I pregiudizi e la conoscenza critica alla psichiatria
di Giorgio Antonucci
Il conformismo e la diversità
Per quel che riguarda il rapporto tra biologia, genetica e psichiatria, ritengo utile ora riprendere un mio progetto per un articolo scritto nel 1984:
I
La mente - scrivono Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli nel "Dizionario della
lingua italiana" - è il complesso delle possibilità e dei
contenuti intellettuali e specialmente spirituali dell'individuo.
Brunetto Latini, il maestro di Dante, usa questo termine tra i primi autori
in lingua italiana, intendendo intelligenza o intelletto (1294). Altri autori
vogliono significare pensiero. Altri ragione.
La malattia della mente o malattia mentale - che come si è già
visto non si deve confondere con le malattie del cervello di pertinenza della
neurologia - è dunque prima di tutto, secondo la teoretica degli psichiatri,
un difetto della personalità, un dubbio sull'integrità intellettuale
e spirituale dei pazienti.
Si parte da un giudizio negativo sul pensiero e sul comportamento della persona
indiziata, e poi si procede.
Naturalmente l'arbitrarietà di questo tipo di giudizio apre la possibilità
a qualsiasi uso del concetto, che sembra essere metaforico e molto simile al
concetto di malattia dell'anima.
Tutti gli uomini, volendo, come si vede anche dal caso Sakharov, possono essere,
ogni volta che conviene, inclusi o esclusi da questa definizione, che non ha
nulla di scientifico se non altro per la sua indeterminatezza.
Il noto esponente della camorra Cutolo potrà essere definito malato di
mente o no quando si vuole, tenendo conto delle convenienze contingenti. Così
l'indeterminazione del concetto può essere, come si vede, molto utile
dal punto di vista pratico.
Però gli psichiatri non si fermano a quella che poteva sembrare una metafora,
e procedono decisamente più avanti. Le persone indiziate sono, come dicevo,
sospette perché ritenute non responsabili di sé, così da
dover essere requisite con l'autorità e controllate con la costrizione.
Considerando soltanto la situazione italiana si vede che prima del maggio del
'78 c'era il ricovero coatto in manicomio dal '78 in poi c'è il trattamento
sanitario obbligatorio nei centri ospedalieri di "Diagnosi e Cura".
La maggior parte degli psichiatri afferma che le persone, sottoposte a questo
tipo di diagnosi, sono, anche se non si è potuto ancora dimostrarlo difettose
fin dalle origini, per probabili carenze strutturali o biochimiche del patrimonio
genetico.
Così i pazienti diagnosticati sarebbero biologicamente difettosi dal
concepimento fino alla morte.
Vediamo così che si è preparata una trappola teorica da cui le
vittime non possono uscire, indipendentemente dall'essere o non essere rinchiuse
in manicomio.
I teorici della biologia e della psichiatria dicono che il difetto genetico
e cerebrale non è ancora stato trovato, ma è pensabile che lo
si trovi col perfezionamento degli strumenti scientifici di ricerca.
Ma il problema è un altro: in chi dobbiamo cercarlo questo difetto? Negli
omosessuali, negli anarchici, nelle prostitute, nei dissidenti, nei disoccupati,
negli studenti che si drogano?
Oppure negli operai che non sopportano la fabbrica? Nei pensionati che non ce
la fanno a vivere? Nelle casalinghe infedeli? Nei bambini che non vanno bene
a scuola?
Ricordo che una volta a Firenze mi è capitato di sottrarre all'attenzione
delle assistenti sociali e degli psichiatri un bambino di otto anni, messo sotto
cura dagli insegnanti perché mancino.
Rammento che dissi alla madre di riferire ai dottori che anche Leonardo da Vinci
era mancino e generalmente scriveva procedendo da destra verso sinistra, al
contrario di tutti gli altri scrittori.
II
È notizia di questi giorni che, in una casa colonica vicino a Scandicci,
un vecchio contadino in pensione ha ucciso la moglie, ormai quasi completamente
paralizzata da una emorragia cerebrale, e poi si è suicidato.
Sui quotidiani di oggi (martedì 24 luglio 1984) vengono riportate le
dichiarazioni di alcuni personaggi della cultura, tra cui il medico gerontologo
Professor Francesco Antonini, e il sacerdote teologo Padre Gino Ciolini.
