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Il dramma dei bimbi-detenuti, 70 dietro le sbarre

Rita Di Giovacchino

Il messaggero, 5 luglio 2004

La legge prevede misure alternative per le madri, ma spesso restano dentro fino a tre anni.

Bambini dietro le sbarre, costretti a condividere sei metri quadri con estranei che non sopportano il loro pianto. Bambini che giocano in un cortile senza alberi, circondato da mura troppo alte. Bambini che prolungano il legame simbiotico con la madre, che crescono senza il papà, i fratelli, i nonni. In poche parole bambini detenuti. Tre anni fa una nuova legge ha finalmente stabilito che le donne, con figli di età inferiore ai dieci anni, hanno diritto alla sospensione della pena, possono scontarla a casa o in luoghi alternativi al carcere. Sembrava cancellata per sempre una barbarie, lontana anni luce dalle meraviglie del nostro sistema penitenziario capace di concedere semilibertà e permessi premio anche a mafiosi e terroristi. Ma per mancanza di strutture questa legge non riesce a decollare. Anche se qualcuna ci prova come la nomade che non avendo figli ne ha comprato uno per evitare la cella. Una storia che ricorda il vecchio film di Sofia Loren. Così gli ultimi veri reclusi sono proprio i bambini. Secondo dati raccolti dalla consulta penitenziaria di Roma, le madri in carcere con figli al seguito sono in media 60 ogni anno. Una ventina sono raccolte nella sezione nido del carcere romano di Rebibbia, vere privilegiate rispetto alle altre che non usufruiscono di spazi specifici e non godono di alcuna assistenza. L 'esperienza di Rebibbia è un osservatorio permanente delle sofferenze di questi bambini e delle loro madri, soprattutto nei casi di donne che si trovano ad espiare una condanna pesante e sono costrette a separarsi dal figlio allo scadere dei tre anni. «Un lutto terribile per entrambi, pericoloso soprattutto per il bambino che si trova ad affrontare improvvisamente il mondo esterno accanto ad estranei, anche se si tratta del padre o dei nonni, con i quali non ha alcuna relazione affettiva», scrivono gli psicologi di Rebibbia. «La maggior parte delle detenute madri non rappresenta un pericolo sociale. Sono in prevalenza nomadi o extracomunitarie, finite in carcere per qualche furtarello», dice Leda Colombini, anziana e combattiva femminista fin dai tempi dell'Unione Donne Italiane. Quelle chiamate a rispondere di reati più gravi, stupefacenti e altro, sono quasi tutte sudamericane. Per loro la legge non conta, al momento dell'arresto nessuna è in grado di indicare una fissa dimora. Tantomeno le colombiane che sbarcano dall'aereo con la valigia imbottita di cocaina e pargolo al seguito. Non resta che il carcere, dal momento che le case-famiglia ipotizzate dal legislatore non sono mai state costruite. «Per molte la detenzione rappresenta una fase di recupero sociale, ma a fine pena vengono espulse- lamenta Leda Colombini - e nessuno si preoccupa di sapere cosa faranno con i loro figli una volta fuori». Non ci sono soltanto straniere nelle carceri italiane. Un problema recente è quello delle terroriste condannate a lunga pena, spesso all'ergastolo, che restano incinta durante i permessi premio. Ad eccezione di Cinzia Banelli, la brigatista pisana coinvolta con il gruppo fiorentino delle Br-Pcc nel delitto di Marco Biagi, e che ha partorito in carcere dopo l'arresto, sono quasi tutte dissociate dalla lotta armata e hanno scontato buona parte della pena. Donne che hanno desiderato fortemente un figlio per chiudere con il passato. Come Francesca Mambro, ex terrorista di destra, ergastolana. A lei è andata bene, dopo la nascita di una bambina, che ora ha tre anni, è uscita dal carcere e sarà libera fino al compimento del suo decimo anno. La Mambro non è più socialmente pericolosa, ma sarà difficile trovare un giudice che si impegni a garantire per la Banelli. Strutture alternative, adeguatamente vigilate, non esistono. E una legge da sola non basta ad aprire le porte del carcere per sessanta bambini innocenti.