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Acheng, Zweig, Wei Jingsheng: il sistema e la scacchiera

Gianni Sofri *

Golem, n. 1, gennaio 2003

Le pagine che seguono rappresentano il nucleo - in una stesura del tutto provvisoria, e priva di note - di un articolo più ampio che ho in animo di scrivere. Sarò quindi grato a chiunque vorrà farmi pervenire obiezioni e suggerimenti.

1. Poco più di una decina d'anni fa feci la conoscenza - anche personale - di un giovane (quanto meno allora) scrittore cinese che si chiama Acheng.
Zhong Acheng (Acheng è il suo nome proprio, divenuto anche nom de plume) nasce a Pechino nel 1949, lo stesso anno in cui viene proclamata la Repubblica popolare cinese. Suo padre è un comunista, sceneggiatore e critico cinematografico: nel '57, un articolo sgradito al potere gli frutta l'espulsione dal partito e l'invio in un campo di rieducazione. Il ragazzo Acheng diventa così il figlio di un "controrivoluzionario" e, pur continuando a frequentare la scuola, conosce la riprovazione sociale e l'isolamento. In cambio, impara a "guardare la società dall'esterno".

Dieci anni dopo esplode la rivoluzione culturale. Nel '68, seguendo il destino di milioni di "giovani istruiti", Acheng viene inviato anche lui a rieducarsi: nello Shanxi, poi nella Mongolia interna, poi per lunghi anni nello Yunnan, nei pressi del confine con la Birmania. È qui che comincia a scrivere per se stesso, e a raccogliere i materiali dei suoi futuri libri.
Torna a Pechino nel '79, e trova un lavoro in una rivista. Nel 1984 pubblica Il re degli scacchi (il suo libro che io prediligo), l'anno dopo gli altri due volumi della trilogia che lo ha reso famoso: Il re degli alberi e Il re dei bambini. Libri praticamente all'indice e per molti anni pressoché introvabili; ma che, nella forma di fotocopie o di volumi logorati dall'uso, o in edizioni pirata, passano di mano in mano, in una circolazione semiclandestina (oggi sono ancora ufficialmente proibiti, ma è più facile trovarli nelle librerie). Ciò nonostante, Acheng diviene uno degli autori più amati dai giovani che lottano per la democrazia.
Dal 1987 Acheng vive a Los Angeles pensando alla Cina. Gli Stati Uniti, dice, sono per lui "un tranquillo tavolo su cui scrivere". Ha fatto il muratore e l'imbianchino, ha riparato vecchie automobili e radio. Dice di aver imparato tutti questi mestieri consultando i manuali. Mentre era nello Yunnan si fabbricò da sé un violino. Predilige il lavoro manuale, anche il più faticoso, che "permette al cervello di rimanere libero".
Acheng non è uno scrittore di denuncia. Non declama, non protesta, non ha lacrime né grida. Descrive persone che si difendono dall'oppressione del potere, dall'ottusità burocratica, dalla corruzione, rifugiandosi nelle manie, nelle stravaganze, nella follia. Come Lao Guan, che è stato in prigione sette anni per una frase, e ora passa il suo tempo a guardare tutto, dai corvi che nidificano alla forma delle nuvole ad ogni genere di esposizioni e mostre: "Così, se verrò arrestato di nuovo, avrò visto il maggior numero di cose possibili".
Nei suoi libri Acheng racconta il destino doloroso della sua "generazione perduta", ma lo fa senza recriminare, con serenità e con tenera ironia. Al burocratismo, all'autoritarismo violento, al produttivismo esasperato, a una cultura dogmatica, oppone la ricerca paziente di una sapienza antica, la difesa dell'individuo, l'amore per la gente e per la natura. I suoi personaggi hanno imparato, come suggeriva un saggio taoista, ad essere stupidi tra gli intelligenti, e a sopravvivere, salvando umanità e dignità, anche quando tutto, intorno, sembra degradarsi e crollare.
Nel Re degli scacchi, protagonista-simbolo è un giovane cinese assai povero, anch'egli inviato in campagna, interessato solo al gioco degli scacchi e al cibo (necessario a soddisfare i bisogni primari per potersi dedicare alle avventure dello spirito). Questo giovane, Wang Yisheng, gira tra villaggi sperduti e campi di rieducazione in cerca di qualcuno che possa impegnarlo agli scacchi (e il racconto finirà con una memorabile partita). Intoccato e intoccabile dai tumulti della politica, il protagonista rivendica nei fatti la propria indipendenza e libertà interiori, il proprio essere individuo: nulla e nessuno potrà mai privare della sua libertà una persona che sa giocare a scacchi dentro di sé, a memoria. Ascoltiamo questo dialogo:

