I pregiudizi e la conoscenza critica alla psichiatria
di Giorgio Antonucci
Lettera da un istituto psichiatrico
I miei giorni sono passati via più leggermente che la spola del tessitore e sono venuti meno senza speranza.
Dal libro di Giobbe
Il ghetto di Dachau era più pulito, all'esterno aveva un aspetto perfino
piacevole a vedersi, poteva sembrare una serra dove si coltivano i fiori più
rari che vengono da paesi lontani, certamente non stonava tra i boschi profondi
di quell'antica regione della Germania: si trattava di una criminalità
di stato amministrata con responsabilità e con discrezione secondo i
criteri aziendali più moderni.
A Dachau le vittime sparivano in silenzio, "il cammino della storia ha
bisogno di uomini donne e bambini che rinunciano", ma tutto ciò
deve avvenire senza clamore: i dirigenti lavoratori dell'ordine nuovo, gli uomini
sani onesti buoni fedeli devono procedere sicuri, senza nessun turbamento.
Ma la mia storia non finisce a Dachau: fui liberato dopo dieci anni di detenzione,
ero un prigioniero politico con una condanna a scadenza: nel '43 il conflitto
era nel momento più critico e più violento, la Germania di Hitler
cominciava a prevedere la sua fine.
Io ormai non avevo più nessuno, a trentatré anni mi trovavo completamente
solo in un mondo che secondo me, in mezzo alle sue disgustose violenze e ai
suoi avvenimenti insensati, non aveva nessuna prospettiva, nessun futuro.
Non parlo della Germania di Hitler, né dei disastri e delle ingiustizie
della mia vita personale, piuttosto queste esperienze disperate mi avevano convinto
che quello era soltanto l'inizio di un mondo che avrebbe fatto dell'eccidio
e della discriminazione la sua caratteristica più rilevante, anzi la
sua regola e il suo significato, se di significato si può parlare - questo
dunque era quel "mondo dei fini", di cui mi aveva parlato mio padre,
studioso di Kant, prima che l'uccidessero mediante impiccagione perché
politicamente sospetto.
Anzi, i miei primi anni erano stati felici in un ambiente culturale effimero
(e ora mi rendo conto falso) ma apparentemente ricco di valori, tra la solida
saggezza di Goethe e la profondità riflessiva delle Cantate chiarissime
e belle (anche se un po' misteriose) di Giovanni Sebastiano Bach, quasi il nume
tutelare della nostra famiglia, come di molte famiglie di ingenui e forse un
po' ipocriti piccoli borghesi della Germania.
Non vale trastullarsi con la grandezza dei poeti e con la dialettica dei filosofi
quando il crimine e il sopruso continuano a essere padroni del mondo.
Ma tornando alla mia storia più recente, quando uscii da Dachau fui
mandato nelle truppe di punta operanti in Italia come soldato specialista, nel
pericoloso settore dei guastatori. Ne ero quasi contento, speravo di morire,
speravo di essere annullato, non volevo niente, ma quello che volevo meno di
tutto era il ritorno a casa, non avevo paura delle mine, né dei mitra,
né delle esecuzioni sommarie, né dei carri armati che passavano
diritti sulla carne viva dei miei compagni di violenza e di morte, quello che
più mi faceva paura, quello che trovavo insopportabile, quello che trovavo
intollerabile e disgustoso era il ritorno, il ritorno a quella che sarebbe stata
ipocritamente definita una nuova vita normale. Ma nonostante le azioni più
audaci, nonostante i momenti più pericolosi (molti come me facevano di
tutto per essere uccisi), nonostante il furore che avevo dentro di me per dileguarmi
e sparire, nonostante tutto ti dico caddi prigioniero e la mia vita fu salva:
e quanti ne ho visti che volevano vivere e cadevano subito alla prima azione
nei modi più assurdi e ridicoli, magari sparati alle spalle per errore
dai loro compagni di squadra o uccisi da un tiro corto della nostra artiglieria!
Ma queste sono inezie, t'assicuro sono inezie nella vita d'un uomo!
L'essenziale è da un'altra parte, magari nelle pagine ingiallite di un
trattato di filosofia, di un libro di Hegel gelosamente custodito in una preziosa
biblioteca di Heidelberg!
Ho cominciato col dirti che il ghetto di Dachau era più pulito e se
vuoi era anche più logico, più pulito e più logico dell'insensato
cortile di cemento dove sono ormai segregato e dimenticato da più di
vent'anni.
