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Gli otto punti dolenti della scuola in carcere

Edoardo Albinati *

Treccani scuola

Insegnare in galera è un'opera contraddittoria.
Quasi tutti i docenti carcerari, a scambiarci poche parole - magari davanti al distributore automatico di caffè, durante quella parodia di ricreazione che segna all'incirca la metà dell'orario scolastico -, appaiono stremati, scettici, spesso sarcastici sul loro lavoro, e al tempo stesso stranamente orgogliosi, con punte che sfiorano un idealismo di annata. Sulle loro lamentele di rito e sul nervosismo professionale (causato solo in parte dai troppi bicchierini di pessimo caffè) si potrebbe sorvolare, visto che derivano dalle magagne delle due istituzioni inscatolate l'una nell'altra in cui si trovano a lavorare: scuola+carcere. Figurarsi come i guai si addizionano e potenziano. A chi conosce la scuola perché ci studia, ci insegna o ci ha i figli (cioè buona parte degli italiani) è inutile spiegare quali sono. Siccome del carcere si sa meno, molto meno, passiamo brevemente in rassegna alcuni punti dolenti che rendono il fatto di lavorarci tanto complicato.

Otto punti dolenti

1. Carenza di spazi, materiali didattici e mezzi. È il problema cronico di quasi tutte le scuole in galera. Si deve prima di tutto agli ambienti inospitali, mal costruiti e disumani che sono i penitenziari italiani, quelli di recente edificazione (le cosiddette carceri d'oro) peggio ancora delle vecchie fortezze. Nei reparti dove ha sede una scuola ci si contende gli spazi angusti per poter aprire una nuova aula e farla funzionare. Normalmente si tratta di celle male illuminate e con un'acustica pessima, da sgolarsi, in mezzo ai rumori della vita reclusa (urla, sbattimento di cancelli, megafoni ecc.). Ci si svolgono attività a rotazione. Due carte geografiche e una lavagnetta completano l'arredamento. L'acquisto di libri e di materiali didattici è sporadico. E questo perché l'insegnamento cade giusto a metà tra le competenze della scuola e del carcere, viene rimpallato di qua e di là, quindi è ora l'una ora l'altra istituzione a finanziare gli acquisti - ma il più delle volte nessuna delle due, perché non ci sono soldi. Del resto, se i detenuti sono ammassati in quattro o in sei o in otto nelle loro celle, come si può pretendere di avere un ambiente dignitoso dove fargli scuola? E le lezioni vengono condotte con l'ausilio di una singolare collezione di testi spaiati.

2. L'accesso dei detenuti alle lezioni è ridotto. Anche in penitenziari affollati con un grande bacino di potenziali studenti, quelli che frequentano sono una minoranza. I numeri spesso risicati pongono le classi di scuola carceraria a rischio di chiusura. Le ragioni sono di ordine logistico e burocratico. In molti casi, se un detenuto studia, non può ottenere un lavoro; quando un detenuto, viene obbligato a scegliere è naturale che scelga il lavoro, una chance rarissima e che non si presenta due volte, in galera. Verso la scuola l'istituzione carceraria ha un atteggiamento ambivalente: da una parte le necessità scolastiche (per esempio, gli spostamenti interni degli studenti verso le celle adibite ad aule, a orari fissi) comportano carichi di lavoro supplementare per gli agenti; il fatto che durante le lezioni si crei dell'intimità umana e intellettuale tra detenuti e docenti viene spesso malvisto o rimproverato o invidiato, e gli studenti in qualche misura considerati dei 'privilegiati'. D'altra parte però la scuola torna utile al carcere perché rappresenta una delle pochissime attività trattamentali degne di questo nome. Il carcere ha un disperato bisogno d'impiegare in qualche modo l'immensa quantità di energia umana inutilizzata e altrimenti priva di sfogo.

3. Tra gli studenti c'è un'alta percentuale di abbandono, dovuta a: perdita di interesse, trasferimento da carcere a carcere, processi, incompatibilità con gli orari imposti dal carcere o con altre attività considerate più convenienti, scarcerazione, malattia, autolesionismo, morte.

4. Un insegnante si ritrova in classe la gente più disparata del mondo e deve trovare un comune denominatore. I livelli culturali, l'estrazione sociale e geografica, le competenze, l'età, i percorsi scolastici, le tipologie caratteriali e dei reati commessi sono incredibilmente disomogenei (questo però, oltre che un problema, è anche uno degli aspetti più 'challenging' del lavoro). Un insegnante si ritrova in classe la gente più disparata del mondo e deve trovare un comune denominatore.

