Parlare di controllo sociale senza rischiare di cadere in analisi di senso comune
significa, innanzi tutto, porre dei margini all'interno dei quali elaborare
la riflessione. Possiamo definirlo come un insieme di saperi, poteri, strategie
e istituzioni attraverso cui le élite di potere preservano un particolare
ordine sociale, collocato in un preciso momento storico, a noi contemporaneo,
che dona specificità al concetto di normalità e di patologia.
Questo avviene grazie all'uso degli strumenti e delle strategie di riduzione
della devianza, terreno di coltura su cui prospera il controllo sociale. Come
possiamo definire la normalità, la patologia e la devianza, come riconoscerla
ed analizzarla? Emile Durkheim in "Le regole del metodo sociologico"
ci ricorda che la normalità, che lui associa alla morale comune, è
la media dei comportamenti: ciò che è normale è tale per
un tipo sociale determinato, in un dato momento e in un determinato luogo (Durkheim
lo considera anche un valore morale), che il tipo normale è quello già
realizzato e dato dai fatti del passato. Al contrario ciò che mette in
discussione l'ordine sociale e i valori dominanti della media della popolazione
è considerato patologico per quella società in quel momento, in
relazione al grado di sviluppo raggiunto. Si deduce così che sia il normale
sia il patologico sono concetti relativi, connessi con il tempo e con l'evoluzione
di una particolare società. I mutamenti sociali implicano un cambiamento
dei valori dominanti, anche all'interno della stessa élite, che modificano
le condizioni dell'esistenza collettiva. Ciò che oggi è patologico
per l'ordine sociale può essere necessario per l'evoluzione successiva
dello stesso ordine sociale. Analizzare il controllo significa anche proporlo
come fatto sociale e come tale spiegarlo, utilizzando altri fatti sociali, senza
ricorrere a tautologie. Ricorriamo ancora all'aiuto di Durkheim: egli ci suggerisce
che i fatti sociali sono fenomeni collettivi ed esistono indipendentemente dall'uso
che l'individuo né fa, esistevano prima di lui ed esistono al di fuori
di lui, esistono al di fuori delle coscienze individuali, devono essere dotati
di potere coercitivo e imperativo in virtù dei quali s'impongono all'individuo
con o senza il suo consenso, anche se sono percepiti con "naturalità".
Quando ci si conforma la coercizione non si fa sentire ma essa si afferma nel
momento stesso in cui si cerca di resisterle. I fatti sociali si presentano
sia in forme cristallizzate sia sottoforma di correnti sociali. Il controllo
sociale non è quindi un'entità trascendente ma è un fatto
sociale; è anche il risultato dell'interazione, aperta a qualunque contrattazione,
tra gli individui e di come essi definiscono la realtà collettiva. Georges
Gurvitch in "Il controllo sociale" rileva che ciò che appare
come "ordine" (normale) ad un gruppo di individui può essere
considerato "disordine" (patologico o deviante) da altri elementi
della stessa società. Egli opera anche una distinzione tra specie e forme
di controllo. Alle prime appartengono i valori connessi alla religione, la morale,
il diritto, l'arte, la conoscenza, l'educazione, cui vanno integrate ed incrociate
le forme del controllo sociale secondo la struttura politica della specifica
società, che variano dalla forma di controllo organizzato (sia autocratico,
sia democratico), a quello spontaneo messo in atto dalle esperienze collettive
(comprese le rivolte e le rivoluzioni), al controllo esercitato con l'aiuto
di pratiche ed usi culturali ed, infine, a quello spontaneo messo in atto dalle
idee e dagli ideali collettivi. Il tipo di controllo sociale di cui ci occuperemo
è soprattutto il primo, quello organizzato, in un contesto politico democratico.