"... rispose: - Gli scacchi sono la mia passione. Quando gioco, mi dimentico di tutto. Quando sono immerso in una partita, mi sento bene. Sono capace di giocare a mente, senza la scacchiera e i pezzi. Non do fastidio a nessuno.
- Che faresti se un giorno ti proibissero di giocare e persino di pensare agli scacchi?
- Guardandomi sorpreso rispose: - Non è possibile, come farebbero? Io so giocare a mente, dovrebbero scavarmi nel cervello. Dici delle assurdità."

2. Il re degli scacchi uscì su una rivista, "Shanghai wenxue" ("Letteratura di Shanghai") nel luglio 1984. Quarantuno anni prima, nel 1943, era stata pubblicata postuma, a Stoccolma, la Novella degli scacchi di Stefan Zweig. Il lungo racconto fu scritto da questo narratore ebreo austriaco - uno dei grandi e dolenti interpreti del declino della Mitteleuropa - nel 1941, pochi mesi prima di suicidarsi, insieme a sua moglie, in una città brasiliana nella quale viveva esule. Si narra, in questo libro, di un giovane avvocato di antica e illustre famiglia viennese, che i nazisti arrestano e sottopongono per un lungo periodo, oltre che ad estenuanti interrogatori, "alla raffinata tortura della solitudine", in una stanza in cui esistono solo un letto, un tavolo e un lavandino, e la cui unica finestra dà su un muro. Un giorno, approfittando di un momento di distrazione dei suoi custodi, il giovane riesce a impadronirsi fortunosamente di un libro. Tornato e rinchiuso nella sua stanza, grande è la sua delusione nell'accorgersi che non si tratta, come aveva sperato, di Goethe o di Omero, ma di "un manuale di scacchi, una raccolta di centocinquanta partite magistrali". In seguito, però, il giovane impara a giocare contro se stesso e ad eseguire ogni partita a memoria. Così, quest'attività all'apparenza assurda gli offre, imprevedibilmente, "un'arma meravigliosa contro l'opprimente monotonia dello spazio e del tempo".
Qualche tempo dopo, liberato dalla sua prigionia e andato esule, il giovane si trova su una grande nave passeggeri che va a Buenos Aires, sulla quale viaggia anche un famoso campione mondiale di scacchi. Un compagno di viaggio, al quale il giovane viennese ha raccontato la sua storia, lo induce ad affrontare, benché assai di malavoglia, il campione. Ma la storia di Zweig non ha un lieto fine. Il campione è umiliato da un pareggio nella prima partita, ma costringe il rivale all'abbandono nella seconda: non per la sua superiorità, ma perché il giovane avvocato soccombe al ricordo, all'angoscia, alla follia. La vittoria arride quindi a un rozzo e ignorante professionista del calcolo, esattamente come, negli stessi anni, sembrava arridere in Europa alla barbarie nazista. Fin troppo facile immaginarsi che Zweig pensasse al tragico declino del Mondo di ieri (altro suo libro dello stesso periodo), e anche al proprio personale destino. Ma questo ci porterebbe molto lontano.