Francesco Antonini dice in modo molto chiaro: "Io sono dalla parte di quest'uomo,
se diventassi paralizzato mi ucciderei anch'io, se potessi" e aggiunge,
commentando lo stato di disperata solitudine in cui si trova una persona ormai
ritenuta dagli altri inutile: "Certo puoi pensare che vali per quello che
hai fatto di buono nel passato. Ma voi credete che gli altri se lo ricordino?
E allora che cosa c'è di meglio che morire? È un'accusa per tutti,
ma è un'accusa giusta. Perché ormai siamo buoni solo a dare medicine,
e non siamo buoni ad altro".
Il sacerdote teologo Padre Gino Ciolini, sia pure manifestando il suo dissenso
di natura etica e religiosa sulla decisione di uccidere ed uccidersi, è
comunque consapevole dei motivi reali della tragedia.
"Non lo giudico - dice - nel senso che comprendo la forza del suo dolore.
Così come sono d'accordo nel dire che è questa società
che spinge, e non solo spinge, ma insegna a sopprimere la vita, diventata inutile
dal punto di vista produttivo. E allora non è più l'uomo che uccide,
ma la società che ha ucciso l'uomo ossessionato dall'idea di non servire
più a nulla e a nessuno.
Ma questa è una cultura nichilista, per la quale uno non vale più
perché non produce più".
Da parte mia io mi domando però che cosa sarebbe accaduto a questo uomo
se, casualmente, come è successo ad altri, non fosse riuscito a uccidersi.
Come sappiamo, sarebbe inevitabilmente caduto nelle mani degli psichiatri, che
avrebbero completato il lavoro di svalutazione della sua esistenza, e, sul piano
generale, avrebbero gettato la cortina fumogena intorno al vero significato
di questa vicenda.
III
Nella storia italiana di questi anni, dopo il successo de "L'istituzione
negata" uscita nel 1968, e il varo della Legge 180 dieci anni dopo, gli
psichiatri più in vista, da Trieste fino a Napoli, da Milano fino a Palermo,
hanno cominciato a fare a gara per distinguersi in bravura in quel progetto
che si è soliti chiamare "superamento del manicomio".
Altri si sono affrettati a lasciare il manicomio, che per lo più loro
stessi avevano difeso dalle critiche e contribuito ad alimentare, pensando di
qualificarsi meglio nelle attività degli ospedali civili e del territorio.
Le cliniche universitarie sono rimaste immutate, come se nulla fosse accaduto,
e hanno continuato, quasi senza eccezione, nella difesa delle concezioni psichiatriche
ortodosse e nell'insegnamento dei concetti tradizionali. Ogni tanto ripropongono
nuove ipotesi biochimiche (arbitrarie) che naturalmente possono essere applicate
a chi si vuole.
Così dovunque si è riconfermato, sia pure a volte in forme apparentemente
diverse, il controllo sociale come funzione specifica dello psichiatra per il
mantenimento dell'ordine di cui hanno bisogno le gerarchie, l'ideologia d'élite,
l'intolleranza di pensiero, e l'arretratezza dei costumi.
Non bisogna dimenticare, tra l'altro, che la persecuzione dei dissidenti mediante
gli strumenti della psichiatria è stata un fenomeno italiano, molto prima
che sovietico, ed era, come tutti sanno, il cavallo di battaglia di Lombroso.
Negli ultimi anni, dopo la parentesi del '68, le distinzioni sociali hanno riacquistato
credibilità e prestigio e ora quasi più nessuno le discute. D'altra
parte il sostanziale conformismo degli addetti ai lavori in psichiatria, vecchia
e nuova, è indiscutibile, ed è una garanzia per tutti. Gli psichiatri
si sono accorti che possono funzionare benissimo mantenendo tutti i loro vantaggi
culturali o economici, e possono continuare a eliminare le persone scomode,
anche con le forme giuridiche, debolmente riformiste e fortemente ambigue, della
nuova legge del '78. Solo i meno intelligenti, tra cui gli universitari, vorrebbero
reintrodurre forme giuridiche più antiquate.
Fin tanto che la legge prevede gli interventi autoritari e il trattamento sanitario
obbligatorio la psichiatria non corre rischi e la società dei benpensanti
può continuare a ritenersi sicura.
IV
In una cultura in cui lo scopo dell'individuo non è migliorarsi dal punto
di vista intellettuale o etico, o dal punto di vista della conoscenza, o della
creatività, o della profondità interiore, ma il fine è
essere al di sopra degli altri nella gerarchia sociale con tutti i mezzi a disposizione
(a volte legali, a volte no), c'è bisogno di qualcuno da disprezzare.
