clicca qui per andare al sito Filiarmonici, per un mondo senza galere

Architetture per sorvegliare e punire

Massimo Leone

Golem, n. 1, gennaio 2003

In Austerlitz (2001), ultima opera letteraria di Winfried Georg Sebald (1944-2001), l'alter-ego narrativo dell'autore incontra ripetutamente Austerlitz, personaggio solitario e singolare, di cui il romanzo svela poco a poco tutta la tragica esistenza grazie ad un accumulo e ad una superposizione di dettagli magistralmente orchestrata dallo scrittore. Impossibile riassumere in poche righe il denso arcipelago di interessi, preoccupazioni e manie che costella la trama del libro. I motivi che compaiono e scompaiono con ritmo alternato, irregolare, ma non disordinato - in una storia che si sviluppa come il flusso di un fiume carsico - sarebbero addirittura insopportabilmente eterogenei se non vi fosse un esile filo rosso a legare insieme tutti gli elementi del testo, costituendone una sorta di struttura portante: la storia dell'architettura.
Questo è, infatti, il campo disciplinare nel quale Austerlitz ha esercitato la professione di ricercatore e professore universitario per diversi anni, inseguendo un progetto di ricerca assai particolare: ricostruire la storia delle mentalità (specie giuridiche) attraverso la storia delle forme architettoniche nelle quali esse si sono incarnate, hanno vissuto e si sono persino riprodotte. In Austerlitz, gli esempi di una tale prospettiva di ricerca non mancano. Ogni volta che l'io-narrante, simulacro della voce di Sebald, s'imbatte, perlopiù casualmente, nel trasognato e malinconico storico dell'architettura, questi gli rivela gli scenari insospettabili che si celano dietro le linee, apparentemente insignificanti, della costruzione civile. Durante un incontro fortuito sui gradini del Palazzo di Giustizia di Bruxelles, Austerlitz intrattiene il suo interlocutore con alcune note su "quella mostruosità architettonica", la cui imponenza progettuale, dettata dalle ambizioni smisurate della borghesia belga, era sfuggita ad un controllo razionale, risultando in una costruzione labirintica, composta di diverticoli e altri luoghi dell'assurdo kafkiano. L'umanesimo architettonico col quale il personaggio inventato da Sebald si oppone a questo dominio dell'edificio sull'individuo si potrebbe riassumere come segue:

"Prima o poi [...] bisognerebbe catalogare i nostri edifici, ordinandoli secondo le dimensioni: si scoprirebbe subito che a prometterci almeno un barlume di pace sono proprio quelli collocati al di sotto delle normali dimensioni dell'architettura domestica - la capanna, l'eremo, le quattro mura del guardiano delle chiuse, la specola di un belvedere, la casetta dei bambini in giardino [...]."
(Sebald 2001, 25-6)

Le altre costruzioni sono dei mostri disumani, oggetto di una tetralogia dell'architettura che, in Austerlitz, si nutre di svariate analisi brillanti, ad esempio quella sulla nuova biblioteca nazionale di Francia, oppure quella sulla Gare d'Austerlitz, a Parigi, la cui genealogia architettonica è legata da fili lunghi, sottilissimi e (ancora una volta) tragici, a quella dell'omonimo personaggio.

Mi sembra però che Sebald dedichi le sue pagine migliori all'architettura militare e penitenziaria, ad esempio quando descrive le casematte di Fort Breendonk, in Belgio, ove i Tedeschi, dal 1940 al 1947, organizzarono un lager. Nelle prosa nitida con la quale Sebald trascrive il ricordo di una visita alle carceri naziste, si coglie bene come le forme del penitenziario, le linee e i piani che ne costituiscono l'involucro esteriore e che ne disegnano la facies interna, sono vestigia del disperato destino di tutto un popolo, ma anche della lucida follia dei suoi sterminatori. Mi pare che questo esempio di esegesi dell'architettura si possa estendere, in generale, a tutte le costruzioni penitenziarie o carcerarie che, soprattutto a partire dal diciassettesimo secolo in poi, hanno dato corpo alle varie attitudini e mentalità giuridiche concernenti la giustizia, la colpa e la pena.