Dalle trasformazioni sociali legate al passaggio dalla società contadina
(autoreferente con relazioni primarie e forme di autocontrollo affidate ai propri
consociati) a quella industriale (caratterizzata da una forte coscienza individuale
e dall'anonimato, da un insieme di culture diverse e un alto grado di conflittualità
dove il controllo sociale per essere efficace è delegato ad agenzie statuali)
il controllo sociale muta da autocentrato ad eterocentrato. Si ha a che fare
con l'elemento dell'ordine pubblico, patto tra consociati che non potendo risolvere
conflitti particolaristici demandano la risoluzione ad un organismo terzo, lo
Stato, collettore degli interessi dei consociati; una sorta di coscienza collettiva
che prescinde dai suoi singoli elementi, una coscienza collettiva che prevale
sulla coscienza individuale. Emanazione dell'organismo statuale è il
diritto: un insieme di norme codificate nate dall'interazione e contrattazione
tra i soggetti sociali, che si cristallizzano e non permettono interpretazioni
arbitrarie, diventando pratica sociale consolidata. L'ordine pubblico è
diverso dalla sicurezza in quanto il primo risponde agli interessi della collettività
mentre la seconda è inerente il singolo individuo. Tamar Pitch ci ricorda
che è possibile distinguere la sicurezza oggettiva, misurabile con strumenti
adeguati scevri da pregiudizi e orientamenti politici, dalla sicurezza soggettiva,
percepibile individualmente o collettivamente, che invece ammette di essere
influenzata da pregiudizi, emozioni, modelli culturali. Inoltre l'ordine pubblico
ha a che fare con l'ambito nazionale mentre la sicurezza con l'ambito locale,
cittadino. Per esercitare il controllo sociale, e le sue implicazioni in termini
di sicurezza, si ricorre a modelli di soggetti devianti, patologie in seno alla
società, su cui scaricare le responsabilità del disordine collettivo.
Capri espiatori di facile interpretazione e storicamente sostituibili che possono
servire per mascherare le reali perversioni dell'ordine sociale imposto.
Le strategie di contenimento dei fenomeni devianti consistono nel ridurre le
possibilità di comportamento degli individui determinando vincoli, tecniche
per rilevare le infrazioni e di punizione. Lo spazio di azione degli attori
sociali è limitato ad uno spazio conforme alla normalità. È
possibile riconoscere come istituzioni del controllo sociale le istituzioni
totali come il carcere o i manicomi ma anche le fabbriche e la famiglia. Anche
determinate scelte politiche producono maggiore o minore controllo sia in intensità
sia in estensione. Queste scelte, agite attraverso la legislazione, possono
produrre devianza, o meglio, ciò che l'apparato istituzionale e le costruzioni
sociali definiscono come tale (labelling theory). La devianza non è un
atto ma la risposta, la definizione sociale di questo atto. Dalla devianza alla
sua criminalizzazione il passo è breve. Ma anche qui Durkheim ci ricorda
che ciò che noi chiamiamo reato è ciò che la società
definisce come tale, nato da sentimenti collettivi in un preciso momento storico
e protetti dal diritto penale legato a quel momento.
L'attuale libera filosofia ha avuto come precursori gli eretici, condannati
dal braccio secolare della chiesa. Stabiliamo che un comportamento è
delittuoso perché esiste una pena emessa in un luogo a questo scopo istituito,
il tribunale. Nella pena ritroviamo condensate le norme di riferimento (ciò
che è reato e ciò che non lo è) ed anche i riferimenti
morali (ciò che è giusto e ciò che è sbagliato)
caratteristiche di una determinata società. Durkheim sosteneva inoltre
che nelle società a solidarietà meccanica il diritto è
di tipo repressivo perché estromette chi non si adegua mentre in quelle
a solidarietà organica il diritto è di tipo restitutivo perché
non teme la trasgressione delle regole ma l'offesa ai diritti contrattualistici
dei singoli.
Nelle forme di controllo sociale classiche le funzioni del disciplinamento erano
attribuite all'istituzione carceraria. La metafora del Panopticon (1791) di
Jeremy Bentham illustra con grande efficacia i poteri di controllo: far credere
alla popolazione carceraria di essere continuamente osservata e giudicata dallo
sguardo onnipresente dei controllori, protetti invece dagli sguardi dei reclusi,
dove nessuna mancanza poteva restare impunita.
