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Amore liquido

Zygmunt Bauman

Rizzoli 2004, pagg. 188-203

Disseminati in tutto il globo, ecco i "presidi della extraterritorialità", le discariche per i rifiuti non smaltiti e ancora non riciclati della terra di frontiera globale.
Per tutti i duecento anni di storia moderna, si è sempre dato per scontato che tutti coloro che non riuscivano a trasformarsi in cittadini - rifugiati, emigranti volontari o coatti, profughi tout court - fossero un problema dei paesi ospitanti e come tali sono stati trattati.
Pochi o nessuno degli stati nazionali presenti sulle moderne carte geografiche erano altrettanto autoctoni, "locali", in senso demografico di quanto lo fossero nell'esercizio delle loro prerogative sovrane. A volte di buon grado, altre volte a denti stretti, tutti hanno dovuto accettare la presenza di estranei nel proprio territorio, e tutti hanno dovuto accettare le varie ondate di immigrati in fuga o cacciati dalle terre di altri stati nazionali sovrani. Una volta entrati, gli stranieri ricadevano sotto la completa ed esclusiva giurisdizione del paese ospitante, il quale era libero di applicare le versioni aggiornate, modernizzate, delle due strategie descritte da Claude Lévi-Strauss in Tristi tropici quali modi possibili di affrontare la presenza di stranieri: quando si sceglie di ricorrere a tali strategie si può contare sul pieno sostegno di tutti gli altri poteri sovrani del pianeta, ansiosi di preservare l'inviolabilità della trinità territorio/stato/nazione.
Le due possibili soluzioni al problema degli stranieri erano quella antropofagica e quella antropoemica. La prima consisteva nel "divorare gli stranieri": o mangiandone letteralmente la carne - il cannibalismo invalso presso certe antiche tribù - oppure in senso più sublimato e metaforico, come nell'opera (assistita dal potere) di assimilazione portata avanti pressoché universalmente dagli stati nazionali, di modo che gli stranieri venissero fagocitati nel corpo nazionale e cessassero di esistere in quanto stranieri. La seconda consisteva invece nel "rigettare gli stranieri" anziché divorarli: vale a dire rastrellarli ed espellerli (proprio come Oriana Fallaci - la formidabile giornalista e opinionista italiana - ha affermato noi europei dovremmo fare con tutti coloro che adorano altre divinità ed esibiscono sconcertanti abitudini igienico-sanitarie) o dai confini del potere statale o dal mondo degli esseri viventi.
Osserviamo tuttavia che il perseguire l'una o l'altra delle due soluzioni aveva senso solo in virtù di un duplice presupposto: una netta divisione territoriale tra il "dentro" e il "fuori" e la completa e indivisibile sovranità del potere di scelta della strategia all'interno di quel regno. Oggi, nel nostro mondo globale liquido-moderno, nessuno dei due presupposti gode più di alcuna credibilità, e quindi le possibilità di porre in atto l'una o l'altra delle due strategie ortodosse è, a dir poco, remota.