5. I docenti sono costretti a coprire infiniti ruoli di supplenza. Per la carenza oggettiva di qualsiasi supporto i docenti sono costretti a coprire infiniti ruoli di supplente. Un professore in prigione deve improvvisarsi medico, terapeuta, scrivano, guardia, prete, assistente sociale, psicologo, mamma, avvocato, e può pericolosamente diventare tutte queste figure a scapito di quella per cui viene effettivamente pagato. È spesso una drammatica questione di priorità: se ho uno studente in crisi, debbo insistere a insegnargli le equazioni di secondo grado oppure ascoltare il suo sfogo e magari impedire che stanotte, in cella, provi a impiccarsi?

6. Il parere degli insegnanti conta poco o nulla nelle decisioni importanti riguardo la detenzione. Ciò malgrado che gli insegnanti siano di gran lunga le persone che conoscono meglio i detenuti-studenti, dato che trascorrono mesi e anni insieme a loro il loro parere conta poco o nulla quando si tratta di prendere decisioni importanti riguardo la detenzione. A giudicare se un detenuto potrà, per esempio, ottenere benefici e sconti di pena saranno persone che lo hanno visto e ci hanno parlato sì e no una volta. Su questo tema dell'irrilevanza dei docenti si fronteggiano due 'scuole di
pensiero': la prima che vorrebbe che il ruolo 'trattamentale' della scuola venisse riconosciuto e la figura dell'insegnante inserita nell'équipe decisionale; la seconda che considera pericolosa e snaturante questa ipotesi (chi scrive la pensa così: meglio essere irrilevanti ma liberi di esercitare la propria funzione senza venire assimilati all'istituzione).

7. Il carcere rimane nella sua essenza un'istituzione punitiva. Tra i suoi scopi sociali dichiarati vi è la deterrenza, cioè la paura che può incutere l'idea di finirci rinchiusi. Con questo fatto incontrovertibile come si misura un'attività che dovrebbe invece far maturare e progredire chi la esercita? Come si conciliano afflizione e istruzione?

8. Il rischio dell'abbellimento. Questo riguarda qualsiasi iniziativa culturale all'interno delle prigioni. Scuola, teatro, concerti, letture, corsi di fotografia o di questo e di quello, rischiano sempre di dare all' esterno un'idea positiva della vita carceraria e dunque di contribuire a una mistificazione, a una conveniente ipocrisia. Ecco il paradosso: ogni volta che si organizza qualcosa per rendere meno squallida e inutile la vita delle persone recluse, in qualche misura si contribuisce a lasciare inevasi i problemi strutturali, quasi mascherandoli con qualche risultato di cui immancabilmente l'istituzione si farà bella, per dimostrare che 'va tutto bene' . Abbiamo le scuole, il cineforum, il concorso di poesia, che volete di più? Talvolta gli insegnanti hanno la sensazione di stare dando una mano di vernice su un muro marcio e screpolato. Mentre forniscono il loro servizio, insegnando inglese o chimica o geografia in un'aula dove si può avere la sensazione che gli altri problemi siano sospesi - tutt'intorno, invece, implacabile, si perpetua la realtà disumana dello stato di abbandono e di ozio in cui versa il 90% dei detenuti, la pratica degli abusi e dei maltrattamenti, l'inesistenza dei rapporti affettivi, la diffusione capillare della droga e degli psicofarmaci utilizzati per mantenere l'ordine e sedare le coscienze, l'autolesionismo, l'illegalità sistematica, mentre i detenuti continuano ad ammalarsi e a morire per il disservizio e, insomma, esplode tutta l'assurdità della detenzione come risposta unica e pervasiva alla devianza sociale. In queste condizioni: insegnare cosa? a che scopo? con quale ricaduta sull'intero mondo recluso?

Il carcere come insegnamento in condizioni limite
Nascosto nel cuore di questi punti problematici, di queste contraddizioni fortissime, sta anche il perché dell'orgoglio o puntiglio o dedizione che si possono riscontrare negli insegnanti di prigione, persino in quelli logorati da anni di mestiere: per usare il linguaggio della galera, i 'recidivi'. In fondo non hanno niente di diverso da quelli che lavorano fuori. Lo stesso grumo di passione e delusione, la medesima sensazione di vivere al tempo stesso una disgrazia e un privilegio. Anzi, si potrebbe pensare che la scuola in carcere non sia altro che un laboratorio dove si sperimentano i criteri essenziali dell'insegnamento. Costretta a lavorare in condizioni limite, di estremo disagio, e sollecitate alle massime tensioni, la scuola mette alla prova sé stessa, i suoi metodi, i suoi materiali, i suoi uomini. Bisognerebbe esportare i risultati dell'
esperimento: quel che fallisce va abbandonato (per esempio, certi programmi ministeriali), quello che resiste alle altissime temperature o agli inverni carcerari, forse potrà funzionare anche fuori.

* scrittore con anni di esperienza di insegnamento in carcere.
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