A partire dai primi anni '60 fino agli anni '80 del novecento si profilano nuove
teorie della devianza e del suo trattamento: si indaga sulle cause che possono
determinare i comportamenti devianti cercando di fornirne una spiegazione sociologica
plausibile. Si pensa sia possibile eradicare la devianza intervenendo sulle
cause sociali che l'hanno prodotta. Si articolano così politiche di prevenzione
e di trattamento delle situazioni problematiche e si introducono filosofie di
reinserimento sociale dei detenuti. La pena si trasferisce dalle istituzioni
totali verso la comunità e le reti della socializzazione, dove la società
e le sue ramificazioni istituzionali se ne fanno carico attraverso saperi professionali.
Possiamo definire questa fase come welfare, dove la criminalità era presentata
come un sintomo e non come una causa. Negli anni '80 assistiamo ad un incremento
degli eventi criminali (che siano cambiati i parametri di rilevamento?) ed alla
crisi del sistema di welfare state. Il sentire comune è che chi
delinque è in grado di decidere e lo fa consapevolmente. Gli investimenti
slittano dai programmi sociali di trattamento riabilitativo a quelli di deterrenza
e intimidazione. Bisogna tutelare l'ordine pubblico e la sicurezza dei cittadini,
questo è il leitmotiv dominante. L'obiettivo è ottenere il massimo
della sicurezza con l'impiego minimo di risorse, inaugurando la politica economica
di costi-benefici comparando gli investimenti finanziari ai livelli di sicurezza
ottenuti. Si incrementano anche i costi non monetari ma repressivi con l'innalzamento
delle pene carcerarie e, in alcuni stati dove già era prevista dagli
ordinamenti, un maggiore ricorso alla pena di morte, la condizione in assoluto
più "produttiva". Il fine di queste politiche è la riduzione
qualitativa e quantitativa delle condotte che possono pregiudicare la sicurezza
della comunità senza però interrogarsi sulle cause che possono
generare comportamenti illegali. Il controllo sociale fuoriesce dal carcere
e dalle altre istituzioni totali per estendersi nel territorio urbano. Si giunge
così a pensare il territorio, qui inteso come ambiente fisico e spaziale,
come luogo di repressione e prevenzione della microcriminalità di strada
intervenendo anche modificando l'aspetto urbanistico preesistente.
Assistiamo alla nascita di quartieri fortezza dotati di propri agenti della
sicurezza, telecamere e cancelli il cui scopo è combattere i soggetti
criminalizzati. Le agenzie statali, le polizie, perdono così il monopolio
del controllo del territorio e della sicurezza affiancate da innumerevoli agenzie
private. Nella nuova cartografia del territorio i luoghi di ritrovo tra gruppi
e persone cambiano ubicazione. Agorà - centro commerciale, ozio - negozio,
ecco le nuove dicotomie: fino agli anni ottanta gli incontri avvenivano nella
pubblica piazza, prodotto tipico della cultura urbanistica italiana, ed il controllo
era affidato ad agenti delle polizie di stato (polizia, carabinieri, vigili
urbani, etc.); poi i luoghi di aggregazione si sono spostati in ambienti privati,
centri di consumo e produzione (centri commerciali, bar, discoteche) dotati
di controllo affidato a polizie private (cittadini dell'ordine, mondialpol,
etc.) il cui compito è quello di controllare e segnalare alle autorità
preposte eventuali irregolarità. Gli agenti privati sono armati e ciò
comporta un eventuale innalzamento del livello di scontro. Da un'analisi comportamentista
di stimolo-risposta
possiamo dedurre che alla presenza di agenti armati si contrappone un intervento
delinquenziale munito di armi più potenti. Si tutela la sicurezza pubblica
e preserva l'ordine sociale, considerando il fenomeno criminale come normale,
intervenendo nella gestione del rischio attraverso le logiche del mercato economico
della domanda e dell'offerta. Il business della sicurezza è in continua
espansione ed il Panopticon ha superato se stesso: con le banche dati, le reti
telematiche, le telecamere il controllo si è
realmente diffuso ovunque spalmandosi nell'arco di tutta la giornata. Le politiche
di sicurezza creano particolari categorie di soggetti caratterizzate da un alto
indice di rischio: immigrati, tossici, indigenti, soggetti politici radicali,
solo per citarne alcuni. Il soggetto deviante si erge a "caso" idealtipico
di una realtà collettiva. Subentra la logica della prevenzione della
microcriminalità che si esercita attraverso il controllo del territorio,
spinto fino alla militarizzazione e alla limitazione dello spazio di azione
dei cittadini. Illuminante in proposito è l'esempio dei "quartieri
a rischio" creati a Milano dall'amministrazione comunale alla fine degli
anni '90. Il quartiere Stadera fu uno di questi: fu istituito il poliziotto
ed il vigile di quartiere, una ronda che avrebbe dovuto fungere da deterrente
per le azioni criminose, rafforzata l'illuminazione pubblica, istituiti posti
di blocco sulle arterie principali. Rientrata l'attenzione dei mass-media la
presenza delle forze dell'ordine è tornata ai livelli precedenti, lasciando
i problemi sociali che caratterizzano il quartiere irrisolti ma avendo gravato
sui costi pubblici. Si è agito sull'effetto e non sulla causa. I residenti
del quartiere sono tutt'oggi lasciati in situazione di marginalità, senza
un cinema o un teatro, esclusi dalle risorse culturali della città oltre
che da quelle economiche. La presenza costante delle forze dell'ordine ha, inoltre,
infuso nei residenti la percezione di vivere realmente in un quartiere a rischio.
