Le strategie del controllo sociale tra normalità, patologia, devianza e coercizione
P. Arienti
dicembre 2001

Parlare di controllo sociale senza rischiare di cadere in analisi di senso comune significa, innanzi tutto, porre dei margini all'interno dei quali elaborare la riflessione. Possiamo definirlo come un insieme di saperi, poteri, strategie e istituzioni attraverso cui le élite di potere preservano un particolare ordine sociale, collocato in un preciso momento storico, a noi contemporaneo, che dona specificità al concetto di normalità e di patologia. Questo avviene grazie all'uso degli strumenti e delle strategie di riduzione della devianza, terreno di coltura su cui prospera il controllo sociale. Come possiamo definire la normalità, la patologia e la devianza, come riconoscerla ed analizzarla? Emile Durkheim in "Le regole del metodo sociologico" ci ricorda che la normalità, che lui associa alla morale comune, è la media dei comportamenti: ciò che è normale è tale per un tipo sociale determinato, in un dato momento e in un determinato luogo (Durkheim lo considera anche un valore morale), che il tipo normale è quello già realizzato e dato dai fatti del passato. Al contrario ciò che mette in discussione l'ordine sociale e i valori dominanti della media della popolazione è considerato patologico per quella società in quel momento, in relazione al grado di sviluppo raggiunto. Si deduce così che sia il normale sia il patologico sono concetti relativi, connessi con il tempo e con l'evoluzione di una particolare società. I mutamenti sociali implicano un cambiamento dei valori dominanti, anche all'interno della stessa élite, che modificano le condizioni dell'esistenza collettiva. Ciò che oggi è patologico per l'ordine sociale può essere necessario per l'evoluzione successiva dello stesso ordine sociale. Analizzare il controllo significa anche proporlo come fatto sociale e come tale spiegarlo, utilizzando altri fatti sociali, senza ricorrere a tautologie. Ricorriamo ancora all'aiuto di Durkheim: egli ci suggerisce che i fatti sociali sono fenomeni collettivi ed esistono indipendentemente dall'uso che l'individuo né fa, esistevano prima di lui ed esistono al di fuori di lui, esistono al di fuori delle coscienze individuali, devono essere dotati di potere coercitivo e imperativo in virtù dei quali s'impongono all'individuo con o senza il suo consenso, anche se sono percepiti con "naturalità". Quando ci si conforma la coercizione non si fa sentire ma essa si afferma nel momento stesso in cui si cerca di resisterle. I fatti sociali si presentano sia in forme cristallizzate sia sottoforma di correnti sociali. Il controllo sociale non è quindi un'entità trascendente ma è un fatto sociale; è anche il risultato dell'interazione, aperta a qualunque contrattazione, tra gli individui e di come essi definiscono la realtà collettiva. Georges Gurvitch in "Il controllo sociale" rileva che ciò che appare come "ordine" (normale) ad un gruppo di individui può essere considerato "disordine" (patologico o deviante) da altri elementi della stessa società. Egli opera anche una distinzione tra specie e forme di controllo. Alle prime appartengono i valori connessi alla religione, la morale, il diritto, l'arte, la conoscenza, l'educazione, cui vanno integrate ed incrociate le forme del controllo sociale secondo la struttura politica della specifica società, che variano dalla forma di controllo organizzato (sia autocratico, sia democratico), a quello spontaneo messo in atto dalle esperienze collettive (comprese le rivolte e le rivoluzioni), al controllo esercitato con l'aiuto di pratiche ed usi culturali ed, infine, a quello spontaneo messo in atto dalle idee e dagli ideali collettivi. Il tipo di controllo sociale di cui ci occuperemo è soprattutto il primo, quello organizzato, in un contesto politico democratico.