Costruire prigioni
Traccerò, qui di seguito, una rapida rassegna dell'architettura carceraria, la quale meriterebbe, senza dubbio, un'attenzione più serrata da parte degli storici del diritto, delle idee giuridiche e della cultura (1).
L'attitudine dei Greci nei confronti della detenzione, per quanto si è potuto ricostruire sulla base dei documenti letterari, delle raffigurazioni artistiche e delle tracce archeologiche, non aveva una sua conformazione precipua, tanto che questo popolo, con molta probabilità, non destinò alcun edificio specifico allo scopo penitenziario. Il reo, in effetti, perlomeno fino alle teorie illuministe che cominciarono a configurarsi in Europa e negli Stati Uniti dalla seconda metà del Seicento in poi, non era considerato generalmente come un individuo da riabilitare, da riannettere al corpo della società, ma una sorta di rifiuto, di scoria pericolosa da eliminare al più presto e con il minor costo possibile. Ecco perché la maggior parte degli storici dell'architettura penitenziaria segnala che, chi volesse andare in cerca di luoghi architettonici specificatamente destinati alla detenzione - per il periodo storico antecedente alle grandi riforme carcerarie del Seicento- resterebbe deluso: divenivano "prigioni" spazi già esistenti, i quali, a causa del loro eccessivo deterioramento strutturale, non potevano essere consacrati ad alcuna altra funzione che a quella di ospitare, sia pur brevemente, i colpevoli (o ritenuti tali), prima della loro esecuzione o del loro esilio.

L'iconografia dei martiri cristiani di epoca romana, così diffusamente ripresa sia dalle versioni letterarie delle gesta dei primi eroi della nuova fede, sia da tutta l'iconografia (sia pittorica che filmica) della persecuzione, hanno però tramandato al nostro immaginario dei secoli passati un'idea alquanto diversa del carcere romano. In effetti, le testimonianze archeologiche reperibili presso i blocchi del Tullianum o del carcere Mamertinum forniscono un'immagine della prigione romana che si differenzia da quella greca soprattutto per un principio di funzionalizzazione dello spazio carcerario. Vi persisteva il costume, per noi oggi scandaloso, della promiscuità sessuale durante la prigionia, ma vi si distinguevano un interior, luogo della detenzione vera e propria, e un esterior, che si potrebbe definire come lo spazio della comunicazione del carcere con la società circostante. Questo dialogo, fin dall'epoca romana, poteva svilupparsi in due momenti diversi: quello dell'incontro, per esempio le visite dei parenti o degli amici, e quello dell'esclusione dalla comunità, cioè l'esecuzione o la condanna. Come vedremo, questo è un problema generale dell'architettura carceraria, che richiede soprattutto un'oculata gestione della comunicazione interna ed esterna; gran parte delle soluzioni architettoniche escogitate in questo settore delle costruzioni civili, infatti, non ha avuto altro scopo se non quello di regolare tali flussi di scambi (2).

Il passare del tempo ha confuso l'ordine cronologico delle pratiche e dei costumi, e invertito le reciproche influenze; è quindi invalsa l'opinione secondo cui il ritiro mistico-spirituale dal mondo profano sia stato mutuato dalla carcerazione giuridica. In realtà, gli storici del Medioevo hanno più volte ipotizzato un percorso esattamente contrario. È probabilmente sulla scorta dell'isolamento monastico in cellette individuali, che favorivano la preghiera e la meditazione dei religiosi, che, in epoca carolingia, furono costruiti i primi edifici carcerari dotati di una parcellizzazione minuta dello spazio di detenzione, secondo l'equazione: un uomo, una cella. A partire da questo dettaglio si coglie agevolmente quanto le attitudini, i progetti e le pratiche del castigo sociale e le sue legittimazioni giuridiche siano profondamente influenzati dall'immaginario cristiano della colpa e dell'espiazione, incluso il modo di concepire il contesto di tali momenti di purificazione.