Ora che i modi di agire collaudati non sono più disponibili, sembra che non abbiamo più una buona strategia per gestire i nuovi arrivati. In un'epoca in cui nessun modello culturale può proclamare autorevolmente ed efficacemente la propria superiorità sul modelli antagonisti, e in cui il processo di costruzione della nazione e la mobilitazione patriottica non sono più i principali strumenti di integrazione sociale e di affermazione statale, l'assimilazione culturale non è più un'opzione praticabile. Poiché deportazioni ed espulsioni sono oggetto di drammatici reportage televisivi ed è probabile che scatenino una pubblica protesta e ledano le credenziali internazionali di chi le perpetra, i governi preferiscono tenersi lontano dai guai sbarrando le porte a quelli che bussano in cerca di riparo.
L'attuale tendenza di ridurre drasticamente il diritto all'asilo politico, accompagnata dal ferreo divieto d'ingresso agli "immigranti economici" (eccezion fatta per i pochi e transitori momenti in cui le aziende minacciano di trasferirsi dove c'è forza lavoro, a meno che non sia la forza lavoro a essere trasferita dove vogliono le aziende), non indica affatto una nuova strategia nel riguardi del fenomeno dei profughi, ma solo l'assenza di una strategia e il desiderio di evitare una situazione in cui tale assenza possa causare imbarazzo politico. In queste circostanze, l'assalto terroristico dell' 11 settembre è stato un enorme regalo ai politici. In aggiunta alle solite accuse di vivere alle spalle del paese e di rubare posti di lavoro, o di introdurre nel paese malattie da tempo dimenticate come la tubercolosi o altre di fresca invenzione come l'HIV, ora gli immigrati vengono accusati di svolgere il ruolo di "quinta colonna" della rete terroristica globale. FInalmente, c'è un motivo "razionale" e moralmente inattaccabile per rastrellare, incarcerare e deportare persone allorché non si sa più come gestirle e non ci si vuole prendere il disturbo di trovare un modo nuovo per farlo. Negli Stati Uniti, e subito dopo in Gran Bretagna sotto lo slogan della "campagna antiterroristica", gli stranieri sono stati immediatamente privati dei fondamentali diritti umani che fino a oggi avevano resistito a tutte le vicissitudini della storia sin dai tempi della Magna Carta e dell'habeas corpus. Oggi lo straniero può essere trattenuto in stato di fermo a tempo indefinito con accuse dalle quali non può difendersi, dal momento che non gli viene neanche detto quali siano. Come Martin Thomas osserva con sarcasmo in un drammatico ribaltamento del principio di base della legge in un paese civile, a partire da oggi "l'onere di provare un'accusa criminosa è un'inutile complIcazIone", almeno per quanto riguarda i profughi stranieri.
Le porte possono anche essere sbarrate, ma il problema non si risolverà, per quanto massicci possano essere i lucchetti. Lucchetti e catenacci non possono certo domare o indebolire le forze che causano l'emigrazione; possono contribuire a occultare i problemi alla vista e alla mente, ma non a farli scomparire.

