoli simboli e poveri
stendardi. (...)
Mai nessuno mi vedrà in campo a favore delle "riforme", ma sempre mi si
vedrà in azione affinché le "riforme" già promulgate vengano estese al
massimo.
Abolire il carcere è un processo nel quale l'astuzia, l'intelligenza, il
realismo e l'utopismo vanno saviamente combinati, affinché siano un
vero cocktail esplosivo.
'Sempre era in me il presentimento che un giorno o l'altro avrei
recuperato la mia libertà, sebbene mi fosse impossibile immaginare in
che modo, né far progetti con la minima speranza di successo'
(Riccardo d'Este - da "Abolire il carcere ovvero come sprigionarsi" -
Ed. Nautilus - Torino 1990)
Collettivo Il Mondo Capovolto
anok4u@autistici.org
Maggio 2000