Disseminati in tutto il globo, ecco i "presidi della extraterritorialità",
le discariche per i rifiuti non smaltiti e ancora non riciclati della terra
di frontiera globale.
Per tutti i duecento anni di storia moderna, si è sempre dato per scontato
che tutti coloro che non riuscivano a trasformarsi in cittadini - rifugiati,
emigranti volontari o coatti, profughi tout court - fossero un problema dei
paesi ospitanti e come tali sono stati trattati.
Pochi o nessuno degli stati nazionali presenti sulle moderne carte geografiche
erano altrettanto autoctoni, "locali", in senso demografico di quanto
lo fossero nell'esercizio delle loro prerogative sovrane. A volte di buon grado,
altre volte a denti stretti, tutti hanno dovuto accettare la presenza di estranei
nel proprio territorio, e tutti hanno dovuto accettare le varie ondate di immigrati
in fuga o cacciati dalle terre di altri stati nazionali sovrani. Una volta entrati,
gli stranieri ricadevano sotto la completa ed esclusiva giurisdizione del paese
ospitante, il quale era libero di applicare le versioni aggiornate, modernizzate,
delle due strategie descritte da Claude Lévi-Strauss in Tristi tropici
quali modi possibili di affrontare la presenza di stranieri: quando si sceglie
di ricorrere a tali strategie si può contare sul pieno sostegno di tutti
gli altri poteri sovrani del pianeta, ansiosi di preservare l'inviolabilità
della trinità territorio/stato/nazione.
Le due possibili soluzioni al problema degli stranieri erano quella antropofagica
e quella antropoemica. La prima consisteva nel "divorare gli stranieri":
o mangiandone letteralmente la carne - il cannibalismo invalso presso certe
antiche tribù - oppure in senso più sublimato e metaforico, come
nell'opera (assistita dal potere) di assimilazione portata avanti pressoché
universalmente dagli stati nazionali, di modo che gli stranieri venissero fagocitati
nel corpo nazionale e cessassero di esistere in quanto stranieri. La seconda
consisteva invece nel "rigettare gli stranieri" anziché divorarli:
vale a dire rastrellarli ed espellerli (proprio come Oriana Fallaci - la formidabile
giornalista e opinionista italiana - ha affermato noi europei dovremmo fare
con tutti coloro che adorano altre divinità ed esibiscono sconcertanti
abitudini igienico-sanitarie) o dai confini del potere statale o dal mondo degli
esseri viventi.
Osserviamo tuttavia che il perseguire l'una o l'altra delle due soluzioni aveva
senso solo in virtù di un duplice presupposto: una netta divisione territoriale
tra il "dentro" e il "fuori" e la completa e indivisibile
sovranità del potere di scelta della strategia all'interno di quel regno.
Oggi, nel nostro mondo globale liquido-moderno, nessuno dei due presupposti
gode più di alcuna credibilità, e quindi le possibilità
di porre in atto l'una o l'altra delle due strategie ortodosse è, a dir
poco, remota.
Ora che i modi di agire collaudati non sono più disponibili, sembra che
non abbiamo più una buona strategia per gestire i nuovi arrivati. In
un'epoca in cui nessun modello culturale può proclamare autorevolmente
ed efficacemente la propria superiorità sul modelli antagonisti, e in
cui il processo di costruzione della nazione e la mobilitazione patriottica
non sono più i principali strumenti di integrazione sociale e di affermazione
statale, l'assimilazione culturale non è più un'opzione praticabile.
Poiché deportazioni ed espulsioni sono oggetto di drammatici reportage
televisivi ed è probabile che scatenino una pubblica protesta e ledano
le credenziali internazionali di chi le perpetra, i governi preferiscono tenersi
lontano dai guai sbarrando le porte a quelli che bussano in cerca di riparo.
L'attuale tendenza di ridurre drasticamente il diritto all'asilo politico, accompagnata
dal ferreo divieto d'ingresso agli "immigranti economici" (eccezion
fatta per i pochi e transitori momenti in cui le aziende minacciano di trasferirsi
dove c'è forza lavoro, a meno che non sia la forza lavoro a essere trasferita
dove vogliono le aziende), non indica affatto una nuova strategia nel riguardi
del fenomeno dei profughi, ma solo l'assenza di una strategia e il desiderio
di evitare una situazione in cui tale assenza possa causare imbarazzo politico.