Qui nessuno dei miei compagni parla se non da solo, qui molti si salvano seguendo
le vie innumerevoli e meravigliose dell'immaginazione (i nostri guardiani ci
chiamano deliranti), qui chi non crea continuamente mondi immaginari come i
poeti più fantasiosi, prima o dopo cerca di sfuggire ai guardiani per
raggiungere i binari della ferrovia, per spezzettarsi sotto il treno, unica
via di scampo.
A Dachau era possibile uccidersi o farsi ammazzare, qui riesce di rado.
Qui non sei più nessuno, qui non puoi decidere più nulla. Qui
dentro nella tua ultima ricerca disperata di un significato sia pure illusorio
della tua indescrivibile condizione umana sei considerato senza cervello e ti
sorvegliano di continuo anche al gabinetto, e se parli ridono e ti sputano addosso
con un disprezzo e con una ottusità che anche noi che abbiamo provato
tutto stentiamo a sopportare.
Purtroppo durante la prigionia in un campo americano nelle vicinanze di Napoli,
io avevo tentato di sparire, ma il colpo di pistola di cui mi ero servito mi
attraversò la bocca e il collo senza uccidermi.
Così sono qui dentro e ci resto, ho passato anni interi immobile in cella
o in un angolo del cortile, ho ripercorso tutta la mia vita passata, ho udito
di nuovo le promesse di felicità di Goethe e di Bach, ho riascoltato
la voce chiara e serena di mio padre acceso di entusiasmo per il ragionare pacato
e penetrante di Immanuel Kant e degli Illuministi, ho rivissuto sussultando
la violenza dei Lager e dei campi di battaglia, ho sognato spesso i boschi profondi
e i larghi fiumi della mia terra d'origine, ho parlato e mi sono agitato da
solo perché ormai nessuno mi si rivolgeva più se non per insultarmi,
ma tutto questo ti assicuro non vale niente, non serve a nessuno, e se mi offrissero
di uscire mi rifiuterei, non tornerei per nessuna ragione in un mondo che sopravvive
soltanto per nascondersi la sua disumanità e il suo non senso, preferisco
restare qui più vero più genuino più autentico perché
ormai inchiodato nella mia lucidità e nella mia immutabile disperazione.
Dicono che sono dissociato perché non mi associo più all'ipocrisia
del mondo - non vedo il vestito dell'Imperatore anche se non c'è -, dicono
che sono un delirio di disastro perché una volta ho gridato che Hitler
non era nessuno se non un modesto precursore, dicono che c'è un'ombra
inspiegabile che d'improvviso si è impadronita della mia mente.
Sembrano molto compassati e tranquilli - sono i custodi dell'ordine, sono i
custodi e i guardiani della verità e della saggezza - ma diventano feroci
e spaventosamente agitati ogni volta che qualcuno di noi tenta ancora di dire
qualcosa, di parlare, di spiegarsi, di mescolarsi con loro.
Una volta sono stato in camicia di forza per un mese di seguito, non me la toglievano
neanche per i pasti, e mangiavo per terra acchiappando il cibo con la bocca
e strisciando nel cortile come una biscia - e tutto questo perché avevo
avuto l'imprudenza di dire a una suora sorvegliante che la croce di Cristo è
una truffa e che gli Apostoli forse avevano capito che la morte di Gesù
non era servita a niente.
Ricordi Federico Nietzsche, ricordi gli Apostoli che si domandano davanti al
corpo torturato e ucciso del Maestro “Chi era costui? Che cos'era costui?
Cosa voleva?".
Forse te ne ricordi, forse no. Ma non importa. Piuttosto sai dirmi tu che cos'è
questa saggezza che per sopravvivere ha bisogno di asservire o di uccidere milioni
di persone? Piuttosto sai dare una risposta a questa vita normale che ha attraversato
Auschwitz e Treblinka, e che è passata su Stalingrado, su Dresda, su
Hiroshima, su Nagasaki?
Non ascoltare le mie domande, dimenticami, dimenticami, dimenticami presto e
continua a seguire la via della saggezza, ch'è più sicura, che
è più serena, forse è falsa come dico io, forse mi sbaglio,
ma sicuramente in quella direzione potrai illuderti di vivere, magari di una
vita artificiale, magari di un'esistenza finta come quella dei burattini che
saltano sotto i fili nei piccoli teatri di periferia delle grandi e delle piccole
città di quel mondo che io ho rifiutato e che per non mettersi in discussione
mi ha confinato dietro le mura gialle sporche e assolate di questo squallido
istituto di pena.