Ci sono le mode ricorrenti che possono essere gli ebrei, i negri, oppure i brigatisti
o i drogati, però ci vogliono anche strati di popolazione perennemente
squalificati come, ad esempio, i ricoverati psichiatrici o gli indiziati della
psichiatria.
L'ultimo dei cittadini può sempre dire, anche se la cosa non ha alcun
senso: "Però io sono normale", e sentirsi così qualcuno.
Allora ci vuole qualcun altro a cui dare la colpa di tutti i propri mali legati
alle disarmonie e ai disagi della società.
I potenti della politica sanno benissimo (come Hitler) quale può essere
l'utilità di questi pregiudizi per il mantenimento del proprio potere
autoritario.
In società come queste i funzionari, sia tecnici che amministrativi,
insieme alla schiera monotona dei loro dipendenti, ripetono la caratteristica
mentalità del personaggio Gogoliano de "Le Anime Morte" Pavel
Ivanovic Cicikov.
Lascio la parola direttamente a Gògol:
Manìlov finì di smarrirsi. Egli sentiva che qualche cosa doveva
fare, porre qualche domanda: ma quale domanda - il diavolo lo sapeva.
Finì, alle strette, che sbuffò di nuovo il fumo, ma questa volta
non più dalla bocca, bensì dagli orifizi nasali.
- E così, se non c'è nulla in contrario, si potrebbe, a Dio piacendo,
passare alla stipulazione dell'atto di vendita - disse Cicikov.
- Ma come, un atto di vendita d'anime morte?
- Ah, niente affatto! - disse Cicikov - Noi scriveremo che sono persone vive,
come figura effettivamente nella lista di censimento.
Io mi sono fatto la regola di non derogare mai in nulla dalla legalità;
benché per questo, nella mia carriera di funzionario, abbia passato guai,
poco importa: il dovere, per me, è una cosa sacrosanta; la legge - io
ammutolisco dinanzi alla legge. Quest'ultime parole piacquero a Manìlov,
ma nel nocciolo della questione non riuscì tuttavia a penetrarci più
che tanto: e, invece di dare una risposta, si mise a succhiare il suo bocchino
così di forza, che quello cominciò, alla fine, a rantolare come
un contrabbasso.
V
Nessun valore e nessuna qualità sono mai riusciti a sottrarsi alle insidie
dei pregiudizi.
A Vienna si diceva che Beethoven fosse seminfermo di mente perché criticava
le autorità a voce alta nei locali pubblici, non apprezzava le divise
militari, era diffidente, viveva solitario. Così pare che l'autore del
quartetto opera 132 avesse il cervello un po' difettoso...
Robert Schumann, dopo il tentativo di suicidio, fu costretto a morire in manicomio.
La stessa fine fu imposta a Hugo Wolf.
Sulla pazzia di Vincent Van Gogh sono state scritte pagine intere su libri molto
qualificati. E anche per Van Gogh ci fu l'internamento. E si potrebbe continuare
a lungo con molti altri esempi.
Però non serve.
A noi ci basta caso mai domandarci se non sarebbe utile per la conoscenza della
psicologia dell'uomo cominciare a ragionare in termini diversi.
Come preludio alla civiltà dei lager e di Hiroshima scriveva Franz Kafka
(che resterà probabilmente lo scrittore più grande del nostro
secolo):
“Nessuno leggerà ciò che io scrivo qui, nessuno verrà ad aiutarmi; se fosse imposto come compito di darmi aiuto, tutte le porte di tutte le case resterebbero chiuse, tutti giacerebbero a letto, le coltri tirate sopra la testa, tutta la terra un albergo notturno. Con ragione, poiché nessuno sa della mia esistenza, e se lo sapessero non saprebbero la mia dimora, e se sapessero la mia dimora non saprebbero come trattenermici, non saprebbero come venirmi in aiuto. Il pensiero di volermi venire in aiuto è una malattia da curarsi stando a letto.
Lo so e quindi non grido per invocare aiuto, anche se in certi momenti - indomito come sono, per esempio appunto ora - ci pensi fortemente. Ma a scacciar questi pensieri basta che mi guardi intorno e mi renda conto del luogo ove sono e dove - questo posso ben affermarlo - io abito da secoli”.