Tra la fine del Medioevo e gli inizi del Rinascimento, l'architettura carceraria conobbe uno sviluppo di grande interesse, in relazione, credo, all'enorme importanza che dalla fine del Quattrocento in poi assunsero i reati detti di "alto tradimento" o reati politici. A questa epoca, mi sembra, risale una corrente della storia della cultura che considera il carcerato non soltanto il prigioniero dello stato o di una qualche altra struttura politica della società, ma un vero e proprio ostaggio del potere (Spierenberg 1995). Questa tradizione, che purtroppo continua sino ai giorni nostri, richiedeva un ripiegamento dell'architettura carceraria su se stessa, in modo che diversi livelli di segretezza potessero originarsi anche all'interno della pianta della prigione. In questo periodo si costruiscono i Piombi e i Fossi di Venezia, di cui la piuma di Casanova ci ha lasciato una descrizione imperitura (3). È questo il momento dell'edificazione dei grandi complessi carcerari europei, presto assurti a simbolo dell'onnipotenza statale nei confronti dell'individuo. Penso alla famigerata Torre di Londra, dal corredo così ricco di storie truci e leggende sanguinarie, e alla celebre Bastiglia di Parigi, la cui demolizione è diventata emblema della genesi del potere repubblicano e democratico (4) Solo a partire dalla seconda metà del diciassettesimo secolo però, è legittimo parlare della possibilità di una storia dell'architettura carceraria.
Le carceri di Napoli, Roma e Firenze, ad esempio, vengono profondamente ristrutturate a partire da questa epoca (5), secondo principi che sono soprattutto di razionalità architettonica ma che, con l'arrivo delle utopie settecentesche e dei progetti carcerari illuministi, trasformeranno il penitenziario nello specchio fedele di una precisa ideologia della colpa e della detenzione. Dal diciottesimo secolo in poi, infatti, le linee, i piani, le forme, le strutture, gli spazi vuoti e quelli pieni, e finanche l'arredamento delle carceri saranno improntati a questa o a quella filosofia giuridica, vuoi che, come prescriveva il sistema filadelfiano (o pensilvanico, così detto dal penitenziario di Walnut, inaugurato nel 1786), si perseguisse la riabilitazione del criminale per mezzo della sua reclusione diurna e notturna, vuoi che, secondo i dettami del sistema auburniano, nato in America ai primi dell'Ottocento, si preferisse un'alternanza di reclusione notturna e lavoro diurno collettivo.

L'occhio
Nessuna filosofia della detenzione, però, ha avuto un impatto più decisivo, non solo sulla costruzione delle carceri, ma sull'intero universo morale del crimine e dell'espiazione, di quella di Jeremy Bentham, l'inventore del Panopticon. Lascio la descrizione di questo modello, al quale si sono ispirati tutti gli architetti della seconda metà dell'Ottocento, alla descrizione del più acuto storico della prigionia, Michel Foucault:

"Il principio è noto: alla periferia una costruzione ad anello; al centro una torre tagliata da larghe finestre che si aprono verso la faccia interna dell'anello; la costruzione periferica è divisa in celle, che occupano ciascuna tutto lo spessore della costruzione; esse hanno due finestre, una verso l'interno, corrispondente alla finestra della torre; l'altra, verso l'esterno, permette alla luce di attraversare la cella da parte a parte. Basta allora mettere un sorvegliante nella torre centrale, ed in ogni cella rinchiudere un pazzo, un ammalato, un condannato, un operaio o uno scolaro. Per effetto del contro luce, si possono cogliere dalla torre, stagliantisi esattamente, le piccole silhouettes prigioniere nelle celle della periferia. Tante gabbie, altrettanti piccoli teatri, in cui ogni attore è solo, perfettamente individualizzato e costantemente visibile."
(Foucault 1975, 218)

Fortunatamente, altre filosofie della detenzione, più umane e rispettose dei diritti individuali, hanno preso il sopravvento nel ventesimo secolo, eppure il principio di voyeurismo onnipotente insito nel Panopticon, unito alla sua innegabile concisione di mezzi economici, ne fanno, ancora oggi, un modello di sorveglianza totale e mostruosamente efficace, che persiste, ad esempio, nella tremenda prigione che Spielberg ha immaginato nel mondo futuro del suo Minority Report (2002). Qui, un unico sorvegliante è in grado di dominare, grazie anche a quel sovrappiù di possibilità di controllo introdotto dalle nuove tecnologie, migliaia e migliaia di individui, ridotti allo stato vegetativo da una macchina che ne annulla il potere cerebrale. Tuttavia uno degli aspetti più interessanti di questo incubo cinematografico non risiede tanto nell'immaginazione del carcere vero e proprio, bensì nell'aver previsto come la società tutta, in preda alle logiche di una macchina statale impazzita, possa trasformarsi in un carcere.

