Teheran - Ci sono tutti, stamani, nel tribunale Dadsaraay-e-Omouni di Teheran,
i riformatori che erano stati spazzati dalla scena politica alle elezioni di
febbraio. C'è il teologo Mohsen Kadivar, un hojatoleslam che ha osato
invocare la separazione di Stato e Moschea. C'è l'ex viceministro degli
Interni Mostafa Tajzadeh, che inutilmente aveva cercato di convincere il presidente
Khatami a dimettersi di fronte alla resistenza dei conservatori contro ogni
iniziativa riformatrice. Ci sono deputati che hanno visto infrangersi il sogno
di salvare con le riforme l'utopia della rivoluzione islamica e che coraggiosamente
avevano scritto a Khamenei, chiedendogli di rinunciare a quel potere assoluto
che è il nodo centrale della contraddizione tra islam e democrazia nella
Repubblica islamica dell'Iran. C'è Ebrahim Yazdi, leader storico del
Movimento iraniano per la libertà e ministro degli Esteri nel primo governo
provvisorio dopo la rivoluzione che Khomeini affidò a Bazargan.
Sono venuti a testimoniare la loro solidarietà con Hashem Aghajari, storico
e professore universitario, condannato a morte per apostasia e blasfemia per
un discorso che fece due anni fa a Hamedan. Dopo quel discorso fu portato davanti
a un giudice per un processo simile a quello dei giudici dell'Inquisizione a
Giordano Bruno. «Aghajari è peggio di Salam Rushdie» disse
il giudice. Aveva colpito gli ultrà religiosi nel punto più sensibile:
il monopolio dell'interpretazione del Corano. «I mullah hanno negato agli
altri il diritto di avvicinarsi al Corano, dicendo che bisogna conoscere i 101
metodi, ma gli uomini non sono scimmie, non devono seguire ciecamente i leader
religiosi», aveva detto. Fu condannato alla pena di morte, più
74 frustate, 8 anni di esilio in provincia e 10 anni di interdizione dall'insegnamento.
In attesa dell'inizio del dibattimento, la madre di Aghajari racconta le sofferenze
della famiglia durante quei dieci mesi in cui il figlio fu tenuto in isolamento,
senza che nessuno potesse avere contatti con lui. Nessuno doveva parlargli,
nemmeno i secondini. Quando veniva portato nel cortile a prendere aria, doveva
passare per un corridoio speciale da cui non si vedono esseri umani. Lei, con
la figlia e la nuora, ha lottato disperatamente in questi due anni perché
la sentenza fosse revocata. Ma neanche ora che è stata revocata Aghajari
tornerà a casa. Dovrà rispondere di altre accuse, che apparivano
insensate accanto alla pena di morte, ma che non lo sono affatto per gli astuti
mullah: le accuse di «insulti all’islam» e di «diffusione
di notizie per confondere la mente della gente» comportano fino a dieci
anni di detenzione. Confondere, aveva ricordato il giudice che l'aveva paragonato
a Rushdie, è opera del diavolo.
I conservatori che si sono ripresi tutto il potere a Teheran e mirano ad attrarre
gli investimenti stranieri per realizzare il cosiddetto «modello cinese»
- un forte sviluppo economico in un sistema autocratico - hanno voluto evitare
una condanna a morte che avrebbe provocato un'eco negativa nel mondo. Tengono
a far vedere che la revisione del processo a Teheran si svolge nel più
civile dei modi. Con un giudice moderato e alla presenza del pubblico. L'udienza
si terrà a porte aperte, avevano annunciato i giornali. Porte aperte
all'iraniana, s'intende. Infatti l'aula è cosi minuscola che contiene
solo un pugno di amici e di membri della famiglia.
