I pregiudizi e la conoscenza critica alla psichiatria
di Giorgio Antonucci
I miei capelli arruffati
I miei capelli arruffati sfidano il pettine.
Io mi consumo, e chi se ne accorge?
Anonimo cinese
Quando mi hanno portata qui avevo dodici anni. Mio padre era morto da una settimana.
Mia madre l'hanno portata via che gridava e non ho saputo più nulla.
Non sapevo bene che cosa volesse dire morire e non avevo capito granché
di quello che mi succedeva.
Quando da bambina passavo le ore intere e spesso anche le giornate dall'alba
al tramonto sotto il sole infuocato seduta sulle radiche degli ulivi, oppure
quando sentivo il profumo della terra e il mormorio chioccio delle galline quando
passavo le sere senza stelle ad ascoltare nel buio i canti degli animali notturni,
non avevo avuto motivo di aver paura di vivere. La tempesta mi pareva una gioia
del cielo e un'amica degli alberi. Il vento mi raccontava novelle piene di splendori
e mi dava notizie di luoghi al di là dell'orizzonte. L'acqua del fiume
era bella come la luce del sole. Infine il silenzio, il silenzio della campagna
nelle notti di quiete e nei pomeriggi di sole! Gli odori della terra non si
cancellano attraverso gli anni, eppure io sono stata salvata dal silenzio, dal
trasparente silenzio della mia infanzia: il silenzio in cui sono nata, il silenzio
in cui sono cresciuta... e ora, dopo mezzo secolo, il silenzio in cui vivo,
dimenticata da tutti.
Mio padre si era dovuto tagliare un dito, perché gli era divenuto marcio dopo una puntura con la falce, però lavorava bene lo stesso con le altre dita e con tutt'e due le mani quando legava le viti. Ricordo che allora i pagliai erano cupole tutte dorate. Allora quando andavamo al campo del grano usava la vanga per rigirare la terra e la zappa per rompere le zolle e si asciugava la fronte con la manica della camicia e beveva il vino dal fiasco per sopportare i raggi infocati del sole, e tra una giornata e l'altra, quando arrivava il sollievo della sera, appoggiava la schiena sul vecchio mandorlo, socchiudeva gli occhi, e cantava.
La porta di legno duro, con tutta la forza delle unghie non si potrebbe neanche scalfirla. La luce l'accendono dall'esterno dopo aver guardato dallo spioncino. Le chiavi, quando cigolano nelle serrature, sembrano un rodimento ai polmoni. Il letto è inchiodato a terra, la mia bocca è fissata alla spalliera da un lenzuolo bagnato. Ogni tanto mi slegano per pulire e mi tengono a distanza con un punteruolo. La maschera sulla bocca m'impedisce anche di sputare. Mordere non potrei perché non ho più denti. Nessuno può restituirmi quello che mi è stato tolto.
Eppure ancora oggi sarei disponibile a viverla con gioia la mia vita, nonostante che la mia giovinezza sia stata uccisa qui dentro.