In queste circostanze, l'assalto terroristico dell' 11 settembre è stato
un enorme regalo ai politici. In aggiunta alle solite accuse di vivere alle
spalle del paese e di rubare posti di lavoro, o di introdurre nel paese malattie
da tempo dimenticate come la tubercolosi o altre di fresca invenzione come l'HIV,
ora gli immigrati vengono accusati di svolgere il ruolo di "quinta colonna"
della rete terroristica globale. FInalmente, c'è un motivo "razionale"
e moralmente inattaccabile per rastrellare, incarcerare e deportare persone
allorché non si sa più come gestirle e non ci si vuole prendere
il disturbo di trovare un modo nuovo per farlo. Negli Stati Uniti, e subito
dopo in Gran Bretagna sotto lo slogan della "campagna antiterroristica",
gli stranieri sono stati immediatamente privati dei fondamentali diritti umani
che fino a oggi avevano resistito a tutte le vicissitudini della storia sin
dai tempi della Magna Carta e dell'habeas corpus. Oggi lo straniero può
essere trattenuto in stato di fermo a tempo indefinito con accuse dalle quali
non può difendersi, dal momento che non gli viene neanche detto quali
siano. Come Martin Thomas osserva con sarcasmo in un drammatico ribaltamento
del principio di base della legge in un paese civile, a partire da oggi "l'onere
di provare un'accusa criminosa è un'inutile complIcazIone", almeno
per quanto riguarda i profughi stranieri.
Le porte possono anche essere sbarrate, ma il problema non si risolverà,
per quanto massicci possano essere i lucchetti. Lucchetti e catenacci non possono
certo domare o indebolire le forze che causano l'emigrazione; possono contribuire
a occultare i problemi alla vista e alla mente, ma non a farli scomparire.
E così, i profughi vengono sempre più a trovarsi sotto un
fuoco incrociato, o, più esattamente, in una duplice morsa.
Vengono cacciati a forza o indotti col terrore a lasciare il paese natio, ma
viene loro rifiutato l'ingresso in qualsiasi altra nazione. E dunque il loro
non è un semplice cambio di luogo: di fatto essi perdono un posto sulla
terra e vengono catapultati in un niente, nel "non-lieux" di Augé
o nelle "nowhereville" di Garreau, nella "Narrenschiffe"
di Michel Foucault, in un "luogo senza un luogo, che esiste di per sé,
che è racchiuso in sé e che al contempo è abbandonato all'infinità
del mare" o (come Michel Agier suggerisce in un articolo su "Ethnography")
in un deserto, quella terra per definizione disabitata, una terra che rifiuta
l'uomo e in cui l'uomo s'avventura di rado.
I profughi sono diventati, in una sorta di fotocopia caricaturale della nuova
élite di potere del mondo globalizzato, l'epitome di quella extraterritorialità
in cui affondano le radici dell'odierna precarietà della condizione umana,
la causa prima delle paure e ansie dell'uomo moderno. Tali paure e ansie, nella
vana ricerca di altri sbocchi, sono confluite in un sentimento popolare di rabbia
e paura nei confronti dei rifugiati. Paura e rabbia che non possono certo essere
dissipate in un confronto diretto con l'altra incarnazione dell'extraterritorialità:
l'élite globale che si muove e opera al di fuori di qualsiasi controllo
umano, troppo potente per potercisi confrontare. I profughi, per contro, sono
un bersaglio fisso su cui poter scaricare la traboccante angoscia...
Secondo l'Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr), ci
sono tra i 13 e i 18 milioni di "vittime di emigrazione coatta" che
tentano di sopravvivere oltre i confini dei loro paesi di origine (senza contare
i milioni di profughi "interni" in Burundi e Sri Lanka, Colombia e
Angola, Sudan e Afghanistan, condannati al vagabondaggio da infinite guerre
tribali). Di questi, oltre 6 milioni si trovano in Asia, da 7 a 8 milioni in
Africa; ci sono 3 milioni di profughi palestinesi in Medio Oriente. E si tratta
di una stima sicuramente prudente. Non tutti i profughi sono stati riconosciuti
(né se ne è chiesto il riconoscimento) come tali, e solo pochi
di essi sono stati abbastanza fortunati da vedersi inclusi nei registri dell'Unhcr
e sotto la sua protezione.