La profezia che si autoadempie: se gli uomini percepiscono determinate situazioni
come reali, esse saranno reali nelle loro conseguenze. Si è prodotto
un nuovo immaginario sociale costruito sulla sicurezza e sul rischio, dove il
controllo diventa la gestione dei soggetti sorvegliati in massa, il cui fine
è la cooperazione tra polizie pubbliche e private in collaborazioni con
il cittadino per la cattura dei soggetti ritenuti pericolosi, devianti o semplicemente
diversi. Tutti sono controllati e tutti sono controllori, come i personaggi
di un romanzo distopico.
Alla classe di rischio si sovrappone la classe sociale. Capita che gli agenti
del controllo ed i giudici e magistrati agiscano mossi dal pregiudizio distribuendo
pene diverse in base alle condizioni sociali, culturali ed economiche di chi
infrange la legge. I reati perseguiti dalle classi detentrici dei poteri sono
meno criminalizzati comparati a quelli commessi dalla piccola criminalità.
Grazie ad un'abile manipolazione dei mezzi di comunicazione di massa, questi
reati sono percepiti collettivamente come recanti un danno minore al bene comune
e quindi minore è il desiderio di "giustizia". L'uso strategico
dei mass-media operato dalle élite al
potere e dalle agenzie di controllo rende anche possibile deviare verso fenomeni
contingenti il senso di precarietà percepito dall'opinione pubblica determinato
da situazioni di disagio economico, di alta disoccupazione, della precarietà
delle condizioni sociali e di lavoro. Gurvitch conclude il suo saggio sostenendo
che il controllo sociale può essere funzionale alla riduzione delle antinomie
operate dai gruppi sociali, dai singoli individui o dalle istituzioni, attraverso
un continuo processo dialettico che mira ad un grado di sviluppo della società
sempre più elevato, rispettoso della collettività e dell'alterità.
Il controllo sociale organizzato e gestito dalle élite, proposto alla
collettività come avviene oggi, rende l'ipotesi di Gurvitch utopica,
contribuendo a creare sentimenti di estraneità e stati di conflitto tra
attori sociali sempre più evidenti.
Riferimenti bibliografici:
Z. Bauman, Dentro la globalizzazione, Editori Laterza
A. De Giorgi, Zero tolleranza, Derive Approdi
E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, Edizioni di Comunità
E. Goffman, Asylums, Edizioni di Comunità
G. Gurvitch, Il controllo sociale, Armando editore
F. Mazoyer, Il lucroso mercato della sorveglianza, Le monde diplomatique/il
manifesto settembre 2001
T. Pitch, Introduzione in Progetto città sicure, regione Emilia
Romagna, Quaderno 14b novembre-dicembre 1998
E. Rutigliano, Teorie sociologiche classiche, Bollati Boringhieri
V. Tomeo, V. Olgiati, Agenti e agenzie del controllo sociale, Sociologia del
diritto n° 22, Franco Angeli
L. Wacquant, "Tolleranza zero", il credo si diffonde, Le monde diplomatique/il
manifesto, aprile 1999
Fonte: pubblicato su talking 'bout... il 21 dicembre 2001