Reintrodotta nel 1994, la pena capitale ha già fatto decine di vittime. Molti sono stati condannati per "collaborazionismo", ma forse erano solo oppositori politici.
Le condanne arrivano dopo processi farsa, a porte chiuse, condotti da tribunali
spesso militari.
Dopo l'occupazione del 1967, l'esercito israeliano emanò un'ordinanza
con cui aboliva la pena di morte, prevista dalla legge giordana ed egiziana.
Nel 1994, con la creazione dell'Autorità Palestinese, gli israeliani manifestarono il loro timore per una possibile reintroduzione della pena di morte pretendendo, con l'Accordo di Gerico, che la pena capitale non fosse applicabile ai sospetti estradati da Israele verso l'Autorità Palestinese. La pena di morte effettivamente è stata reintrodotta in Palestina quello stesso anno.
La prima persona ad essere condannata a morte è stata Tha'er Mahmoud Faris, fucilato nel maggio del 1995, dopo essere stato condannato da una corte militare sulla base della "Legge della Rivoluzione Palestinese", approvata dall'Olp nel 1974.
Possono condannare a morte, oltre ai tribunali militari, anche le Corti di Sicurezza di Stato istituite nel 1995. Queste corti - che lavorano a porte chiuse e per le cui sentenze non c'è diritto d'appello - sono state aspramente criticate da Amnesty International perché non seguono le procedure legali basilari, violando i diritti dell'accusato.
Ad esempio Rajeh Huliel Ali Abu-Sitta è stato processato a porte chiuse subito dopo il suo arresto, alle tre di notte, e condannato a morte in 15 minuti. Inoltre Abu-Sitta ha affermato di essere stato picchiato fra il momento dell'arresto e il processo. La famiglia ha saputo dai giornali dell'arresto e della condanna morte del loro congiunto.
L'applicazione della pena di morte è stata subito massiccia: soltanto nel 1996 vi sono state 12 condanne a morte.
Nel 2001 vi sono state due esecuzioni e 12 condanne a morte, tutte dopo processi iniqui e sommari. La maggior parte dei condannati erano stati accusati di tradimento o "collaborazionismo" con le autorità israeliane.
Esecuzioni di 'collaborazionisti'
Ultimamente la maggior parte dei condannati sono accusati di "collaborazionismo"
con Israele.
Il 13 gennaio 2001, Allan Bani Odeh è stato fucilato nella pubblica piazza
di Nablus, in Cisgiordania, davanti a migliaia di palestinesi che gridavano
"Dio è grande". Lo stesso giorno, Majdi Mikkawi è stato
fucilato presso la stazione centrale della polizia di Gaza. Entrambi erano stati
condannati a morte perché ritenuti colpevoli di aver fornito a Israele
informazioni che avevano portato all'uccisione di attivisti palestinesi. Il
leader palestinese Yasser Arafat aveva ratificato le condanne a morte emesse
2 giorni prima da tribunali per la sicurezza dello stato.
Secondo il Palestinian Human Rights Monitor Group (Phrmg), un'organizzazione palestinese per la difesa dei diritti umani, "Alan Bani Odeh è stato fucilato il 13 gennaio 2001 dopo un processo durato appena tre ore; i suoi avvocati, designati d'ufficio, avevano avuto quindici minuti per prendere conoscenza degli incartamenti".
Nel marzo del 2002 una troupe della BBC ha incontrato le famiglie delle due vittime; secondo i giornalisti entrambi gli assassinati avevano un passato di oppositori dell'Autorità Palestinese ed entrambi avevano criticato apertamente Arafat.
Secondo l'associazione pacifista Betselem sono decine le persone uccise sommariamente
o condannate a morte per "collaborazionismo".
Sotto questo termine vi sono i comportamenti più vari: dal non partecipare
a scioperi generali al compiere azioni "immorali", quali la prostituzione
e il consumo di droghe.
Esecuzioni sommarie e linciaggi
A volte le prigioni vengono assaltate e i detenuti uccisi a furor di popolo,
oppure gruppi politici armati commettono esecuzioni sommarie.
Nell'agosto del 2002 Ikhlas Yasin Khouli, palestinese, vedova e con sette figli,
è stata fucilata, senza processo, a Tulkarem dalle Brigate martiri Al-Aqsa
per "collaborazionismo con Israele".