Ovunque vada, il profugo è indesiderato, e non si fa nulla per nasconderglielo.
Questi "emigranti economici" (vale a dire, persone che seguono i precetti
della "scelta razionale" e quindi tentano di guadagnarsi da vivere
ovunque ciò sia possibile anziché restare dove questa possibilità
non esiste) sono esplicitamente condannati dagli stessi governi che tentano
in tutti i modi di elevare la "flessibilità del lavoro" a principale
virtù del loro elettorato o che esortano i disoccupati locali a "pedalare"
e andare là dove il lavoro chiama. Ma il sospetto delle motivazioni economiche
tracima anche sui nuovi venuti che fino a poco tempo prima erano visti come
persone che esercitavano il loro diritto di cercare rifugio dalla discriminazione
e persecuzione. Attraverso una reiterata associazione di idee, il termine "rifugiato"
ha assunto una connotazione negativa. I governanti dell'"Unione europea"
dedicano gran parte del loro tempo e delle loro energie a elaborare sistemi
sempre più sofisticati per fortificare e sbarrare i confini a chi cerca
casa e lavoro e le procedure più adeguate per cacciare quanti riescano
nonostante ciò ad attraversarli.
Per non essere da meno, il ministro degli Interni britannico David Blunkett
ha proposto di indurre i paesi d'origine dei profughi a riprendersi i "rifugiati
politici non qualificati" minacciandoli in caso contrario di tagliare loro
gli aiuti finanziari. E questa non è stata la sua unica idea. Blunkett
intende "forzare il ritmo del cambiamento", e ha lamentato che a causa
dello scarso vigore esibito dagli altri leader europei, "i progressi in
materia sono rimasti troppo lenti". Ha auspicato la creazione di una "forza
congiunta d'intervento rapido" paneuropea e di una "task-force di
esperti nazionali" per "stilare delle valutazioni sui rischi comuni
che identifichino i punti deboli nei [(... ) confini esterni dell'Unione europea,
affrontino la questione dell'immigrazione illegale via mare e risolvano il problema
del traffico umano [il nuovo termine ideato per sostituire il concetto, un tempo
nobile, di 'passaggio'] ".
Con l'attiva cooperazione di governi e di altri personaggi pubblici che trovano
nell'opera di appoggio e fomentazione del pregiudizio comune gli unici strumenti
sostitutivi di una politica tesa ad affrontare le cause reali dell'incertezza
esistenziale che ossessiona i loro elettori, i "rifugiati" (al pari
di quanti vanno ammassandosi nelle innumerevoli Sangatte d'Europa e si preparano
all'invasione delle isole britanniche, o quanti stanno per insediarsi, a meno
che non vengano fermati, in campi prefabbricati dislocati a pochi chilometri
di distanza dalle case degli elettori) sostituiscono streghe maligne, fantasmi
di malfattori impenitenti e altri spiritelli e spauracchi vari che popolano
le leggende metropolitane. Il nuovo e sempre più diffuso folclore urbano,
con le vittime di questa opera di espulsione planetaria nel ruolo di "cattivi",
raccoglie e ricicla il mito delle storie del terrore che tanto successo hanno
riscosso in passato, un successo generato dalle insicurezze della vita urbana,
proprio come sta facendo ora.
Per quanto concerne quegli immigrati che nonostante i più ingegnosi stratagemmi
non possono essere deportati ed espulsi rapidamente, il governo propone di confinarli
in appositi campi costruiti in parti possibilmente remote e isolate del paese
(trasformando in tal modo in una profezia che si autorealizza la convinzione
che gli immigrati non vogliano o non possano essere assimilati nella vita economica
del paese), una soluzione che, osserva Gary Younge, "erige delle vere e
proprie Bantustan tutt'intorno alla campagna inglese, segrega i rifugiati in
un modo che li lascia isolati e vulnerabili". (I rifugiati, come rileva
Younge, "sono più probabilmente vittime, che non perpetratori, di
atti criminosi".)