E così, i profughi vengono sempre più a trovarsi sotto un fuoco incrociato, o, più esattamente, in una duplice morsa.

Vengono cacciati a forza o indotti col terrore a lasciare il paese natio, ma viene loro rifiutato l'ingresso in qualsiasi altra nazione. E dunque il loro non è un semplice cambio di luogo: di fatto essi perdono un posto sulla terra e vengono catapultati in un niente, nel "non-lieux" di Augé o nelle "nowhereville" di Garreau, nella "Narrenschiffe" di Michel Foucault, in un "luogo senza un luogo, che esiste di per sé, che è racchiuso in sé e che al contempo è abbandonato all'infinità del mare" o (come Michel Agier suggerisce in un articolo su "Ethnography") in un deserto, quella terra per definizione disabitata, una terra che rifiuta l'uomo e in cui l'uomo s'avventura di rado.
I profughi sono diventati, in una sorta di fotocopia caricaturale della nuova élite di potere del mondo globalizzato, l'epitome di quella extraterritorialità in cui affondano le radici dell'odierna precarietà della condizione umana, la causa prima delle paure e ansie dell'uomo moderno. Tali paure e ansie, nella vana ricerca di altri sbocchi, sono confluite in un sentimento popolare di rabbia e paura nei confronti dei rifugiati. Paura e rabbia che non possono certo essere dissipate in un confronto diretto con l'altra incarnazione dell'extraterritorialità: l'élite globale che si muove e opera al di fuori di qualsiasi controllo umano, troppo potente per potercisi confrontare. I profughi, per contro, sono un bersaglio fisso su cui poter scaricare la traboccante angoscia...
Secondo l'Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr), ci sono tra i 13 e i 18 milioni di "vittime di emigrazione coatta" che tentano di sopravvivere oltre i confini dei loro paesi di origine (senza contare i milioni di profughi "interni" in Burundi e Sri Lanka, Colombia e Angola, Sudan e Afghanistan, condannati al vagabondaggio da infinite guerre tribali). Di questi, oltre 6 milioni si trovano in Asia, da 7 a 8 milioni in Africa; ci sono 3 milioni di profughi palestinesi in Medio Oriente. E si tratta di una stima sicuramente prudente. Non tutti i profughi sono stati riconosciuti (né se ne è chiesto il riconoscimento) come tali, e solo pochi di essi sono stati abbastanza fortunati da vedersi inclusi nei registri dell'Unhcr e sotto la sua protezione.
Ovunque vada, il profugo è indesiderato, e non si fa nulla per nasconderglielo. Questi "emigranti economici" (vale a dire, persone che seguono i precetti della "scelta razionale" e quindi tentano di guadagnarsi da vivere ovunque ciò sia possibile anziché restare dove questa possibilità non esiste) sono esplicitamente condannati dagli stessi governi che tentano in tutti i modi di elevare la "flessibilità del lavoro" a principale virtù del loro elettorato o che esortano i disoccupati locali a "pedalare" e andare là dove il lavoro chiama. Ma il sospetto delle motivazioni economiche tracima anche sui nuovi venuti che fino a poco tempo prima erano visti come persone che esercitavano il loro diritto di cercare rifugio dalla discriminazione e persecuzione. Attraverso una reiterata associazione di idee, il termine "rifugiato" ha assunto una connotazione negativa. I governanti dell'"Unione europea" dedicano gran parte del loro tempo e delle loro energie a elaborare sistemi sempre più sofisticati per fortificare e sbarrare i confini a chi cerca casa e lavoro e le procedure più adeguate per cacciare quanti riescano nonostante ciò ad attraversarli.