Mona Hatoum: riconoscere la prigione
Questa è una storia dell'architettura penitenziaria che rimane ancora da scrivere, in quanto si servirebbe, sì, del concetto di prigione in forma metaforica, ma sottolineando, al contempo, il modo in cui la progettazione degli spazi civili, pubblici e privati, possa incarnare una volontà di dominio dello stato (o delle maggioranze che lo infestano) sull'individuo singolo (o sui gruppi sociali minoritari). Laddove l'indagine dei ricercatori non è ancora giunta, spesso si è già manifestato il grido d'allarme dell'arte, che percepisce i problemi con anticipazione indovina. È con la descrizione di un carcere franchista del Novecento, quello di Salamanca, che vorrei concludere questo breve articolo. Edificio imponente, sede di chissà quante ingiustizie e sofferenze, questo carcere è stato recentemente trasformato, in un centro di arte contemporanea ("Centro de Arte de Salamanca" - CASA). Le anguste celle dove vivevano i prigionieri del franchismo sono state conservate nel loro tetro aspetto originale, mentre a dare l'incipit alla costituzione di una collezione permanente è stata chiamata l'artista palestinese Mona Hatoum (nata nel 1952) (6), che ha interpretato una delle pesanti porte girevoli di metallo dell'antico carcere come l'occasione di un'interazione fra il centro e i visitatori (questi passano ad uno ad uno attraverso la porta girevole, che li rinserra in un cunicolo mobile claustrofobico, mentre il ritmo regolare del movimento della porta è scandito dal friggere spettrale di alcuni pallidi neon). (7)

Ma Mona Hatoum è artista capace non solo di trasformare un vero carcere in un'opera o in un'occasione d'arte, la quale innesta il sentimento della prigionia negli spettatori, ma anche di cogliere le situazioni carcerarie che si annidano in quella finzione che chiamiamo la nostra libertà quotidiana, e che viene passivamente accettata come tale nell'ottundimento generale del pensiero critico. Mona Hatoum rivela l'amarezza del mondo che a volte si cela nella routine attraverso diverse strategie di straniamento. Una di esse è l'ingigantimento: gli oggetti quotidiani, una volta ingranditi a dismisura, si rivelano spesso minacciosi. Ed ecco che una grattugia gigante diventa la membrana impenetrabile di uno spazio carcerario, come nell'opera del 2002 "Grater Divide" ("grattugia/separé"), il cui titolo inglese gioca con le omofonie delle parole "greater", "più grande" e "grater", "grattugia", per segnalare il confino domestico nel quale le pratiche quotidiane della preparazione dei pasti segregano la donna palestinese.

Oppure un macinino da caffè si trasforma in un oggetto mostruoso, a metà strada fra il carroarmato e la formica assassina.

In altri casi, Mona Hatoum lavora aggiungendo trame o dettagli inquietanti agli spazi della quotidianità. Si consideri, come esempio di questa seconda strategia, l'installazione, presentata nel 2000 a Documenta 11 ed intitolata "Homebound" (che si potrebbe tradurre, non letteralmente ma rendendo il senso del gioco di parole, con "vincolo familiare"), in cui lo spettatore è posto di fronte ad una casa elettrificata, ove ogni oggetto emana la minaccia di una scossa.