3. Nell'89, quando gli studenti cinesi incominciarono a muoversi, agli inizi di quella che sarebbe poi stata la Primavera di Pechino, una delle loro prime rivendicazioni fu la liberazione di Wei Jingsheng: il più illustre, e anche il più ostinato e coraggioso dei dissidenti cinesi.

Wei è nato a Pechino nel 1950 (è dunque quasi coetaneo di Acheng) da una famiglia appartenente alla nuova burocrazia del regime: suo padre era un "quadro" di rango abbastanza elevato. Negli anni dell'adolescenza, seguendo lo standard della sua generazione (e della sua condizione sociale) imparò a memoria molti scritti di Mao, e nel 1966, alle origini della rivoluzione culturale, fu tra i fondatori di una delle prime organizzazioni di "guardie rosse". Wei, come molti altri giovani, aveva preso sul serio l'esortazione maoista a ribellarsi e a "sparare sul quartier generale", e cioè ad opporsi anche ai livelli più alti della burocrazia di partito. Si scontrò invece con la moglie di Mao, Jiang Qing, e con gli altri dirigenti della rivoluzione culturale che intendevano usare la rivolta giovanile, sotto uno stretto controllo, per un regolamento di conti all'interno del Partito.
Wei fu arrestato nel '67 e rimase in prigione per tre mesi. Sfuggì a un secondo arresto rifugiandosi nel villaggio da cui la sua famiglia proveniva. Dal '69 al '73 fu nell'esercito, anche come ufficiale: una sua fotografia di allora, pubblicata in un libro di Victor Sidane, lo raffigura appunto nella divisa dell'Esercito Popolare di Liberazione, con un viso di ragazzino serio e determinato. La sua appartenenza all'esercito gli dette modo di viaggiare per la Cina, assistendo in prima persona a situazioni di ingiustizia, episodi di malcontento, ribellioni. Abbandonò l'esercito nel '73 e fece una scelta radicale, accettando un posto di elettricista nello Zoo di Pechino. Faceva questo lavoro quando, alla fine del '78, Pechino conobbe un'improvvisa ventata di libertà di espressione, che ebbe il suo simbolo nel famoso "muro della democrazia". A quel muro, il 5 dicembre, Wei affisse un suo scritto: La quinta modernizzazione, la democrazia. La Cina, egli sosteneva, era ancora governata da un regime burocratico. Mao Zedong era morto, e i suoi seguaci sconfitti e caduti: ma "quanto alla libertà e alla democrazia che il popolo attendeva, neppure il loro nome può essere menzionato". Occorreva quindi lottare per la libertà e per la democrazia, e per instaurare in Cina una società veramente moderna. Senza la democrazia, le "quattro modernizzazioni" volute da Deng (dell'agricoltura, dell'industria, della ricerca scientifica, della difesa) non avrebbero avuto successo, e comunque sarebbero state insufficienti. A chi gli segnalava il grave rischio cui andava incontro opponendosi così apertamente a Deng, Wei rispondeva: "occorre pure che qualcuno cammini controvento". Nel gennaio 1979 dette vita a una rivista che riprendeva e approfondiva le sue tesi: "Tansuo" ("Inchieste"). Ma il 29 marzo venne arrestato, e il 6 dicembre condannato in via definitiva a quindici anni di reclusione e tre di esclusione dai diritti politici. L'accusa fu duplice: di "propaganda e agitazione controrivoluzionaria" e soprattutto (secondo una consolidata tradizione staliniana) di spionaggio. Wei fu accusato di aver fornito a un giornalista inglese i nomi dei principali responsabili militari cinesi dell'attacco al Vietnam del febbraio 1979. In realtà, quei nomi erano universalmente noti, ma il regime, come disse Deng, aveva voluto dare un esempio, dopo aver rudemente interrotto la breve parentesi del muro della democrazia.