Di questi rifugiati iscritti nel registro dell'Unhcr, in Africa l'83,2 per cento
vivono in campi, il 95,9 per cento in Asia. In Europa sino a oggi solo il 14,3
per cento dei rifugiati sono stati rinchiusi in campi. A tutt'oggi, tuttavia,
non sembra si possa sperare che questa differenza a favore dell'Europa sia destinata
a durare a lungo.
I campi profughi sono espedienti temporanei trasformati in soluzioni permanenti
mediante lo sbarramento di tutte le vie d'uscita.
Gli abitanti dei campi profughi o i rifugiati non possono tornare "da dove
sono venuti" perché i paesi da cui provengono non li rivogliono,
avendo distrutto i loro mezzi di sussistenza e bruciato o confiscato le loro
case. Ma non possono neanche andare avanti, perché nessun governo vedrebbe
di buon occhio l'afflusso nel proprio paese di milioni di senzatetto, e qualsiasi
governo farebbe di tutto per impedire ai nuovi venuti di mettere radici.
Per quanto riguarda la loro ubicazione ormai "permanentemente temporanea",
i profughi "vi abitano, ma non ne fanno parte". Non sono parte integrante
del paese sul cui territorio sono state raggruppate le loro baracche e piantate
le loro tende. Sono separati dal resto del paese che li ospita dall'invisibile
ma spesso e impenetrabile velo del sospetto e del risentimento. Sono sospesi
in un vuoto spaziale in cui il tempo si è fermato. Non sono né
fermi né in cammino, né stanziali né nomadi.
Nei termini in cui viene narrata la condizione umana dell'uomo, sono ineffabili.
Sono gli "indecidibili" di Jacques Derrida in carne e ossa. Per le
persone come noi, elogiate e pronte ad autoincensarci per le nostre capacità
di riflessione, essi sono non solo intoccabili, ma impensabili. Nel nostro mondo
di comunità immaginate, essi sono inimmaginabili. Ed è rifiutando
loro il diritto a essere immaginati che altre comunità - reali o che
tali sperano di essere - cercano di dare credibilità ai loro sforzi di
immaginazione.
Il proliferare di campi profughi è un prodotto della manifestazione
della globalizzazione, tanto integrale quanto il denso arcipelago di non-luogo
di passaggio in cui si muove la nuova élite di giramondo.
L'elemento che li unisce è l'extraterritorialità, il loro non
appartenere a nessun luogo, l'essere "dentro" ma non "parte integrante"
dello spazio che occupano fisicamente (i giramondo in una successione di momenti
riconosciutamente fugaci, i profughi in una serie di momenti estesa all'infinito).
Per quanto ne sappiamo, i non-luoghi dei campi profughi recintati, non diversamente
dal motel dei manager sovranazionali che viaggiano liberamente, potrebbero essere
le teste di ponte di un'avanzante extraterritorialità, o (in una prospettiva
più a lungo termine) i laboratori in cui la de-semantizzazione del luogo,
la fragilità e smaltibilità dei significati, la indeterminatezza
e plasticità delle identità e soprattutto la nuova perpetua transitorietà
(tutte tendenze intrinseche alla fase liquida della modernità) vengono
sperimentate in condizioni estreme e collaudate in modo simile a quello con
cui i limiti dell'arrendevolezza e sottomissione umana, e i modi di raggiungere
tali limiti, sono stati collaudati nei campi di concentramento della fase solida
della storia moderna.
Campi profughi e non-luoghi condividono questa voluta, intrinseca, pre-programmata
transitorietà. Entrambe le installazioni sono concepite e progettate
come un fossato sia nel tempo che nello spazio, una temporanea sospensione di
attribuzione territoriale e della sequenza temporale. Ma le facce che mostrano
ai rispettivi utenti/internati sono molto diverse. I due tipi di extraterritorialità
sono sedimentati, per così dire, ai poli opposti della globalizzazione.
Il primo offre la transitorietà come uno strumento scelto di propria
volontà, il secondo la rende permanente e irrevocabile, un destino ineludibile,
una differenza non diversa da quella che separa le due manifestazioni concrete
della sicura perpetuità: le comunità recintate dei ricchi che
discriminano e i ghetti dei poveri che vengono discriminati. E anche le cause
della differenza sono simili: ingressi attentamente sorvegliati e controllati
e ampie porte d'uscita a un estremo, porta d'ingresso larghissima, ma uscite
bloccate all'altro. Il blocco delle porte d'uscita in particolare che perpetua
lo stato di transitorietà senza sostituirlo con la perpetuità.