L'esecuzione è la confessione della donna sono state trasmesse dalla
televisione palestinese. "Non collaborate con Israele", sono state
le ultime parole di Ikhlas Khouki, prima di essere trascinata nelle strade di
Tulkarem e fucilata.
In seguito il figlio diciassettenne Bakir Khouli, anche lui in attesa di esecuzione, ha fatto sapere a giornalisti della Bbc: "Mi hanno torturato finché ho inventato una confessione che incolpava mia madre".
L'anno precedente era stato ucciso il padre di questa famiglia, sempre per "collaborazionismo". Un mese dopo la zia, anche la nipote della donna, di soli diciassette anni, è stata giustiziata sommariamente dopo essere stata condotta in un terreno incolto.
La figlia adolescente Nadjla ha detto a "Le Monde" di non essere affatto convinta della colpevolezza della madre: "Stavamo tutto il tempo assieme; so di lei vita morte e miracoli. Non vedo quando possa aver fatto la spia per gli israeliani". Così racconta l'esecuzione: "È venuto un impiegato del comune a comunicarmi la morte di mia madre. Era stata prelevata il giorno prima. Dopo averla uccisa, hanno abbandonato il suo corpo per la strada. È stato durante il coprifuoco imposto dall'esercito israeliano. Ho saputo in seguito che un'ambulanza palestinese si era fermata accanto a lei, ma i barellieri non hanno voluto trasportarla all'obitorio perché era una collaborazionista. È questa l'immagine che mi fa più male".
Talvolta le prigioni palestinesi vengono assaltate da gruppi armati che si
impossessano dei presunti "collaboratori" per linciarli.
L'ultimo caso è avvenuto nella primavera scorsa a Tulkarem, quando otto
prigionieri sono stati prelevati dalle celle e uccisi. I loro corpi sono rimasti
esposti in una via del centro per molte ore.
Sono una cinquantina le vittime di queste esecuzioni sommarie dall'inizio della seconda Intifada. Un numero finora inferiore rispetto alla prima Intifada (1987-1993), quando furono ben 1200 i presunti collaborazionisti giustiziati sommariamente
Secondo il Phrmg: "L'utilizzo da parte degli occupanti di persone dei territori occupati per ottenere informazioni è contrario alla convenzione di Ginevra". Secondo l'esercito israeliano, circa l'80% degli attacchi contro gli israeliani viene sventato grazie a informazioni fornite da palestinesi.
L'ultimo condannato è un attivista per i diritti umani
Khaidar Ghanem lavorava per l'organizzazione pacifista Betselem. Nelle ultime settimane vi è stata un'ondata di condanne a morte di presunti "collaborazionisti". A metà ottobre Walid Mahdiya e Amin Khafalah sono stati condannati a morte per "collaborazionismo". Qualche giorno fa è toccato a Khaidar Ghanem, un ricercatore dell'associazione pacifista israeliana Betselem.
Khaidar Ghanem, un attivista per i diritti umani, aveva ottenuto il permesso
dei Servizi di Sicurezza Generali palestinesi per poter lavorare per Betselem,
un'associazione pacifista israeliana.
Ciononostante il suo lavoro per Betselem era il principale capo di accusa.
Dopo un processo farsa durato appena due ore e mezza e basato soltanto sulla sua confessione, è stata pronunciata la sentenza accolta con un fragoroso applauso dal pubblico.
Un agente dei Servizi di Sicurezza Preventiva coinvolto negli interrogatori di Ghanem aveva detto ai tre giudici che l'accusato aveva aperto un ufficio stampa a Rafah che forniva informazioni ai servizi segreti israeliani.
Secondo la corte Ghanem avrebbe aiutato Israele ad uccidere quattro attivisti di Fatah a Rafah. Ghanem si era dichiarato colpevole di "collaborazionismo", ma aveva negato il coinvolgimento negli omicidi.
È il quarto palestinese ad essere condannato a morte nelle ultime settimane.
Fonti di Betselem hanno detto a "The Jerusalem Post" che l'Autorità Palestinese non era contenta del lavoro di Ghanem perché "aveva cominciato a fare troppe domande che imbarazzavano gli agenti dell'Autorità Palestinese".