Per non essere da meno, il ministro degli Interni britannico David Blunkett ha proposto di indurre i paesi d'origine dei profughi a riprendersi i "rifugiati politici non qualificati" minacciandoli in caso contrario di tagliare loro gli aiuti finanziari. E questa non è stata la sua unica idea. Blunkett intende "forzare il ritmo del cambiamento", e ha lamentato che a causa dello scarso vigore esibito dagli altri leader europei, "i progressi in materia sono rimasti troppo lenti". Ha auspicato la creazione di una "forza congiunta d'intervento rapido" paneuropea e di una "task-force di esperti nazionali" per "stilare delle valutazioni sui rischi comuni che identifichino i punti deboli nei [(... ) confini esterni dell'Unione europea, affrontino la questione dell'immigrazione illegale via mare e risolvano il problema del traffico umano [il nuovo termine ideato per sostituire il concetto, un tempo nobile, di 'passaggio'] ".
Con l'attiva cooperazione di governi e di altri personaggi pubblici che trovano nell'opera di appoggio e fomentazione del pregiudizio comune gli unici strumenti sostitutivi di una politica tesa ad affrontare le cause reali dell'incertezza esistenziale che ossessiona i loro elettori, i "rifugiati" (al pari di quanti vanno ammassandosi nelle innumerevoli Sangatte d'Europa e si preparano all'invasione delle isole britanniche, o quanti stanno per insediarsi, a meno che non vengano fermati, in campi prefabbricati dislocati a pochi chilometri di distanza dalle case degli elettori) sostituiscono streghe maligne, fantasmi di malfattori impenitenti e altri spiritelli e spauracchi vari che popolano le leggende metropolitane. Il nuovo e sempre più diffuso folclore urbano, con le vittime di questa opera di espulsione planetaria nel ruolo di "cattivi", raccoglie e ricicla il mito delle storie del terrore che tanto successo hanno riscosso in passato, un successo generato dalle insicurezze della vita urbana, proprio come sta facendo ora.
Per quanto concerne quegli immigrati che nonostante i più ingegnosi stratagemmi non possono essere deportati ed espulsi rapidamente, il governo propone di confinarli in appositi campi costruiti in parti possibilmente remote e isolate del paese (trasformando in tal modo in una profezia che si autorealizza la convinzione che gli immigrati non vogliano o non possano essere assimilati nella vita economica del paese), una soluzione che, osserva Gary Younge, "erige delle vere e proprie Bantustan tutt'intorno alla campagna inglese, segrega i rifugiati in un modo che li lascia isolati e vulnerabili". (I rifugiati, come rileva Younge, "sono più probabilmente vittime, che non perpetratori, di atti criminosi".)
Di questi rifugiati iscritti nel registro dell'Unhcr, in Africa l'83,2 per cento vivono in campi, il 95,9 per cento in Asia. In Europa sino a oggi solo il 14,3 per cento dei rifugiati sono stati rinchiusi in campi. A tutt'oggi, tuttavia, non sembra si possa sperare che questa differenza a favore dell'Europa sia destinata a durare a lungo.

