Nella tua lettera ad Angelo** tu hai chiesto sia a lui che a me di farti conoscere
le nostre opinioni sul documento, opera di compagni ristretti nel carcere militare
di Peschiera (….).
Abbiamo, naturalmente, letto e anche discusso assieme (io e Angelo) quello scritto
e sarebbe forse stato più consono all’attuale «moda»
delle «dichiarazioni», «documenti», ecc. ecc. «collettivi»,
se avessimo riassunto una specie di «sintesi» delle nostre impressioni
e «giudizi» per mandartelo in comune.
La cosa non avrebbe presentato grandi difficoltà, stante il fatto che
fra me e il compagno Angelo si è instaurato un clima di reciproca comprensione
e si è rivelata una buona affinità caratteriale ed «ideologica»;
la mia componente «individualista», però, non manca mai di
riaffiorare e così preferisco parlarne a mio nome esclusivo, lasciando
poi ad Angelo di dirti, in piena autonomia, se e dove egli si trovi a dissentire
da esso.
Venendo al dunque: mi pare che quei compagni arrivino a delle conclusioni e
a dei suggerimenti ed ipotesi di lavoro sul carcere militare che sono in sé
giuste e valide, introducendo però il discorso con una premessa-asserzione
che mi pare discutibile.
Cercherò di spiegarmi meglio: è, secondo me, vero che dal punto
di vista oggettivo TUTTI coloro che si trovano a dover subire la repressione
del Potere sono vittime di un’oppressione, quali che siano le cause e
le motivazioni o gli impulsi che li hanno portati a cozzare cercando di infrangerle
contro le leggi, le norme, e le imposizioni dello stato, subendo pertanto la
vendetta di questo. Sempre secondo me però è un po’ azzardato
sostenere che non vi sia differenza alcuna tra chi si trova a dover subire le
conseguenze di una precisa scelta «etica» quale può essere
il rifiuto cosciente a divenire complice di un sistema sociale che si rifiuta,
integrandosi, anche se coerciti a farlo, in una delle sue strutture più
esplicitamente predisposte alla perpetuazione del Potere ed ogni forma di comportamento
«illegale» comunque determinata.
Un individuo può diventare «ribelle» per mille ragioni, non
esclusa quella di una reazione all’insoddisfazione di non aver avuto l’opportunità
di esercitare egli stesso una parcella di «potere».
Certo, chiunque si trova a dover subire sulla propria pelle la violenza della
società gerarchica è un interlocutore privilegiato per chi porta
avanti un progetto rivoluzionario libertario, ma la posizione «soggettiva»
di chi a causa della sua situazione «oggettiva» può essere
facilitato ad una «presa di coscienza» in senso rivoluzionario e
quella di chi è venuto a trovarsi nella stessa situazione «oggettiva»
a causa proprio di comportamenti determinati dalla sua preventiva (ed a livelli
anche elevati) presa di coscienza e dalla necessità di coerenza etica
con le idee che professa, non sono per me classificabili come identiche.
Anni fa, ai tempi dei primi «interventi» della «sinistra»
sul «carcerario» era venuto di moda una frase, una specie di «slogan»,
questo: «siamo tutti detenuti politici», volendo con questo attribuire
a tutti ed ognuno degli ospiti delle «patrie galere» – ipso
facto – una specie di «aureola» ed il ruolo inequivocabile
di predestinato protagonista della rivoluzione sociale.
Ora, se è vero che chi si trova in carcere vi è perché
– a torto o a ragione – è stato accusato di aver violato
una «Legge» dello Stato e le «leggi» sono appunto frutto
dell’«attività legislativa» e sono pertanto sempre
un atto politico, vi sono mille ragioni e motivi diversi che possono portare
un individuo a scontrarsi con queste stesse leggi e a subire la sanzione.
Quale differenza vi è, per esempio, nelle aspirazioni ed i fini che si
propongono tra il capitalista che sfrutta il lavoro ed i suoi operai ed il «marchettaro»
che manda la donna a «battere» per sfruttarne il «lavoro»,
se non la circostanza che l’uno è approvato, rispettato e protetto
dalle leggi, mentre l’altro rischia il rigore delle stesse? E il cosiddetto
«mafioso» non è forse il rappresentante di un «potere»
anche se non legalizzato?
E che dire allora di quel detenuto che, pur vittima del potere di stato, sfrutta
l’eventuale «prestigio malavitoso», la superiorità
fisica o l’abilità ad usare il coltello, per imporre la sua supremazia
su altri prigionieri magari «facendosi» con forza uno «sbarbato»?
Nella condizione di carcerato possono poi finire (anche se raramente) veri e
propri «uomini del potere» a causa delle lotte tra «uomini
del potere», oppure – molto più frequentemente – aspiranti
al potere che altro non sognano di mettere altri nelle stesse, se non peggiori,
condizioni in cui sono caduti ora essi stessi.
Nelle «carceri speciali», tanto per fare un esempio, sono rinchiusi
«rivoluzionari» dichiaratamente stalinisti e altri che si autodefiniscono
«fascisti» o addirittura nostalgici del «nazismo»: ma,
anche se è vero che oggi sono anche loro degli oppressi, cosa ci regalerebbero
quando, per assurda ipotesi, fossero risultati vincitori, forse il Gulag sovietico
o i Lager di Hitler?
Caro compagno, temo che ti parrà che io abbia divagato uscendo dal tema
specifico della situazione nel «carcere militare» e della posizione
degli «obiettori totali», in realtà l’ho fatto di proposito
perché credo che ogni problematica parziale si inserisca in fondo in
un contesto più ampio e globale e come tale vada considerata.
Per il resto, sulla necessità ed opportunità di un interessamento
del movimento libertario per le condizioni di tutte le vittime dell’oppressione
senza preclusioni e pregiudizi, non posso che condividere l’opinione espressa
in quel documento da quei compagni.
Con un forte abbraccio, saluti libertari.
* Pubblicato su «Senzapatria» n° 5, settembre-ottobre 1979, la lettera di Gianfranco analizza un documento di alcuni obiettori non sottomessi detenuti nel carcere militare di Peschiera del Garda per rifiuto del servizio militare. Titolo originale: «L'opinione di un altro compagno detenuto», pagg. 15-16.
** Angelo Cinquegrani è stato per diversi anni compagno di cella di Gianfranco.
Fonte: Gianfranco Bertoli, Siamo tutti detenuti politici?; in Attraversando l'arcipelago, Edizioni Senzapatria, 1986.