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Iraq? No, Afghanistan

Alessandra Coppola

Corriere della Sera – Magazine, 27 maggio 2004

Prigionieri torturati con i cani. Raìs che spadroneggiano. Stillicidio di soldati uccisi. Le “prove generali” di Bagdad sembrano state fatte a Kabul.

Prigionieri nudi, legati e derisi dalle donne soldato. Raìs locali che fanno saltare gli accordi e rifiutano di disarmare le milizie. Soldati della coalizione uccisi senza sosta. Si parla di Iraq, ma le prove generali di un'operazione militare che doveva essere rapida ed efficiente e che invece si è distesa in una crisi lunga e sfilacciata, c'erano già state. Poco tempo prima: in Afghanistan. E sono ancora in corso. Stesso corredo di carceri stracolme ai margini delle leggi internazionali (il comandante americano a Kabul, David Barno, ha appena incaricato un generale suo pari grado di controllare «da cima a fondo» le prigioni Usa in Afghanistan, promettendo di rendere note «parti» del rapporto finale); di stillicidio di militari della coalizione e di uomini delle forze locali, di attentati che sfuggono di mano e distruggono scuole elementari; di amministrazioni centrali che stentano a decollare per le antiche divisioni tra clan e tribù. Con cifre complessive meno drammatiche di quelle che arrivano da Bagdad. Ma con un'aggravante, che non può essere trascurata: il traffico di droga, mai stato così florido.
Tutto questo è l'Afghanistan oggi. A quasi tre anni dalla «liberazione» dal regime talebano. Il segno che qualcosa, a Kabul come a Bagdad, è andato storto e non è ancora tornato nei binari. Qualche segnale di ripresa, forse, si vede. Potrebbero indicarlo le scarpe col tacco alla moda occidentale che sbucano ora dai burqa, come scrive su il manifesto Valentino Parlato, il cui «entusiasta» (da pacifista) reportage sul dopoguerra a Kabul è stato subito ripreso con ironia da Andrea Marcenaro sul quotidiano il Foglio.
Mettiamo in ordine i fatti. L'ultimo Afghanistan prende forma nell'autunno 2001. L'11 settembre, dopo la strage, gli Stati Uniti reagiscono contro il Paese che dei terroristi di al Qaeda è stato l'immenso campo di addestramento: l'Afghanistan del regime talebano. Il 13 novembre i mujaheddin dell' Alleanza del Nord, la milizia anti-talebana sostenuta dagli Usa, entrano a Kabul: è la fine del regime, anche se la battaglia continua in altre zone del Paese (più dura da espugnare la roccaforte degli «studenti del Corano», Kandahar). Ma si può cominciare a parlare di governo provvisorio, guidato da Hamid Karzai. E di ricostruzione. Nonché di strutture in cui stipare presunti terroristi, guerriglieri e criminali comuni che la coalizione anti-talebani sta cominciando ad accumulare. Lo scandalo delle prigioni irachene parte da qui. Dall'organizzazione carceraria che viene messa a punto con la guerra in Afghanistan. L'istituzione delle celle di Guantànamo, nella base americana a Cuba, innanzi tutto. I primi 20 talebani vi arrivano nel gennaio 2002. Ora se ne contano 600: negato lo status di «prigionieri di guerra» che implicherebbe l'applicazione della Convenzione di Ginevra, ancora nessuna incriminazione.
E poi le carceri allestite via via sul territorio afghano. Una più grande nella base area di Bagram, vicino a Kabul. E altre accanto alle città principali. Alcune, se è possibile, «più segrete» delle altre perché gestite prevalentemente dagli uomini della Cia. Il conteggio esatto è impossibile: sarebbero una ventina, ma già questa incertezza, denunciano le organizzazioni per i diritti umani, la dice lunga sulle violazioni delle leggi internazionali che rappresentano. Human Rights Watch va anche oltre: in un rapporto diffuso a marzo mette insieme le testimonianze raccolte a partire dal 2003. Il risultato ricorda da vicino le fotografie scattate in Iraq: arresti arbitrari, raid condotti con dispiego di mezzi senza preoccuparsi delle vittime «collaterali», interrogatori violenti e umilianti, luci accecanti di notte, secchiate d'acqua gelida, i prigionieri denudati e derisi dalle donne soldato. Interpellato da Human Rights Watch uno dei portavoce di Bagram, Roger King, ammette: «Costringiamo la gente a stare in piedi per molto tempo. La privazione del sonno è considerata una maniera effettiva per ridurre l'inibizione della gente a parlare o la loro resistenza agli interrogatori». Di abusi e umiliazioni ha parlato anche Sayed Nabi Siddiqi, cittadino afghano detenuto a Gardez nell'agosto 2003, in un articolo appena pubblicato del New York Times: «Mi prendevano in giro, facevano domande volgari, tipo: con quali animali vorresti avere rapporti sessuali». Gli toccavano i genitali, ha aggiunto, lo picchiavano.
In realtà, scrive il settimanale tedesco Stern, i soldati americani avrebbero avuto precisi ordini da parte dei loro superiori di sottoporre i detenuti in Afghanistan a una tortura «leggera» (così chiamata nel gergo interno). L'uso dei cani per intimidire i prigionieri e le minacce continue sarebbero stati previsti da documenti ufficiali militari Usa (pubblicati nell'inchiesta) affissi in una base del Sud-Est dell'Afghanistan, che esplicitamente permettevano, durante gli interrogatori, il «sovraccarico sensoriale» (uso di forti rumori per stordire i prigionieri), «forti sbalzi di temperatura» e la minaccia di «trasferimento a Guantànamo». Pure il generale Usa John Abizaid ha ammesso al Senato di Washington che abusi sono stati commessi anche in Afghanistan, negando però un «disegno complessivo».
Sembra l'Iraq. Così come non molto lontane dagli scenari iracheni sono le divisioni tra chi dovrà gestire il Paese. Karzai fatica a far accettare al «signore della guerra» Ismail Khan - per esempio - la necessità di disarmare almeno in parte la sua milizia che controlla la regione occidentale di Herat. E gli attentati alle forze della coalizione non si sono fermati, al punto che il conteggio Usa dei morti ha superato quota 120.
C'è comunque un dato che da solo indica uno scarso controllo del territorio: l'aumento esponenziale del traffico di droga. Dal dopo-talebani, la coltivazione del papavero da oppio è cresciuta di 20 volte: 3,6 tonnellate, il 77% della produzione mondiale, la metà del pil afghano. E le prospettive non sono incoraggianti: secondo l'Onu, un coltivatore su tre conta di aumentare presto il raccolto.