I campi profughi sono espedienti temporanei trasformati in soluzioni permanenti mediante lo sbarramento di tutte le vie d'uscita.

Gli abitanti dei campi profughi o i rifugiati non possono tornare "da dove sono venuti" perché i paesi da cui provengono non li rivogliono, avendo distrutto i loro mezzi di sussistenza e bruciato o confiscato le loro case. Ma non possono neanche andare avanti, perché nessun governo vedrebbe di buon occhio l'afflusso nel proprio paese di milioni di senzatetto, e qualsiasi governo farebbe di tutto per impedire ai nuovi venuti di mettere radici.
Per quanto riguarda la loro ubicazione ormai "permanentemente temporanea", i profughi "vi abitano, ma non ne fanno parte". Non sono parte integrante del paese sul cui territorio sono state raggruppate le loro baracche e piantate le loro tende. Sono separati dal resto del paese che li ospita dall'invisibile ma spesso e impenetrabile velo del sospetto e del risentimento. Sono sospesi in un vuoto spaziale in cui il tempo si è fermato. Non sono né fermi né in cammino, né stanziali né nomadi.
Nei termini in cui viene narrata la condizione umana dell'uomo, sono ineffabili. Sono gli "indecidibili" di Jacques Derrida in carne e ossa. Per le persone come noi, elogiate e pronte ad autoincensarci per le nostre capacità di riflessione, essi sono non solo intoccabili, ma impensabili. Nel nostro mondo di comunità immaginate, essi sono inimmaginabili. Ed è rifiutando loro il diritto a essere immaginati che altre comunità - reali o che tali sperano di essere - cercano di dare credibilità ai loro sforzi di immaginazione.

Il proliferare di campi profughi è un prodotto della manifestazione della globalizzazione, tanto integrale quanto il denso arcipelago di non-luogo di passaggio in cui si muove la nuova élite di giramondo.

L'elemento che li unisce è l'extraterritorialità, il loro non appartenere a nessun luogo, l'essere "dentro" ma non "parte integrante" dello spazio che occupano fisicamente (i giramondo in una successione di momenti riconosciutamente fugaci, i profughi in una serie di momenti estesa all'infinito).
Per quanto ne sappiamo, i non-luoghi dei campi profughi recintati, non diversamente dal motel dei manager sovranazionali che viaggiano liberamente, potrebbero essere le teste di ponte di un'avanzante extraterritorialità, o (in una prospettiva più a lungo termine) i laboratori in cui la de-semantizzazione del luogo, la fragilità e smaltibilità dei significati, la indeterminatezza e plasticità delle identità e soprattutto la nuova perpetua transitorietà (tutte tendenze intrinseche alla fase liquida della modernità) vengono sperimentate in condizioni estreme e collaudate in modo simile a quello con cui i limiti dell'arrendevolezza e sottomissione umana, e i modi di raggiungere tali limiti, sono stati collaudati nei campi di concentramento della fase solida della storia moderna.
Campi profughi e non-luoghi condividono questa voluta, intrinseca, pre-programmata transitorietà. Entrambe le installazioni sono concepite e progettate come un fossato sia nel tempo che nello spazio, una temporanea sospensione di attribuzione territoriale e della sequenza temporale. Ma le facce che mostrano ai rispettivi utenti/internati sono molto diverse. I due tipi di extraterritorialità sono sedimentati, per così dire, ai poli opposti della globalizzazione.
Il primo offre la transitorietà come uno strumento scelto di propria volontà, il secondo la rende permanente e irrevocabile, un destino ineludibile, una differenza non diversa da quella che separa le due manifestazioni concrete della sicura perpetuità: le comunità recintate dei ricchi che discriminano e i ghetti dei poveri che vengono discriminati. E anche le cause della differenza sono simili: ingressi attentamente sorvegliati e controllati e ampie porte d'uscita a un estremo, porta d'ingresso larghissima, ma uscite bloccate all'altro. Il blocco delle porte d'uscita in particolare che perpetua lo stato di transitorietà senza sostituirlo con la perpetuità. Nei campi profughi il tempo è sospeso; è tempo, ma non è storia.
I campi profughi vantano una nuova qualità: una "transitorietà congelata", un perpetuo, duraturo stato di temporaneità, una durata fatta di tanti momenti rappezzati tra loro, nessuno dei quali viene vissuto come un elemento di perpetuità e tanto meno come un contributo ad essa. Per gli internati di un campo profughi, l'idea di effetti e conseguenze di lungo periodo non rientra nella loro esperienza. Essi vivono - letteralmente - giorno dopo giorno, e il contenuto della vita non è minimamente intaccato dalla consapevolezza che i giorni si congiungono e formano mesi e anni. Come nelle prigioni e negli "iperghetti" analizzati da Loic Wacquant, i profughi accampati "imparano a vivere, o piuttosto a sopravvivere [(sur)vivre, giorno dopo giorno nell'immediatezza del momento, annaspando nella disperazione che fermenta entro le mura".