Dalle trasformazioni sociali legate al passaggio dalla società contadina (autoreferente con relazioni primarie e forme di autocontrollo affidate ai propri consociati) a quella industriale (caratterizzata da una forte coscienza individuale e dall'anonimato, da un insieme di culture diverse e un alto grado di conflittualità dove il controllo sociale per essere efficace è delegato ad agenzie statuali) il controllo sociale muta da autocentrato ad eterocentrato. Si ha a che fare con l'elemento dell'ordine pubblico, patto tra consociati che non potendo risolvere conflitti particolaristici demandano la risoluzione ad un organismo terzo, lo Stato, collettore degli interessi dei consociati; una sorta di coscienza collettiva che prescinde dai suoi singoli elementi, una coscienza collettiva che prevale sulla coscienza individuale. Emanazione dell'organismo statuale è il diritto: un insieme di norme codificate nate dall'interazione e contrattazione tra i soggetti sociali, che si cristallizzano e non permettono interpretazioni arbitrarie, diventando pratica sociale consolidata. L'ordine pubblico è diverso dalla sicurezza in quanto il primo risponde agli interessi della collettività mentre la seconda è inerente il singolo individuo. Tamar Pitch ci ricorda che è possibile distinguere la sicurezza oggettiva, misurabile con strumenti adeguati scevri da pregiudizi e orientamenti politici, dalla sicurezza soggettiva, percepibile individualmente o collettivamente, che invece ammette di essere influenzata da pregiudizi, emozioni, modelli culturali. Inoltre l'ordine pubblico ha a che fare con l'ambito nazionale mentre la sicurezza con l'ambito locale, cittadino. Per esercitare il controllo sociale, e le sue implicazioni in termini di sicurezza, si ricorre a modelli di soggetti devianti, patologie in seno alla società, su cui scaricare le responsabilità del disordine collettivo. Capri espiatori di facile interpretazione e storicamente sostituibili che possono servire per mascherare le reali perversioni dell'ordine sociale imposto.
Le strategie di contenimento dei fenomeni devianti consistono nel ridurre le possibilità di comportamento degli individui determinando vincoli, tecniche per rilevare le infrazioni e di punizione. Lo spazio di azione degli attori sociali è limitato ad uno spazio conforme alla normalità. È possibile riconoscere come istituzioni del controllo sociale le istituzioni totali come il carcere o i manicomi ma anche le fabbriche e la famiglia. Anche determinate scelte politiche producono maggiore o minore controllo sia in intensità sia in estensione. Queste scelte, agite attraverso la legislazione, possono produrre devianza, o meglio, ciò che l'apparato istituzionale e le costruzioni sociali definiscono come tale (labelling theory). La devianza non è un atto ma la risposta, la definizione sociale di questo atto. Dalla devianza alla sua criminalizzazione il passo è breve. Ma anche qui Durkheim ci ricorda che ciò che noi chiamiamo reato è ciò che la società definisce come tale, nato da sentimenti collettivi in un preciso momento storico e protetti dal diritto penale legato a quel momento.
L'attuale libera filosofia ha avuto come precursori gli eretici, condannati dal braccio secolare della chiesa. Stabiliamo che un comportamento è delittuoso perché esiste una pena emessa in un luogo a questo scopo istituito, il tribunale. Nella pena ritroviamo condensate le norme di riferimento (ciò che è reato e ciò che non lo è) ed anche i riferimenti morali (ciò che è giusto e ciò che è sbagliato) caratteristiche di una determinata società. Durkheim sosteneva inoltre che nelle società a solidarietà meccanica il diritto è di tipo repressivo perché estromette chi non si adegua mentre in quelle a solidarietà organica il diritto è di tipo restitutivo perché non teme la trasgressione delle regole ma l'offesa ai diritti contrattualistici dei singoli.
Nelle forme di controllo sociale classiche le funzioni del disciplinamento erano attribuite all'istituzione carceraria. La metafora del Panopticon (1791) di Jeremy Bentham illustra con grande efficacia i poteri di controllo: far credere alla popolazione carceraria di essere continuamente osservata e giudicata dallo sguardo onnipresente dei controllori, protetti invece dagli sguardi dei reclusi, dove nessuna mancanza poteva restare impunita.