Ci fu qualche protesta per la condanna di Wei a Hong Kong e in Occidente. Poi il silenzio calò sulla sua vicenda, interrotto solo di tanto in tanto da notizie allarmanti. Nessuna richiesta di informazioni ebbe successo, né allora né dopo. E l'opinione pubblica internazionale continuò a disinteressarsi del caso, con soddisfazione dei massimi dirigenti cinesi. A un'importante riunione del vertice del Partito, nel dicembre dell'86, Deng Xiaoping avrebbe detto: "Se necessario, dobbiamo trattare severamente coloro che disobbediscono agli ordini. Possiamo permetterci di far scorrere un po' di sangue. Ma bisogna sforzarci, finché sia possibile, di non uccidere nessuno... Guardate Wei Jingsheng: l'abbiamo messo dietro le sbarre, ma non ci sono state troppe proteste internazionali. In questi ultimi anni siamo stati troppo lassisti di fronte al liberalismo borghese."
Dopo il suo arresto, Wei passò otto mesi in una cella riservata ai condannati a morte, poi un intero anno senza vedere il sole, in una cella senza finestre di una prigione di Pechino. Solo nell'agosto '81, vale a dire ventuno mesi dopo la condanna di seconda istanza, i suoi parenti vennero ammessi a vederlo e a fargli visita (una volta ogni mese o, a seconda dei tempi, ogni due mesi). Nel corso degli anni, i rapporti di Amnesty e di altre organizzazioni internazionali per i diritti umani diffusero periodicamente allarmi (anche se non sempre controllati) di una incredibile serie di maltrattamenti e di vere e proprie torture fisiche e psicologiche di cui Wei sarebbe stato oggetto, con gravi conseguenze sulla sua salute. Si va dalla perdita dei capelli e di dodici denti (ha solo una "gengivite", disse qualche anno dopo un portavoce ufficiale) a gravi disturbi cardiaci; da notizie su terapie contro la schizofrenia cui sarebbe stato sottoposto alla detenzione in una cella dalle pareti di vetro, perennemente illuminata e controllata; fino a pestaggi in carcere da parte di altri detenuti adeguatamente premiati con riduzioni di pena. Per due volte circolò addirittura la voce che fosse morto, costringendo le autorità a uscire finalmente dal silenzio per smentire la notizia. Nel corso della sua detenzione ha fatto sei lunghi scioperi della fame.
Dal 1984 al 1989 venne trasferito in un campo di "riforma attraverso il lavoro" (un laogai, il gulag cinese) nel Qinghai. Dal 1986 gli fu permesso di avere due giornali e i mezzi per scrivere. Scrisse, praticamente a memoria, articoli di storia antica e recente della Cina che sarebbero stati pubblicati dopo la sua liberazione.
Nel 1989 venne trasferito a lavorare in una miniera di sale. Sappiamo oggi, perché sono state pubblicate, che in questo periodo scrisse decine e decine di lettere. Sono lettere che contengono richieste, espresse sempre con grande dignità, e spesso vane, di ottenere piccole cose necessarie alla sopravvivenza. Ma anche lettere molto orgogliose e coraggiose, in cui si rivolge ai massimi leader del Partito, da Deng a Jiang Zemin, denuncia apertamente i loro errori, dà loro dei consigli sull'importanza della democrazia e dei diritti umani, spiega a Deng che con la sua politica verso il Tibet sta conducendo quella regione verso la secessione... Inoltre, chiede instancabilmente che gli sia resa giustizia, e nel '92 chiede formalmente che sia riaperto il suo dossier. Si autodefinisce "il prigioniero personale di Deng".
Sempre nel '92, quando il governo cinese comincia a brigare a livello internazionale per ottenere l'assegnazione delle Olimpiadi a Pechino, si comincia a notare qualche segnale di cambiamento. Viene diffusa sotto banco una foto che ritrae Wei in carcere, con un sorriso incerto, ma con capelli e denti. Wei è ora trattato meglio: sospetta che gli mettano degli ormoni nel cibo per ingrassarlo. Per alcuni giorni lo portano a Tangshan: sotto stretta vigilanza accompagnano il "dissidente" (fotografandolo ripetutamente) a visitare un museo, a mangiare in un ristorante, dal dentista. Finalmente, nel settembre 1993, lo rilasciano, in libertà condizionata.