(Il cacciatore gracco da "Il messaggio dell'imperatore" Frassinelli p. 38).
Non si deve dimenticare che Kafka, prima di morire, voleva bruciare tutta la
sua opera.
Nell'anno mille si meditava sulla fine del mondo in termini religiosi, forse
consapevoli della fragilità della specie di fronte ad alcune catastrofi
della natura come la fame o la peste. Ora, mille anni dopo, l'uomo copernicano
riflette sulla fine della specie come opera propria.
La solitudine e l'individualismo degli esistenzialisti in conflitto con l'ottimismo
storicistico di Hegel o di Benedetto Croce (quest'ultimo pensava che il fascismo
fosse solo una parentesi) ha anche appunto questo significato di riflessione
sulle possibilità della morte collettiva.
Karl Jaspers, ad esempio, segue e sviluppa questi temi in saggi come "La
norma del giorno e la passione per la notte", "L'essere nel naufragio",
e i brani di riflessione sulla morte e sul suicidio come situazioni-limite nell'esserci
e come ponte verso la trascendenza.
Come psichiatra e come libero docente in psicologia Karl Jaspers nella "Psicopatologia
generale", pubblicata nel 1913, servendosi del metodo fenomenologico di
Edmund Husserl, considera la psicopatologia come parte della psicologia. Professore
di filosofia all'università di Heidelberg fu esonerato dall'insegnamento
nel 1937 per la sua opposizione al nazismo.
Così a me sembra che la cultura filosofica e politica di Jaspers travalichi
i limiti della sua preparazione di psichiatra.
Infatti il suo saggio sulla vita di Van Gogh appare, a mio giudizio, estremamente
contraddittorio.
Scriveva Vincent Van Gogh nella sua ultima lettera incompiuta al fratello Theo,
che fu scritta il 27 luglio 1890, il giorno in cui il pittore si sparò
un colpo di pistola, e che gli fu trovata addosso dopo la sua morte:
(Auvers-sur-Oise, 27-7-1890)
Mio caro fratello,
grazie della tua cara lettera e del biglietto di 50 fr. che conteneva. Vorrei scriverti a proposito di tante cose, ma ne sento l'inutilità. Spero che avrai trovato quei signori ben disposti nei tuoi riguardi.
Che tu mi rassicuri sulla tranquillità della tua vita familiare non valeva la pena; credo di aver visto il lato buono come il suo rovescio - e del resto sono d'accordo che tirar su un marmocchio in un appartamento al quarto piano è una grossa schiavitù sia per te che per Jo. Poiché va tutto bene, che è ciò che conta, perché dovrei insistere su cose di minima importanza? In fede mia, prima che ci sia la possibilità di chiacchierare di affari a mente più serena passerà molto tempo. Ecco l'unica cosa che in questo momento ti posso dire, e questo da parte mia l'ho constatato con un certo spavento e non l'ho ancora superato. Ma per ora non c'è altro. Gli altri pittori checché ne pensino, si tengono istintivamente lontani dalle discussioni sul commercio attuale.
E poi è vero, noi possiamo far parlare solo i nostri quadri.
Eppure, mio caro fratello, c'è questo che ti ho sempre detto e che ti ripeto ancora una volta con tutta la serietà che può provenire DA UN PENSIERO COSTANTEMENTE TESO A CERCARE DI FARE IL MEGLIO POSSIBILE, te lo ripeto ancora che ti ho sempre considerato qualcosa di più di un semplice mercante di Corot, e che tu per mezzo mio hai partecipato alla produzione stessa di alcuni quadri, che, pur nel fallimento totale conservano la loro serenità. Perché siamo a questo punto, e questo è tutto o per lo meno la cosa principale che io possa dirti in un momento di crisi relativa. In un momento in cui le cose fra i mercanti di quadri di artisti morti e di artisti vivi sono molto tese.
Ebbene, nel mio lavoro ci rischio la vita e la mia ragione vi si è consumata per metà - e va bene - ma tu non sei fra i mercanti di uomini, per quanto ne sappia, e puoi prendere la tua decisione, mi sembra, comportandoti realmente con umanità. Ma che cosa vuoi mai?
Si racconta che Kafka, prima di morire per la sua tubercolosi polmonare, disse
al medico invitandolo ad affrettare la sua morte: "Mi uccida, altrimenti
è un assassino".