A partire dai primi anni '60 fino agli anni '80 del novecento si profilano nuove teorie della devianza e del suo trattamento: si indaga sulle cause che possono determinare i comportamenti devianti cercando di fornirne una spiegazione sociologica plausibile. Si pensa sia possibile eradicare la devianza intervenendo sulle cause sociali che l'hanno prodotta. Si articolano così politiche di prevenzione e di trattamento delle situazioni problematiche e si introducono filosofie di reinserimento sociale dei detenuti. La pena si trasferisce dalle istituzioni totali verso la comunità e le reti della socializzazione, dove la società e le sue ramificazioni istituzionali se ne fanno carico attraverso saperi professionali. Possiamo definire questa fase come welfare, dove la criminalità era presentata come un sintomo e non come una causa. Negli anni '80 assistiamo ad un incremento degli eventi criminali (che siano cambiati i parametri di rilevamento?) ed alla crisi del sistema di welfare state. Il sentire comune è che chi delinque è in grado di decidere e lo fa consapevolmente. Gli investimenti slittano dai programmi sociali di trattamento riabilitativo a quelli di deterrenza e intimidazione. Bisogna tutelare l'ordine pubblico e la sicurezza dei cittadini, questo è il leitmotiv dominante. L'obiettivo è ottenere il massimo della sicurezza con l'impiego minimo di risorse, inaugurando la politica economica di costi-benefici comparando gli investimenti finanziari ai livelli di sicurezza ottenuti. Si incrementano anche i costi non monetari ma repressivi con l'innalzamento delle pene carcerarie e, in alcuni stati dove già era prevista dagli ordinamenti, un maggiore ricorso alla pena di morte, la condizione in assoluto più "produttiva". Il fine di queste politiche è la riduzione qualitativa e quantitativa delle condotte che possono pregiudicare la sicurezza della comunità senza però interrogarsi sulle cause che possono generare comportamenti illegali. Il controllo sociale fuoriesce dal carcere e dalle altre istituzioni totali per estendersi nel territorio urbano. Si giunge così a pensare il territorio, qui inteso come ambiente fisico e spaziale, come luogo di repressione e prevenzione della microcriminalità di strada intervenendo anche modificando l'aspetto urbanistico preesistente.
Assistiamo alla nascita di quartieri fortezza dotati di propri agenti della sicurezza, telecamere e cancelli il cui scopo è combattere i soggetti criminalizzati. Le agenzie statali, le polizie, perdono così il monopolio del controllo del territorio e della sicurezza affiancate da innumerevoli agenzie private. Nella nuova cartografia del territorio i luoghi di ritrovo tra gruppi e persone cambiano ubicazione. Agorà - centro commerciale, ozio - negozio, ecco le nuove dicotomie: fino agli anni ottanta gli incontri avvenivano nella pubblica piazza, prodotto tipico della cultura urbanistica italiana, ed il controllo era affidato ad agenti delle polizie di stato (polizia, carabinieri, vigili urbani, etc.); poi i luoghi di aggregazione si sono spostati in ambienti privati, centri di consumo e produzione (centri commerciali, bar, discoteche) dotati di controllo affidato a polizie private (cittadini dell'ordine, mondialpol, etc.) il cui compito è quello di controllare e segnalare alle autorità preposte eventuali irregolarità. Gli agenti privati sono armati e ciò comporta un eventuale innalzamento del livello di scontro. Da un'analisi comportamentista di stimolo-risposta possiamo dedurre che alla presenza di agenti armati si contrappone un intervento delinquenziale munito di armi più potenti. Si tutela la sicurezza pubblica e preserva l'ordine sociale, considerando il fenomeno criminale come normale, intervenendo nella gestione del rischio attraverso le logiche del mercato economico della domanda e dell'offerta. Il business della sicurezza è in continua espansione ed il Panopticon ha superato se stesso: con le banche dati, le reti telematiche, le telecamere il controllo si è realmente diffuso ovunque spalmandosi nell'arco di tutta la giornata. Le politiche di sicurezza creano particolari categorie di soggetti caratterizzate da un alto indice di rischio: immigrati, tossici, indigenti, soggetti politici