Prigionieri torturati con i cani. Raìs che spadroneggiano. Stillicidio di soldati uccisi. Le “prove generali” di Bagdad sembrano state fatte a Kabul.
Prigionieri nudi, legati e derisi dalle donne soldato. Raìs locali che
fanno saltare gli accordi e rifiutano di disarmare le milizie. Soldati della
coalizione uccisi senza sosta. Si parla di Iraq, ma le prove generali di un'operazione
militare che doveva essere rapida ed efficiente e che invece si è distesa
in una crisi lunga e sfilacciata, c'erano già state. Poco tempo prima:
in Afghanistan. E sono ancora in corso. Stesso corredo di carceri stracolme
ai margini delle leggi internazionali (il comandante americano a Kabul, David
Barno, ha appena incaricato un generale suo pari grado di controllare «da
cima a fondo» le prigioni Usa in Afghanistan, promettendo di rendere note
«parti» del rapporto finale); di stillicidio di militari della coalizione
e di uomini delle forze locali, di attentati che sfuggono di mano e distruggono
scuole elementari; di amministrazioni centrali che stentano a decollare per
le antiche divisioni tra clan e tribù. Con cifre complessive meno drammatiche
di quelle che arrivano da Bagdad. Ma con un'aggravante, che non può essere
trascurata: il traffico di droga, mai stato così florido.
Tutto questo è l'Afghanistan oggi. A quasi tre anni dalla «liberazione»
dal regime talebano. Il segno che qualcosa, a Kabul come a Bagdad, è
andato storto e non è ancora tornato nei binari. Qualche segnale di ripresa,
forse, si vede. Potrebbero indicarlo le scarpe col tacco alla moda occidentale
che sbucano ora dai burqa, come scrive su il manifesto Valentino Parlato, il
cui «entusiasta» (da pacifista) reportage sul dopoguerra a Kabul
è stato subito ripreso con ironia da Andrea Marcenaro sul quotidiano
il Foglio.
Mettiamo in ordine i fatti. L'ultimo Afghanistan prende forma nell'autunno 2001.
L'11 settembre, dopo la strage, gli Stati Uniti reagiscono contro il Paese che
dei terroristi di al Qaeda è stato l'immenso campo di addestramento:
l'Afghanistan del regime talebano. Il 13 novembre i mujaheddin dell' Alleanza
del Nord, la milizia anti-talebana sostenuta dagli Usa, entrano a Kabul: è
la fine del regime, anche se la battaglia continua in altre zone del Paese (più
dura da espugnare la roccaforte degli «studenti del Corano», Kandahar).
Ma si può cominciare a parlare di governo provvisorio, guidato da Hamid
Karzai. E di ricostruzione. Nonché di strutture in cui stipare presunti
terroristi, guerriglieri e criminali comuni che la coalizione anti-talebani
sta cominciando ad accumulare. Lo scandalo delle prigioni irachene parte da
qui. Dall'organizzazione carceraria che viene messa a punto con la guerra in
Afghanistan. L'istituzione delle celle di Guantànamo, nella base americana
a Cuba, innanzi tutto. I primi 20 talebani vi arrivano nel gennaio 2002. Ora
se ne contano 600: negato lo status di «prigionieri di guerra» che
implicherebbe l'applicazione della Convenzione di Ginevra, ancora nessuna incriminazione.
E poi le carceri allestite via via sul territorio afghano. Una più grande
nella base area di Bagram, vicino a Kabul. E altre accanto alle città
principali. Alcune, se è possibile, «più segrete»
delle altre perché gestite prevalentemente dagli uomini della Cia. Il
conteggio esatto è impossibile: sarebbero una ventina, ma già
questa incertezza, denunciano le organizzazioni per i diritti umani, la dice
lunga sulle violazioni delle leggi internazionali che rappresentano. Human Rights
Watch va anche oltre: in un rapporto diffuso a marzo mette insieme le testimonianze
raccolte a partire dal 2003. Il risultato ricorda da vicino le fotografie scattate
in Iraq: arresti arbitrari, raid condotti con dispiego di mezzi senza preoccuparsi
delle vittime «collaterali», interrogatori violenti e umilianti,
luci accecanti di notte, secchiate d'acqua gelida, i prigionieri denudati e
derisi dalle donne soldato. Interpellato da Human Rights Watch uno dei portavoce
di Bagram, Roger King, ammette: «Costringiamo la gente a stare in piedi
per molto tempo. La privazione del sonno è considerata una maniera effettiva
per ridurre l'inibizione della gente a parlare o la loro resistenza agli interrogatori».
Di abusi e umiliazioni ha parlato anche Sayed Nabi Siddiqi, cittadino afghano
detenuto a Gardez nell'agosto 2003, in un articolo appena pubblicato del New
York Times: «Mi prendevano in giro, facevano domande volgari, tipo: con
quali animali vorresti avere rapporti sessuali». Gli toccavano i genitali,
ha aggiunto, lo picchiavano.
In realtà, scrive il settimanale tedesco Stern, i soldati americani avrebbero
avuto precisi ordini da parte dei loro superiori di sottoporre i detenuti in
Afghanistan a una tortura «leggera» (così chiamata nel gergo
interno). L'uso dei cani per intimidire i prigionieri e le minacce continue
sarebbero stati previsti da documenti ufficiali militari Usa (pubblicati nell'inchiesta)
affissi in una base del Sud-Est dell'Afghanistan, che esplicitamente permettevano,
durante gli interrogatori, il «sovraccarico sensoriale» (uso di
forti rumori per stordire i prigionieri), «forti sbalzi di temperatura»
e la minaccia di «trasferimento a Guantànamo». Pure il generale
Usa John Abizaid ha ammesso al Senato di Washington che abusi sono stati commessi
anche in Afghanistan, negando però un «disegno complessivo».
Sembra l'Iraq. Così come non molto lontane dagli scenari iracheni sono
le divisioni tra chi dovrà gestire il Paese. Karzai fatica a far accettare
al «signore della guerra» Ismail Khan - per esempio - la necessità
di disarmare almeno in parte la sua milizia che controlla la regione occidentale
di Herat. E gli attentati alle forze della coalizione non si sono fermati, al
punto che il conteggio Usa dei morti ha superato quota 120.
C'è comunque un dato che da solo indica uno scarso controllo del territorio:
l'aumento esponenziale del traffico di droga. Dal dopo-talebani, la coltivazione
del papavero da oppio è cresciuta di 20 volte: 3,6 tonnellate, il 77%
della produzione mondiale, la metà del pil afghano. E le prospettive
non sono incoraggianti: secondo l'Onu, un coltivatore su tre conta di aumentare
presto il raccolto.