Nei campi, i profughi sono legati da una duplice corda, una protettiva e una costrittiva.

I poteri che governano il sito su cui sono state piantate le tende e costruite le caserme, il campo e il territorio attorno al campo, si fanno in quattro per impedire che gli internati fuoriescano. Anche in assenza di guardie armate alle uscite, la zona esterna al campo è, essenzialmente, off-limits per gli internati del campo. Nella migliore delle ipotesi, è oltremodo inospitale, popolata da gente guardinga e sospettosa pronta a notare e rinfacciare loro qualsiasi errore vero o presunto e qualsiasi inciampo o passo falso che i profughi, estromessi dal loro elemento, è fin troppo probabile che compiano. Nelle terre in cui sono state piantate le loro tende temporanee/permanenti, i profughi restano palesemente degli "estranei ", una minaccia alla sicurezza degli "insediati" - frutto di consolidate routine quotidiane -, una sfida alla loro comune visione del mondo e una fonte di pericoli astrusi, mai sperimentati e non previsti dai loro consueti meccanismi di difesa .
L'incontro nativi-rifugiati è presumibiImente l'esempio più spettacolare di "dialettica dell'insediato e dell'outsider" (dialettica che oggigiorno sembra avere conquistato il ruolo imperante un tempo goduto dalla dialettica del padrone e dello schiavo), illustrata per la prima volta da Elias e Scotson. Gli "insediati", usando il loro potere di definire la situazione e imporre la definizione di tutti quanti ne sono coinvolti, tendono a rinchiudere i nuovi arrivati nella gabbia di ferro dello stereotipo, "una rappresentazione fortemente semplificata delle realtà sociali". La stereotipizzazione crea "un quadro in bianco e nero" che "non lascia spazio alla diversità". Gli estranei sono colpevoli fino a prova contraria, ma poiché è l'insediato che compendia in sé i ruoli di pubblico ministero, magistrato esaminante e giudice, e che è quindi contemporaneamente chiamato a pronunciare il capo d'imputazione, a esprimersi sulla sua fondatezza e a sedere in giudizio, le possibilità di assoluzione sono quanto mai remote, se non praticamente nulle. Come Ellas e Scotson hanno scoperto, quanto più la popolazione insediata si sente minacciata, tanto più è probabile che le sue convinzioni tendano "verso gli estremi dell'illusione e della rigidità ideologica". E posti dinanzi a un'ondata di profughi, gli insediati hanno tutti i motivi di sentirsi minacciati. Oltre a rappresentare l'"ignoto" che tutti gli stranieri incarnano, i Profughi portano con sé echi distanti di guerra e il tanfo di case sventrate e di città rase al suolo, e tali echi non possono che rammentare all'insediato quanto facilmente il bozzolo della routine sicura e familiare (sicura perché familiare) possa essere infranto. Il rifugiato, come Bertold Brecht ha osservato in Die Landscbaft des Exils, è "ein Bote des Unghicks" (un messaggero di sventure).
Nell'avventurarsi dal campo alla cittadina adiacente i profughi si espongono a un tipo di incertezza che è difficile da reggere dopo la quotidiana routine della vita nel campo, stagnante e congelata. Percorsi anche pochi passi, si ritrovano in un ambiente ostile. Il loro diritto di entrare nel "fuori" è quanto meno dubbio e può essere contestato dal primo che passa. Confrontato con questa giungla selvaggia che è da "fuori", il "dentro" del campo appare un paradiso sicuro. Solo i più intraprendenti desiderano lasciarlo per un tempo prolungato, e ancora meno sono quanti oserebbero realizzare tale desiderio.
Volendo rifarci a Loic Wacquant, potremmo dire che i campi profughi mescolano e fondono assieme sia i tratti distintivi del "ghetto comunitario" d'epoca fordista-keynesiana sia l'"iperghetto" dei nostri tempi post-fordisti. Se i "ghetti-comunità" erano totalità sociali relativamente autonome e autoriproducentesi, con tanto di repliche in miniatura della stratificazione in atto nella società in generale, delle sue divisioni funzionali e istituzioni necessarie per soddisfare i bisogni della vita comunitaria, gli "iperghetti" sono aggregazioni monche, artificiali e palesemente incomplete, aggregati ma non comunità, condensazioni topografiche incapaci di sopravvivere con le proprie forze. Allorché le élites uscirono dal ghetto e cessarono di alimentare la rete di attività economiche che perpetuavano (per quanto precariamente) i mezzi di sussistenza della popolazione del ghetto, gli enti di amministrazione e controllo dello stato (due funzioni di norma intimamente correlate tra loro) ne rilevarono il posto. L'"iperghetto" è sospeso su fili che travalicano i suoi confini e di certo anche la sua capacità di controllo. https://www.m777live.com
Nei campi profughi, come ha rilevato,Uchel Agier, i tratti dei "ghetti comunitari" sono fittamente intrecciati agli attributi di un "iperghetto" in una densa rete di reciproca dipendenza . Possiamo ipotizzare che una tale combinazione stringe ancor più il nodo che lega gli internati al campo. La corda protettiva del "ghetto comunitario" e quella costrittiva dell'"iperghetto", per quanto potenti possano essere entrambe, si sovrappongono e si rafforzano l'un l'altra. Dinanzi all'ostilità dell'ambiente esterno, generano congiuntamente una straripante forza centripeta cui è difficile resistere e che rende inutile la tecnica della recinzione e dell' isolamento sviluppata dai responsabili e dagli amministratori di Auschwitz o del Gulag. Più di qualunque altro microcosmo sociale coatto, i campi profughi si avvicinano al tipo ideale di "istituzione totale" di Erving Goffman: essi offrono, per commissione od omissione, una "vita totale" dalla quale non c'è via di fuga, il cui accesso è efficacemente vietato a qualunque altra forma di vita.