Poco prima che l'udienza abbia inizio arrivano urla di «morte ai rinnegati»
e irrompono al secondo piano del tribunale una trentina di picchiatori con cartelli
in cui chiedono la morte di Aghajari. Nessuno li ha fermati. Eppure nessuno
di noi è passato senza sottostare a diversi controlli, abbandonando per
via telefonini e registratori. Il giudice opta per un compromesso: fa entrare
quattro di loro, mentre gli altri hanno il permesso di restare nell'anticamera.
Devono uscire la moglie e la figlia di Aghajari (tanto ci sono già la
madre e la sorella, dice il giudice) e solo più tardi potranno rientrare.
Accolto dalle urla dei picchiatori e dagli applausi degli amici, è entrato
intanto nell'aula l'imputato. Sembra l'ombra di se stesso, terreo, magrissimo,
anche se lo spirito è combattivo. È vestito di una specie di impermeabile
chiaro: ha sempre rifiutato la divisa del carcere così come rifiuta di
chiedere la grazia. Dice che per tutta la settimana i telefoni del carcere di
Evin sono rimasti isolati così che nessuno l'aveva potuto avvertire che
l'udienza si sarebbe tenuta oggi. Racconta di aver passato notti insonni e che
solo stamani, quando era appena riuscito ad addormentarsi, le guardie gli avevano
detto che doveva venire in tribunale a pronunciare la sua difesa.
Tra le accuse di cui deve rispondere è di aver citato la famosa frase
di Marx: la religione è l'oppio dei popoli. «Ho detto, risponde,
che nell'islam moderno c'è un rischio di fondamentalismo, come si vede
nei taliban e in Osama bin Laden, un fondamentalismo che potrebbe dar ragione
a Marx facendo diventare la religione l'oppio dei popoli e dei governi».
Lo accusano anche di aver detto che l'islam è incompatibile con la democrazia.
«Come avrei potuto dir questo se ero allora un riformista, e lottavo per
riformare la repubblica islamica?» ribatte. Sembra di capire che adesso
non lo sia più. Ma ogni volta che il discorso tocca il ruolo della religione
nella politica, l'avvocato Nikhbatlo guarda preoccupato e si precipita a passargli
un piccolo memo, mentre lo stesso giudice lo interrompe: non divaghi, si attenga
alle accuse.
Il processo deve servire a far credere al mondo che in Iran, fatto salvo qualche
incidente (come l'uccisione della giornalista irano-canadese Zahra Kazemi) i
diritti umani vengono più o meno rispettati. Inutilmente le organizzazioni
per i diritti umani condannano l'uso della tortura, le pene arbitrarie e sproporzionate.
Nessuno ci ha mai fatto molto caso. Prima perché tutti avevano sperato
che Khatami cambiasse qualcosa (e c'era riuscito in parte all'inizio, prima
che i conservatori reagissero); e poi perché l'Iran è un paese
dove la repressione è totalmente arbitraria ma non è sistematica
come in altri regimi totalitari.
Gli iraniani non sanno mai che cosa è permesso e che cosa non lo è,
e questo fa sembrare la repressione meno dura ma in verità dà
al regime un vasto spazio di manovra. Alcune leggi non vengono mai applicate,
alcuni oppositori vengono lasciati liberi mentre altri finiscono in carcere
a tempo indefinito: come quello studente, Ahmad Batebi, che ebbe la sfortuna
di finire sulla copertina dell'Economist nel 1999, mentre mostrava la maglietta
insanguinata di un compagno attaccato dai picchiatori, e da allora non è
più uscito di carcere. Gli studenti, che due anni fa avevano protestato
per mesi contro la condanna di Aghajari, ormai hanno abbandonato la battaglia.
Non c'era nessuno di loro al processo. I giovani iraniani o studiano accanitamente,
nella speranza di andare all'estero, oppure si rifugiano nella droga, nell'alcool,
nel sesso o in ogni tipo di divertimento proibito. Ci sono due milioni di tossicodipendenti
ufficiali e ogni giovedì sera (il loro sabato) i morti per incidenti
stradali sono decine.