Nei campi profughi il tempo è sospeso; è tempo, ma non è
storia.
I campi profughi vantano una nuova qualità: una "transitorietà
congelata", un perpetuo, duraturo stato di temporaneità, una durata
fatta di tanti momenti rappezzati tra loro, nessuno dei quali viene vissuto
come un elemento di perpetuità e tanto meno come un contributo ad essa.
Per gli internati di un campo profughi, l'idea di effetti e conseguenze di lungo
periodo non rientra nella loro esperienza. Essi vivono - letteralmente - giorno
dopo giorno, e il contenuto della vita non è minimamente intaccato dalla
consapevolezza che i giorni si congiungono e formano mesi e anni. Come nelle
prigioni e negli "iperghetti" analizzati da Loic Wacquant, i profughi
accampati "imparano a vivere, o piuttosto a sopravvivere [(sur)vivre, giorno
dopo giorno nell'immediatezza del momento, annaspando nella disperazione che
fermenta entro le mura".
Nei campi, i profughi sono legati da una duplice corda, una protettiva e
una costrittiva.
I poteri che governano il sito su cui sono state piantate le tende e costruite
le caserme, il campo e il territorio attorno al campo, si fanno in quattro per
impedire che gli internati fuoriescano. Anche in assenza di guardie armate alle
uscite, la zona esterna al campo è, essenzialmente, off-limits per gli
internati del campo. Nella migliore delle ipotesi, è oltremodo inospitale,
popolata da gente guardinga e sospettosa pronta a notare e rinfacciare loro
qualsiasi errore vero o presunto e qualsiasi inciampo o passo falso che i profughi,
estromessi dal loro elemento, è fin troppo probabile che compiano. Nelle
terre in cui sono state piantate le loro tende temporanee/permanenti, i profughi
restano palesemente degli "estranei ", una minaccia alla sicurezza
degli "insediati" - frutto di consolidate routine quotidiane -, una
sfida alla loro comune visione del mondo e una fonte di pericoli astrusi, mai
sperimentati e non previsti dai loro consueti meccanismi di difesa .
L'incontro nativi-rifugiati è presumibiImente l'esempio più spettacolare
di "dialettica dell'insediato e dell'outsider" (dialettica che oggigiorno
sembra avere conquistato il ruolo imperante un tempo goduto dalla dialettica
del padrone e dello schiavo), illustrata per la prima volta da Elias e Scotson.
Gli "insediati", usando il loro potere di definire la situazione e
imporre la definizione di tutti quanti ne sono coinvolti, tendono a rinchiudere
i nuovi arrivati nella gabbia di ferro dello stereotipo, "una rappresentazione
fortemente semplificata delle realtà sociali". La stereotipizzazione
crea "un quadro in bianco e nero" che "non lascia spazio alla
diversità". Gli estranei sono colpevoli fino a prova contraria,
ma poiché è l'insediato che compendia in sé i ruoli di
pubblico ministero, magistrato esaminante e giudice, e che è quindi contemporaneamente
chiamato a pronunciare il capo d'imputazione, a esprimersi sulla sua fondatezza
e a sedere in giudizio, le possibilità di assoluzione sono quanto mai
remote, se non praticamente nulle. Come Ellas e Scotson hanno scoperto, quanto
più la popolazione insediata si sente minacciata, tanto più è
probabile che le sue convinzioni tendano "verso gli estremi dell'illusione
e della rigidità ideologica". E posti dinanzi a un'ondata di profughi,
gli insediati hanno tutti i motivi di sentirsi minacciati. Oltre a rappresentare
l'"ignoto" che tutti gli stranieri incarnano, i Profughi portano con
sé echi distanti di guerra e il tanfo di case sventrate e di città
rase al suolo, e tali echi non possono che rammentare all'insediato quanto facilmente
il bozzolo della routine sicura e familiare (sicura perché familiare)
possa essere infranto. Il rifugiato, come Bertold Brecht ha osservato in Die
Landscbaft des Exils, è "ein Bote des Unghicks" (un messaggero
di sventure).