Van Gogh aveva affrontato con piena partecipazione personale i problemi dell'uomo
del nostro tempo e, per riprendere le sue parole, la sua ragione vi si era consumata
per metà.
Poiché, com'è logico, i suoi costumi uscivano fuori continuamente
dalle regole del conformismo e della mediocrità, già il padre
dell'artista nel 1882, e ottanta cittadini di Arles in una petizione al sindaco
nel 1889, chiedevano il suo internamento in manicomio.
Però se non desta meraviglia che dei piccoli borghesi conservatori si
scandalizzassero di fronte alla personalità di Van Gogh, più problematico
e più discutibile appare il giudizio di un uomo come Jaspers.
Scrive il filosofo:
"Che Van Gogh soffrisse di un processo psicotico è fuor di dubbio.
Ci si chiederà soltanto di che tipo fosse questo processo, quale sia la diagnosi.
Trovo infondata la diagnosi di epilessia formulata dai medici di Van Gogh, perché mancano gli attacchi epilettici e la demenza caratteristica di questa malattia. Può trattarsi unicamente di schizofrenia o di paralisi generale; quest'ultima non si può escludere con certezza perché l'occasione di una infezione sifilitica si deve essere presentata spesso nella vita di Van Gogh. La paralisi è dimostrabile solo a partire da sintomi fisiologici, e noi non ne abbiamo notizia.
L'unica cosa che potrebbe suggerirla è il carattere caotico di certe tele dell'ultimo periodo e un accenno del pittore all'instabilità della mano.
Il mantenimento del senso critico e della disciplina attraverso due anni di violente crisi psicotiche è estremamente improbabile nel caso di una paralisi, nella schizofrenia sarebbe insolito, ma possibile. Mi sembra dunque più verosimile che si tratti di schizofrenia.
Lo psichiatra, per scrupolo deve richiamare l'attenzione su una lieve possibilità di dubbio che non esiste a proposito di Holderlin o di Strindberg. Il suicidio di Van Gogh ci priva di quella eventuale certezza che l'evoluzione ulteriore della sua vita avrebbe potuto darci".
Jaspers dunque prende in considerazione tre possibili ipotesi diagnostiche.
La prima sarebbe una diagnosi neurologica, secondo le indicazioni dei medici
di Van Gogh, che attribuirebbe all'artista una sindrome di tipo epilettico.
Però - come dice lo stesso Jaspers - mancano gli attacchi epilettici.
E mancherebbe anche quella che Jaspers definisce in modo tutt'altro che chiaro,
"la demenza caratteristica di questa malattia".
La seconda ipotesi diagnostica è ancora una ipotesi neurologica di paralisi
generale, che secondo Jaspers non è dimostrabile non essendo presenti,
secondo quanto sappiamo, i sintomi caratteristici di questa malattia infettiva.
Poiché la sifilide allo stadio di infezione cerebrale compromette le
funzioni della vita di relazione Jaspers nota giustamente che in Van Gogh il
senso critico e le capacità di vita di relazione sono intatti come del
resto abbiamo visto nella sua ultima lettera al fratello Theo che abbiamo citato.
Rimane in fondo l'ultima ipotesi diagnostica, che non è più, come
le prime due, una ipotesi neurologica, ma è la schizofrenia, un giudizio
psichiatrico.
Però Jaspers, e questo va detto a suo vantaggio, appare terribilmente
incerto: "Il mantenimento del senso critico e della disciplina... nella
schizofrenia sarebbe insolito, ma possibile".
Infatti in definitiva, come si è visto, nella schizofrenia è possibile
tutto e nulla, secondo i pregiudizi di chi formula la diagnosi.
Ricordo dai miei studi universitari che il Gozzano diceva: "Lo schizofrenico
è capace di tutto, perfino di comportarsi bene".
In ogni modo, nonostante le sue incertezze, Jaspers dichiara, come si è
visto, che è fuor di dubbio che Van Gogh soffrisse di un processo psicotico.
L'aggettivo psicotico deriva dal sostantivo psicosi.
Secondo R. A. Hunter e I. Macalpine, il termine di psicosi è stato introdotto
nel 1845 da Feuchtersleben nel suo manuale di psicologia medica" (Lehrbuch
der arztlichen Seelenkunde) per designare la malattia mentale (Seelenkrankheit),
mentre nevrosi si riferisce alle affezioni del sistema nervoso di cui solo alcune
possono tradursi nei sintomi di una psicosi.