Libero, Wei si comporta, sia pure con qualche prudenza, come un "militante nel movimento per la democrazia". Fa pubblicare i suoi scritti (lettere e articoli) a Hong Kong, rilascia molte interviste a giornalisti cinesi e stranieri, ha contatti (che gli verranno contestati come capi d'accusa) con dissidenti e leader della Primavera, come Liu Qing e Wang Dan. Non rinnega le sue idee sulla democrazia o sul Tibet. Dice che Deng è "un despota", che è "molto difficile accedere alla democrazia per mezzo di una rivoluzione violenta" (come dimostrano le rivoluzioni francese, russa e cinese). Chiede agli americani di difendere i diritti umani in Cina, ma di non applicare sanzioni economiche che punirebbero i più deboli. La sua libertà, ancorché condizionata, dura solo sette mesi: viene fermato il 1° aprile '94 mentre torna in macchina, con la sua segretaria Tong Yi, da Tianjin a Pechino. Era già stato fermato e condotto altrove, più volte, in occasione di visite a Pechino di governanti occidentali, specie americani. Questa volta se ne perdono le tracce. Tong Yi fa appena in tempo a dar notizia dell'accaduto: cinque giorni dopo viene arrestata anche lei, detenuta per otto mesi, poi inviata (senza alcun processo) a un campo di lavoro. Amnesty e altre organizzazioni per i diritti umani danno notizia di maltrattamenti da lei subiti.
Su Wei c'è un'inchiesta per violazioni ripetute della legge, ma nessuno sa dove sia, e i suoi familiari cercano invano di avere sue notizie, denunciandone la scomparsa. Solo il 21 novembre il suo arresto viene annunciato ufficialmente, ma come avvenuto in quello stesso giorno.
Dopo qualche mese di prigione a Pechino, viene riportato a Tangshan. Il nuovo processo si svolge il 13 dicembre 1995. Ritenuto colpevole di aver pubblicato all'estero "articoli reazionari" e di aver fomentato "un piano d'azione per rovesciare il governo", Wei è nuovamente condannato a quattordici anni di prigione e a tre di privazione dei diritti politici. Il processo è durato cinque ore e mezzo, compresa un'interruzione per un suo malore da ipertensione. Formalmente, il dibattito è pubblico (ci sono una ventina di persone), ma gli stranieri non vengono ammessi. Il verdetto è confermato il 28 dicembre dal Tribunale popolare superiore di Pechino.
La nuova condanna provoca vane proteste da parte di enti, istituzioni, privati cittadini e governi di tutto il mondo (esclusa, o quasi, l'Italia). Dal 1994, Wei è regolarmente candidato al Premio Nobel per la pace: l'ultima volta, nel '97, la sua candidatura suscita da parte del governo di Pechino una reazione di protesta talmente dura da sconfinare nell'intimidazione vera e propria.
Sempre nel '94 ha avuto il Premio Robert F. Kennedy per i diritti umani e il Premio Olof Palme (nella motivazione: "un semplice cittadino che sfida un sistema inumano"), nel '96 il Premio Sakharov per la libertà dello spirito del Parlamento europeo (che ha tra i suoi premiati Mandela, Dubcek, Aung San Suu Kyi). Naturalmente, Wei non ha potuto materialmente ritirare questi premi.
Nel novembre del '97 Wei viene liberato "sulla parola" e imbarcato su un aereo che lo porta negli Stati Uniti. Ufficialmente, per potersi curare, dal momento che gli anni di prigionia hanno prodotto molteplici danni sul suo fisico: ipertensione, artrosi, malattie agli occhi, ai denti, alla pelle. Non potrà tornare in Cina, pena l'arresto immediato.
Attualmente, Wei Jingsheng vive negli Stati Uniti, a Washington.