radicali, solo per citarne alcuni. Il soggetto deviante si erge a "caso" idealtipico di una realtà collettiva. Subentra la logica della prevenzione della microcriminalità che si esercita attraverso il controllo del territorio, spinto fino alla militarizzazione e alla limitazione dello spazio di azione dei cittadini. Illuminante in proposito è l'esempio dei "quartieri a rischio" creati a Milano dall'amministrazione comunale alla fine degli anni '90. Il quartiere Stadera fu uno di questi: fu istituito il poliziotto ed il vigile di quartiere, una ronda che avrebbe dovuto fungere da deterrente per le azioni criminose, rafforzata l'illuminazione pubblica, istituiti posti di blocco sulle arterie principali. Rientrata l'attenzione dei mass-media la presenza delle forze dell'ordine è tornata ai livelli precedenti, lasciando i problemi sociali che caratterizzano il quartiere irrisolti ma avendo gravato sui costi pubblici. Si è agito sull'effetto e non sulla causa. I residenti del quartiere sono tutt'oggi lasciati in situazione di marginalità, senza un cinema o un teatro, esclusi dalle risorse culturali della città oltre che da quelle economiche. La presenza costante delle forze dell'ordine ha, inoltre, infuso nei residenti la percezione di vivere realmente in un quartiere a rischio. La profezia che si autoadempie: se gli uomini percepiscono determinate situazioni come reali, esse saranno reali nelle loro conseguenze. Si è prodotto un nuovo immaginario sociale costruito sulla sicurezza e sul rischio, dove il controllo diventa la gestione dei soggetti sorvegliati in massa, il cui fine è la cooperazione tra polizie pubbliche e private in collaborazioni con il cittadino per la cattura dei soggetti ritenuti pericolosi, devianti o semplicemente diversi. Tutti sono controllati e tutti sono controllori, come i personaggi di un romanzo distopico.
Alla classe di rischio si sovrappone la classe sociale. Capita che gli agenti del controllo ed i giudici e magistrati agiscano mossi dal pregiudizio distribuendo pene diverse in base alle condizioni sociali, culturali ed economiche di chi infrange la legge. I reati perseguiti dalle classi detentrici dei poteri sono meno criminalizzati comparati a quelli commessi dalla piccola criminalità. Grazie ad un'abile manipolazione dei mezzi di comunicazione di massa, questi reati sono percepiti collettivamente come recanti un danno minore al bene comune e quindi minore è il desiderio di "giustizia". L'uso strategico dei mass-media operato dalle élite al potere e dalle agenzie di controllo rende anche possibile deviare verso fenomeni contingenti il senso di precarietà percepito dall'opinione pubblica determinato da situazioni di disagio economico, di alta disoccupazione, della precarietà delle condizioni sociali e di lavoro. Gurvitch conclude il suo saggio sostenendo che il controllo sociale può essere funzionale alla riduzione delle antinomie operate dai gruppi sociali, dai singoli individui o dalle istituzioni, attraverso un continuo processo dialettico che mira ad un grado di sviluppo della società sempre più elevato, rispettoso della collettività e dell'alterità. Il controllo sociale organizzato e gestito dalle élite, proposto alla collettività come avviene oggi, rende l'ipotesi di Gurvitch utopica, contribuendo a creare sentimenti di estraneità e stati di conflitto tra attori sociali sempre più evidenti.


Riferimenti bibliografici:
Z. Bauman, Dentro la globalizzazione, Editori Laterza
A. De Giorgi, Zero tolleranza, Derive Approdi
E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, Edizioni di Comunità
E. Goffman, Asylums, Edizioni di Comunità
G. Gurvitch, Il controllo sociale, Armando editore
F. Mazoyer, Il lucroso mercato della sorveglianza, Le monde diplomatique/il manifesto settembre 2001
T. Pitch, Introduzione in Progetto città sicure, regione Emilia
Romagna, Quaderno 14b novembre-dicembre 1998
E. Rutigliano, Teorie sociologiche classiche, Bollati Boringhieri
V. Tomeo, V. Olgiati, Agenti e agenzie del controllo sociale, Sociologia del diritto n° 22, Franco Angeli
L. Wacquant, "Tolleranza zero", il credo si diffonde, Le monde diplomatique/il manifesto, aprile 1999

Fonte: pubblicato su talking 'bout... il 21 dicembre 2001