Il termine è composto dalla parola "psiche", che significa
in greco "anima" e che deriva dal termine indoeuropeo "psychein"
che significa "soffiare", e dal suffisso medico "osi".
Il suffisso medico "ose" in tedesco e "osi" in italiano
viene usato nei trattati di patologia per indicare le degenerazioni delle cellule,
degli organi e dei tessuti.
Applicato arbitrariamente alla psicologia (psicosi, nevrosi) è un modo
di esprimersi, non solo generico, ma quello che più conta diminutivo
per non dire dispregiativo nei riguardi delle persone a cui queste definizioni
vengono attribuite.
In termini più popolari si usano anche le espressioni "degenerato"
e "pervertito" specialmente nei casi in cui ci si riferisce ai problemi
della sessualità. Sister, mother and brother are Incest Hentai Video. See the source website.
Per il tradizionale significato di "degenerato" riprendo da F. Rinuccini
che scrive "moralmente pervertito"; e dal Dizionario moderno di A.
Panzini del 1905 dove è scritto: "di questa voce oggi molto si usa
ed abusa per indicare coloro i quali per abitudini, gusti, qualità morali
e fisiche, ereditarie o acquisite, si allontanano dallo stato normale fisiologico,
sano, e tendono a forme squilibrate, pervertite e anormali del vivere individuale
e sociale".
Sigmund Freud nei "Tre saggi sulla teoria della sessualità"
basa appunto la sua ricerca sulla distinzione tra attività sessuali normali
e attività sessuali anormali, precludendosi così a mio parere
uno studio effettivo del problema.
Anche in Freud, che pure ha intuito e descritto molti aspetti profondi della
problematica sessuale, la distinzione tra normale e anormale, sano e patologico
(naturalmente riferita alla vita interiore e al comportamento dell'uomo), è
una esclusiva derivazione dei pregiudizi moralistici.
La conoscenza della sessualità comincerà a prendere forma soltanto
dopo con le opere di Wilhelm Reich e con gli studi successivi di alcune esperte
degli Stati Uniti collegate col movimento femminista americano, e, più
o meno direttamente, col pensiero di Thomas Szasz.
Ritornando un momento, dopo questa divagazione filologica e scientifica, al
significato etico e sociale di Van Gogh e della sua opera, riporto qui alcune
annotazioni interessanti sull'artista da "l'Enciclopedia dell'Arte Tumminelli"
dell"Istituto Editoriale Europeo" alla voce Van Gogh: "... Innamoratosi
(1873) della figlia della sua padrona di casa a Londra, ne venne respinto e
lo scacco e la delusione provati lo spinsero a ricercare una consolazione nello
studio della Bibbia. Ossessionato da questa vocazione religiosa, nel 1877 decise
di avviarsi agli studi teologici per diventare pastore protestante come suo
padre; poi, per alcuni mesi, si dedicò all'apostolato sociale (1878)
tra i minatori del Borinage, in Belgio. Infine nel 1880 decise di dedicarsi
alla pittura, vedendo in essa il mezzo per realizzare anche la sua vocazione
religiosa e umanitaria. Ebbe così inizio la sua attività di pittore
solitario, anticonformista...".
"... Nelle sue tele esplodono ora la luce e il colore: ricorrendo alle
tecniche più varie, Van Gogh fissa i caratteri essenziali degli uomini
e dei paesaggi in colori contrastanti o in accordi imprevisti, in contorni calcolati,
incisivi nella voluta deformazione, quasi per mettere a nudo l'essenza più
intima della realtà".
Kafka, nell'esprimere gli stessi problemi, scriveva nei "Diari":
"L'uomo non può vivere senza una costante fiducia in qualche cosa
di indistruttibile dentro di lui. Credere significa liberare l'indistruttibile
dentro di sé o, meglio, essere indistruttibile o, meglio, essere".
Il 29 luglio 1890 Van Gogh moriva, a 37 anni di età, e "il 30, sotto
un sole implacabile, si svolgono i funerali, con qualche difficoltà dovuta
al fatto che il prete cattolico di Auvers si rifiuta di benedire la salma e
di fornire il carro funebre perché il defunto è un suicida".
Dal "Campo di grano con corvi" l'ultimo dei suoi paesaggi sembra che
gli uccelli neri escano fuori dal quadro per volare verso il nostro secolo.