Infine, una terza strategia consiste nell'arrangiare gli oggetti in modo inusuale, o di modificarli leggermente, così da estrarne il demone nascosto. Si pensi a come l'artista condensi il vortice dell'alcoolismo, altra prigione di molte vite vissute nel chiuso delle mura domestiche, in un circolo vizioso formato da bottiglie ("Vicious Circle" - "circolo vizioso", opera presentata per la prima volta nel 1999):

Oppure si presti attenzione alla sedia a rotelle, diabolicamente inclinata, ideata dalla Hatoum, che esprime con una lieve modifica nella struttura dell'oggetto una così densa nube di significati (dal peso che la presenza di un disabile impone alle famiglie che lo accolgono sino al rigetto della società nei confronti di coloro che non possono adeguarsi ai suoi ritmi di vita, produzione e consumo).
Altre immagini potrebbero essere evocate in questa occasione, ma una mi sembra particolarmente adatta per concludere. In una delle sue opere, Mona Hatoum ha esposto una semplice rete da letto, limitandosi a modificarne la disposizione delle maglie in modo che esse formino la tela di un ragno. L'effetto è dirompente: ciò che pareva lo spazio del riposo e dell'amore diviene, grazie a questa mossa spiazzante dell'artista, il luogo della prigionia e della detenzione affettiva.
Questo ed altri letti di Procuste attendono ancora il loro Foucault.

Nota bibliografica

Bettini, M. e Calabrese, O. (2002) 'La storia esemplare del cittadino Pallois', in id. (2002) Bizzarramente, Milano: Feltrinelli.
Casanova, G. (1788) Histoire de ma fuite des prisons de la République de Venise qu'on appelle les Plombs, Lipzia: L. de Schönfeld, trad. it. P. Chiara (1976) Storia della mia fuga dai Piombi, Milano: Mondatori.
Foucault, M. (1975) Surveiller et punir. Naissance de la prison, Parigi: Gallimard, trad. it. A. Tarchetti (1976) Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino: Einaudi.
Fornili, C.C. (1991) Delinquenti e carcerati a Roma alla metà del '600. Opera dei Papi nella riforma carceraria, Roma: Editrice Pontificia Università Gregoriana.
Gallo, E. e Ruggiero, V. (1983) Il carcere in Europa - Trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella "galera europea", Verona: Bertani editore.
Hatoum, M. et al. (a cura di) (1997) Mona Hatoum, Londra: Phaidon Press.
Sebald, W.G. (1990) Vertigo, Francoforte sul Meno: V. von Eichborn Verlag, trad. ingl. M. Hulse (1999) Vertigo, Londra: Harvill Press.
Sebald,W.G. (2001) Austerlitz, Monaco di Baviera: Hanser, trad. it. A. Vigliani (2002) Austerlitz, Milano: Adelphi.
Serra, C. (a cura di) (1997) Istituzione e comunicazione - Segni e simboli della rappresentazione sociale del carcere, Roma: SEAM.
Spierenberg, P. (1995) "The Body and the State: Early Modern Europe", in Morris, N. e Rothman, D.J. (a cura di) The Oxford History of Prison - The Practice of Punishment in Western Society, Oxford: Oxford University Press.
Verzotti, G. (a cura di) (1999) Mona Hatoum, Milano: Charta.

Note

1. Mi baserò soprattutto su Gallo e Ruggiero 1983, 295-311.
Torna su
2. Sul carcere come luogo problematico di comunicazione simbolica, si legga soprattutto Serra 1997.
Torna su
3. Sulla prigionia di Casanova, oltre al celebre Histoire de ma fuite des prisons de la République de Venise qu'on appelle les Plombs (Casanova 1788), si legga anche la ricostruzione romanzata dello stesso Sebald (1990, 55-9).
Torna su
4. Come hanno sollevato Omar Calabrese e Maurizio Bettini in 'La storia esemplare del cittadino Pallois' in Bizzarramente (2002).
Torna su
5. Sul ruolo dei Papi nella riforma carceraria nella Roma del Seicento, di legga Fornili 1991.
Torna su
6. Una vasta bibliografia si sta sviluppando intorno alla vita e all'opera di questa artista. Si leggano Hatoum et al. 1997 e Verzotti 1999.
Torna su
7. Il titolo dell'installazione permanente è "Huis clos" (dal francese, "udienza a porte chiuse").
Torna su