4. Il 1° maggio 1992, Wei Jingsheng scrive una lettera alle autorità penitenziarie:

"[...] I libri e le riviste significano molto per me, molto di più che per voi. Non sono solo degli strumenti di lavoro, sono per me prodotti di prima necessità. Faccio molta fatica a sopravvivere senza libri, senza televisione o senza musica. Voi non avete mai vissuto questo, e così, naturalmente, non capite. Ma gli esseri umani, dopo tutto, non sono bestiame. A loro non basta avere abbastanza da mangiare. Hanno anche un cervello molto sviluppato che si arrugginisce se non viene utilizzato. Il pensiero può allora girare a vuoto e smarrirsi. È precisamente per questa ragione che Stefan Zweig ha scritto La novella degli scacchi. [...]"

Nel settembre 2002 ho potuto chiedere a Wei, in occasione di un suo viaggio in Italia, quando avesse letto La novella degli scacchi. La domanda lo stupì quasi: naturalmente l'aveva letta prima di andare in prigione, cioè prima della fine del marzo 1979. Nei diciotto anni passati in prigione (dal 1979, quando aveva ventinove anni, al 1997, quando ne aveva quarantasette, con un intervallo di pochi mesi nel 1993-94), assai di rado Wei ha avuto a disposizione dei libri. Se ha potuto scrivere veri e propri saggi storici e politici, lo ha fatto grazie a una capacità di concentrazione e a una memoria che i suoi conoscenti non esitano a definire portentosa. Wei ha anche aggiunto di aver ricordato (e citato) quel racconto perché durante la sua detenzione era stato molto attento a non fare la fine del prigioniero di Zweig.
Quanto ad Acheng, non sono in grado di dire se conoscesse il racconto di Zweig: appena possibile, cercherò di saperlo.
Nella seconda metà degli anni Venti erano stati tradotti in cinese alcuni racconti di Zweig (La governante e poi gli altri racconti contenuti in Storia nel crepuscolo) e la biografia di Romain Rolland. Seguirono, entro il 1949, altre biografie (quelle di Tolstoj, Dostoevskij, Hölderlin) e altri racconti, come Lettera di una sconosciuta e Amok. Dopo di allora le traduzioni si diradarono (comparve tuttavia nel 1956 Ventiquattr'ore nella vita di una donna), e la popolarità di Zweig condivise con quella di altri scrittori un declino (accentuatosi negli anni della rivoluzione culturale) legato alle polemiche contro la letteratura decadente, al dogmatismo, all'influenza culturale dell'URSS e della DDR, al successo accademico e partitico delle teorie di Lukács.
La ripresa seguì di poco la fine della rivoluzione culturale, e fu segnata proprio dalla traduzione della Novella degli scacchi, seguita nel 1979 da quella di altri racconti. Protagonista di questa rinascita, presto accompagnata da un notevole successo di pubblico, fu Zhang Yushu, professore di letteratura tedesca e studioso e traduttore soprattutto di Zweig.

* Gianni Sofri ha insegnato per molti anni presso le università di Bologna e Sassari. Tra i suoi libri: Il modo di produzione asiatico (Einaudi, 1969), tradotto in Spagna, Brasile, Germania, Svezia; Gandhi e Tolstoj (in collaborazione con Pier Cesare Bori, Il Mulino, 1985); Gandhi in Italia (Il Mulino, 1988); Gandhi e l'India (Giunti, 1995), tradotto in Francia, Stati Uniti e Regno Unito. Ha curato un Corso di geografia per l'editore Zanichelli. Ha collaborato e collabora a numerosi giornali e riviste sui temi della politica internazionale, diritti umani, didattica della storia e della geografia.
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