Nell'avventurarsi dal campo alla cittadina adiacente i profughi si espongono
a un tipo di incertezza che è difficile da reggere dopo la quotidiana
routine della vita nel campo, stagnante e congelata. Percorsi anche pochi passi,
si ritrovano in un ambiente ostile. Il loro diritto di entrare nel "fuori"
è quanto meno dubbio e può essere contestato dal primo che passa.
Confrontato con questa giungla selvaggia che è da "fuori",
il "dentro" del campo appare un paradiso sicuro. Solo i più
intraprendenti desiderano lasciarlo per un tempo prolungato, e ancora meno sono
quanti oserebbero realizzare tale desiderio.
Volendo rifarci a Loic Wacquant, potremmo dire che i campi profughi mescolano
e fondono assieme sia i tratti distintivi del "ghetto comunitario"
d'epoca fordista-keynesiana sia l'"iperghetto" dei nostri tempi post-fordisti.
Se i "ghetti-comunità" erano totalità sociali relativamente
autonome e autoriproducentesi, con tanto di repliche in miniatura della stratificazione
in atto nella società in generale, delle sue divisioni funzionali e istituzioni
necessarie per soddisfare i bisogni della vita comunitaria, gli "iperghetti"
sono aggregazioni monche, artificiali e palesemente incomplete, aggregati ma
non comunità, condensazioni topografiche incapaci di sopravvivere con
le proprie forze. Allorché le élites uscirono dal ghetto e cessarono
di alimentare la rete di attività economiche che perpetuavano (per quanto
precariamente) i mezzi di sussistenza della popolazione del ghetto, gli enti
di amministrazione e controllo dello stato (due funzioni di norma intimamente
correlate tra loro) ne rilevarono il posto. L'"iperghetto" è
sospeso su fili che travalicano i suoi confini e di certo anche la sua capacità
di controllo. https://www.m777live.com
Nei campi profughi, come ha rilevato,Uchel Agier, i tratti dei "ghetti
comunitari" sono fittamente intrecciati agli attributi di un "iperghetto"
in una densa rete di reciproca dipendenza . Possiamo ipotizzare che una tale
combinazione stringe ancor più il nodo che lega gli internati al campo.
La corda protettiva del "ghetto comunitario" e quella costrittiva
dell'"iperghetto", per quanto potenti possano essere entrambe, si
sovrappongono e si rafforzano l'un l'altra. Dinanzi all'ostilità dell'ambiente
esterno, generano congiuntamente una straripante forza centripeta cui è
difficile resistere e che rende inutile la tecnica della recinzione e dell'
isolamento sviluppata dai responsabili e dagli amministratori di Auschwitz o
del Gulag. Più di qualunque altro microcosmo sociale coatto, i campi
profughi si avvicinano al tipo ideale di "istituzione totale" di Erving
Goffman: essi offrono, per commissione od omissione, una "vita totale"
dalla quale non c'è via di fuga, il cui accesso è efficacemente
vietato a qualunque altra forma di vita.
Avendo abbandonato o essendo stati cacciati dal loro precedente ambiente,
i profughi tendono a essere spogliati delle identità che quell'ambiente
definiva,sosteneva e riproduceva.
Da un punto di vista sociale, essi sono degli "zombie": le loro vecchie
identità sopravvivono in gran parte come spettri - ossessionando in modo
ancor più penoso le notti perché invisibili alla luce del giorno.
Perfino quelle più confortevoli, prestigiose e ambite si trasformano
in un limite: ostacolano la ricerca di nuove identità più consone
al nuovo ambiente, impediscono di venire a patti con la nuova condizione e ritardano
il riconoscimento della perpetuità della nuova condizione.