Avendo abbandonato o essendo stati cacciati dal loro precedente ambiente, i profughi tendono a essere spogliati delle identità che quell'ambiente definiva,sosteneva e riproduceva.

Da un punto di vista sociale, essi sono degli "zombie": le loro vecchie identità sopravvivono in gran parte come spettri - ossessionando in modo ancor più penoso le notti perché invisibili alla luce del giorno. Perfino quelle più confortevoli, prestigiose e ambite si trasformano in un limite: ostacolano la ricerca di nuove identità più consone al nuovo ambiente, impediscono di venire a patti con la nuova condizione e ritardano il riconoscimento della perpetuità della nuova condizione.
A tutti i fini pratici, i profughi sono stati gettati nello stadio intermedio del passaggio in tre fasi di Vari Gennep e Victor Turner, lo stadio "né carne né pesce", senza tuttavia che tale assegnazione sia stata riconosciuta, senza che sia stato stabilito un tempo di durata, ma soprattutto senza la consapevolezza che il ritorno alla condizione precedente è impossibile e non vi è la benché minima idea della natura dell'ambiente che ci si potrà trovare davanti. Ricordiamo che nello schema tripartito del "passaggio", l'atto di spoliazione che strappò ai portatori di ex ruoli gli attributi sociali e i contrassegni culturali propri dello status un tempo goduto ma ora perduto (il prodotto sociale, assistito dal potere, del "nudo corpo", come direbbe Giorgio Agamben, non era che una necessaria fase preliminare per rivestire il "socialmente nudo" con il corredo proprio del loro nuovo ruolo sociale. La nudità sociale (e spesso anche fisica) non era che un breve intermezzo che separava i due movimenti drammaticamente distinti dell'opera della vita, che caratterizzava la separazione tra le due serie successivamente assunte di diritti e obblighi sociali. Nel caso dei rifugiati la questione è però diversa. Sebbene la loro condizione presenti tutti i tratti (e le conseguenze) della nudità sociale caratteristica della fase intermedia, transitoria, del passaggio (mancanza di definizione sociale e di diritti e doveri codificati) essa non è una fase né intermedia né transitoria che porta a qualche specifico,socialmente definito "stadio costante".
Nella condizione dei rifugiati, lo stato designato come «intermediatezza incarnata» si estende all'infinito (una verità che il terribile destino dei campi profughi palestinesi ha di recente portato drammaticamente alla ribalta). Qualunque «stadio costante» possa alla fine emergere, può essere soltanto un imprevisto e inatteso effetto collaterale dello sviluppo interrotto o arrestato - dei tentativi di associazione fluidi, dichiaratamente temporanei e sperimentali che vanno impercettibilmente coagulandosi in strutture rigide e non più negoziabili le quali immobilizzano i loro residenti più ferreamente di quanto potrebbero fare un qualsiasi numero di guardie armate o una qualsivoglia quantità di filo spinato.
La permanenza della transitorietà; la resistenza della caducità; l'oggettiva determinazione non riflessa nella consequenzialità soggettiva delle azioni; il ruolo sociale eternamente sottodefinito, o più correttamente un immergersi nel flusso della vita senza l'àncora di un ruolo sociale; tutti questi tratti della vita liquido-moderna, ed altri ad essa correlati, sono stati illustrati e documentati nelle scoperte di Agier. Nella extraterritorialità territorialmente determinata dei campi profughi essi appaiono in una forma molto più estrema, condensata, e dunque più chiaramente visibile di quanto facciano in qualunque altro segmento della società contemporanea.
Ci si chiede in che misura i campi profughi sono laboratori in cui (forse involontariamente, ma non per questo meno efficacemente) il nuovo modello liquido-moderno, «permanentemente transitorio» di vita venga messo alla prova e reiterato.
In che misura i non-luoghi dei rifugiati sono i modelli in anteprima del mondo che verrà, e i loro residenti vengono indotti/spinti/costretti nel ruolo di loro primi esploratori? Domande di tal genere possono (forse) trovare risposta solo retrospettivamente.
Ad esempio, possiamo oggi vedere (grazie al senno di poi) che gli ebrei che abbandonarono i ghetti nel XIX secolo furono i primi ad assaggiare e constatare appieno l'assurdità del progetto di assimilazione e le intrinseche contraddizioni dell'allora dominante precetto dell'autoaffermazione, in seguito ratificata da tutti gli abitanti dell'emergente modernità. E iniziamo a vedere ora, sempre grazie al senno di poi, che l'intellighenzia post-coloniale multietnica (come Ralph Singh in Mimic Men di Naipaul, il quale non poteva dimenticare di aver offerto una mela al suo insegnante preferito, come ci si attendeva che tutti i bambini inglesi bene educati facessero, benché sapesse perfettamente che sull' isola caraibica dove si trovava la scuola non ci fossero mele) fu la prima ad assaggiare e constatare appieno pecche fatali, l'incoerenza e l'assenza di coesione del principio creatore- d'identità che sarebbe stato sperimentato poco tempo dopo dal resto degli abitanti del mondo liquido-moderno.
Verrà forse un tempo in cui scopriremo il ruolo di avanguardia degli odierni rifugiati - in cui esploreremo il sapore della vita nei non-luoghi e la pervicace permanenza della transitorietà che potrebbe diventare l'habitat comune dei cittadini di questo nostro pianeta globalizzato e pieno.