I pregiudizi e la conoscenza critica alla psichiatria
di Giorgio Antonucci
Introduzione
Questo libro esce in un momento difficile. Almeno apparentemente. D'altra parte
è molto raro che la conoscenza sia figlia della moda, come l'esempio
di Galileo da solo basterebbe a dimostrare.
Ora le strutture sociali basate sull'intolleranza tendono di nuovo a estendersi
e rafforzarsi.
In Italia quei pochi vantaggi che alcuni dal '78 in poi hanno tratto dalla legge
180 sono minacciati da proposte culturali e giuridiche che indicano la volontà
di riavvicinarsi alla tradizione.
A Bologna di fronte alle proteste di un cittadino che ha fatto sottoporre la
moglie a trattamento di elettroshock in casa di cura privata le istituzioni
pubbliche sembrano giustificarsi perché non forniscono più questo
tipo di servizio.
In generale nella cultura contemporanea la creatività individuale è
vista sempre di più con diffidenza e con sospetto e, come hanno capito
benissimo Aldous Huxley e George Orwell, questo potrebbe essere un preoccupante
annuncio della fine della cultura nelle società umane.
Scrive il neurologo americano Richard Restak: "Il cervello umano, una massa
del peso di meno di 1600 grammi, non assomiglia nel suo stato naturale a nulla
più che a una noce molle e rugosa. Eppure, nonostante questo aspetto
modesto, che non lascia trasparire niente di straordinario, esso può
contenere più informazione di tutte le biblioteche del mondo. Al nostro
cervello dobbiamo anche gli impulsi più primitivi, gli ideali più
elevati, il modo in cui pensiamo e persino la ragione per cui, a volte, anziché
pensare, agiamo".
Scrive ancora Restak: "Noi siamo il nostro cervello, o, per
usare le parole del ricercatore Eric Harth, il potere di determinare il proprio
comportamento non è il potere di una entità (la mente) su un'altra
(il corpo), bensì l'influenza che il cervello ha su se stesso".
Compito di questo libro è anche appunto ricollegarsi con la vera struttura
e con le reali possibilità di questo organo respingendo gli angusti limiti
culturali di coloro che attribuiscono a disfunzioni del cervello tutte le scelte
e tutti i comportamenti che non corrispondono ai pregiudizi sociali.
Prima di mettermi a scrivere alcuni appunti per un saggio di critica alla psichiatria,
ho riflettuto a lungo su che cosa esattamente comunicare e in quale modo. Ho
pensato così che già la scelta di un linguaggio comprensibile
possa servire a profanare quello scrigno di parole difficili inseparabili dai
detentori di discipline specialistiche o di pensieri esoterici. Il "Discorso
sul metodo" di Renato Cartesio e la definizione delle idee chiare e distinte
avrebbero dovuto insegnarci una volta per tutte qual è il modo di procedere
e di scrivere di chi è occupato da vero interesse scientifico. Soprattutto
se si tratta di psichiatria il linguaggio esclusivo da essa prodotto è
un esempio chiaro di come la realtà dei fatti possa essere modificata
già con l'uso di una parola invece che dell'altra. Le parole complicate
degli psichiatri come quelle dei giuristi, e ancor più di quelle dei
politici e dei medici in genere, hanno la funzione di non fare entrare facilmente
gli altri nel loro mondo, dato che ormai è risaputo che buona parte del
potere passa per l'accesso alle parole ed al loro significato.
Ma le ragioni di questa profanazione sono ancora più forti.
Infatti il potere pratico della parola di uno psichiatra è paragonabile
soltanto a quello di un giudice. Superiore direi, perché il giudice in
qualche modo è solo uno degli attori in un processo a più voci.
Invece il giudizio di uno psichiatra può condannare un uomo direttamente
alla segregazione senza bisogno di processi.
Il mio pensiero e il mio lavoro critici nei riguardi della psichiatria non hanno
origini da convinzioni teoriche elaborate a tavolino, studiando testi e criticando
articoli, ma sono essenzialmente risultato di anni di esperienza diretta con
uomini e donne, in un modo o nell'altro implicati in trattamenti psichiatrici.
Il ricorso ad episodi della mia esperienza non risponde a esigenze autobiografiche,
ma all'obiettivo di portare il lettore a contatto diretto con i fatti concreti.
Imola, 11 ottobre 1986
Giorgio Antonucci