A tutti i fini pratici, i profughi sono stati gettati nello stadio intermedio
del passaggio in tre fasi di Vari Gennep e Victor Turner, lo stadio "né
carne né pesce", senza tuttavia che tale assegnazione sia stata
riconosciuta, senza che sia stato stabilito un tempo di durata, ma soprattutto
senza la consapevolezza che il ritorno alla condizione precedente è impossibile
e non vi è la benché minima idea della natura dell'ambiente che
ci si potrà trovare davanti. Ricordiamo che nello schema tripartito del
"passaggio", l'atto di spoliazione che strappò ai portatori
di ex ruoli gli attributi sociali e i contrassegni culturali propri dello status
un tempo goduto ma ora perduto (il prodotto sociale, assistito dal potere, del
"nudo corpo", come direbbe Giorgio Agamben, non era che una necessaria
fase preliminare per rivestire il "socialmente nudo" con il corredo
proprio del loro nuovo ruolo sociale. La nudità sociale (e spesso anche
fisica) non era che un breve intermezzo che separava i due movimenti drammaticamente
distinti dell'opera della vita, che caratterizzava la separazione tra le due
serie successivamente assunte di diritti e obblighi sociali. Nel caso dei rifugiati
la questione è però diversa. Sebbene la loro condizione presenti
tutti i tratti (e le conseguenze) della nudità sociale caratteristica
della fase intermedia, transitoria, del passaggio (mancanza di definizione sociale
e di diritti e doveri codificati) essa non è una fase né intermedia
né transitoria che porta a qualche specifico,socialmente definito "stadio
costante".
Nella condizione dei rifugiati, lo stato designato come «intermediatezza
incarnata» si estende all'infinito (una verità che il terribile
destino dei campi profughi palestinesi ha di recente portato drammaticamente
alla ribalta). Qualunque «stadio costante» possa alla fine emergere,
può essere soltanto un imprevisto e inatteso effetto collaterale dello
sviluppo interrotto o arrestato - dei tentativi di associazione fluidi, dichiaratamente
temporanei e sperimentali che vanno impercettibilmente coagulandosi in strutture
rigide e non più negoziabili le quali immobilizzano i loro residenti
più ferreamente di quanto potrebbero fare un qualsiasi numero di guardie
armate o una qualsivoglia quantità di filo spinato.
La permanenza della transitorietà; la resistenza della caducità;
l'oggettiva determinazione non riflessa nella consequenzialità soggettiva
delle azioni; il ruolo sociale eternamente sottodefinito, o più correttamente
un immergersi nel flusso della vita senza l'àncora di un ruolo sociale;
tutti questi tratti della vita liquido-moderna, ed altri ad essa correlati,
sono stati illustrati e documentati nelle scoperte di Agier. Nella extraterritorialità
territorialmente determinata dei campi profughi essi appaiono in una forma molto
più estrema, condensata, e dunque più chiaramente visibile di
quanto facciano in qualunque altro segmento della società contemporanea.
Ci si chiede in che misura i campi profughi sono laboratori in cui (forse involontariamente,
ma non per questo meno efficacemente) il nuovo modello liquido-moderno, «permanentemente
transitorio» di vita venga messo alla prova e reiterato.
In che misura i non-luoghi dei rifugiati sono i modelli in anteprima del mondo
che verrà, e i loro residenti vengono indotti/spinti/costretti nel ruolo
di loro primi esploratori? Domande di tal genere possono (forse) trovare risposta
solo retrospettivamente.
Ad esempio, possiamo oggi vedere (grazie al senno di poi) che gli ebrei che
abbandonarono i ghetti nel XIX secolo furono i primi ad assaggiare e constatare
appieno l'assurdità del progetto di assimilazione e le intrinseche contraddizioni
dell'allora dominante precetto dell'autoaffermazione, in seguito ratificata
da tutti gli abitanti dell'emergente modernità. E iniziamo a vedere ora,
sempre grazie al senno di poi, che l'intellighenzia post-coloniale multietnica
(come Ralph Singh in Mimic Men di Naipaul, il quale non poteva dimenticare di
aver offerto una mela al suo insegnante preferito, come ci si attendeva che
tutti i bambini inglesi bene educati facessero, benché sapesse perfettamente
che sull' isola caraibica dove si trovava la scuola non ci fossero mele) fu
la prima ad assaggiare e constatare appieno pecche fatali, l'incoerenza e l'assenza
di coesione del principio creatore- d'identità che sarebbe stato sperimentato
poco tempo dopo dal resto degli abitanti del mondo liquido-moderno.
Verrà forse un tempo in cui scopriremo il ruolo di avanguardia degli
odierni rifugiati - in cui esploreremo il sapore della vita nei non-luoghi e
la pervicace permanenza della transitorietà che potrebbe diventare l'habitat
comune dei cittadini di questo nostro pianeta globalizzato e pieno.