Gli errori che hanno prodotto le pi� gravi conseguenze sono talvolta i pi� difficili da ammettere. Fenomeno, questo, che � solo apparentemente paradossale e pu�, anzi, venire agevolmente compreso e spiegato in chiave psicologica.
Infatti (quando non sia questione di gesti estemporanei, effetto di reazioni emotive ed irrazionali stimolate da eventi e circostanze contingenti, e si tratti, invece, del frutto di decisioni meditate), le scelte comportamentali da cui possono derivare, nel bene e nel male, effetti particolarmente rilevanti nascono dalla persuasione di essere nel giusto e dalla solida fiducia riposta nella validit� di analisi che ci hanno condotto ad un certo convincimento. La riflessione interiore, tuttavia, � una sorta di deliberazione con se stessi, nel corso della quale pu� benissimo accaderci di fare inconsciamente ricorso a quelli stessi equilibrismi dialettici ed artifici sofistici con i quali, in una societ� dove regna il principio di dover prevalere, ci si � abituati a cercare di sopraffare l'avversario di una discussione.
Con una differenza: mentre nel corso del dibattito con altri si � ben coscienti di tali tattiche, quando si arriva a convincere se stessi pu� accadere di non accorgersi dei condizionamenti di motivazioni inconsce e dei meccanismi di scotomizzazione psicologica che possono averci influenzati, guidando il nostro ragionamento in direzione di conclusioni gratificanti, perch� tali da permetterci di rimuovere il senso di frustrazione derivante dal dubbio, e dall'eventuale riconoscimento, che quelle certezze sulle quali avevano fondato il nostro agire fossero state fallaci e frutto di errori analitici grossolani.
Cos�, nonostante il dolore provato per i tragici esiti del mio fallito attentato contro le autorit� civili e militari che presenziavano alla commemorazione di Calabresi, ho continuato per molto tempo a dire a me stesso che tutto quello che potevo rimproverarmi si riduceva all'essere stato "tecnicamente" maldestro e che quanto di negativo era derivato dalla mia azione concerneva solo gli aspetti accidentali di essa, senza intaccare la essenziale validit� di principio.
Nonostante l'evidente constatazione che le motivazioni di quel mio gesto non sarebbero state capite e che, quindi, al dramma della morte di persone innocenti si sommava quello della completa inutilit� di averlo compiuto, mi sono a lungo rifiutato di prendere in considerazione la possibilit� stessa di mettere in dubbio il presupposto teorico che ogni atto di rivolta fosse sempre, per sua natura e indipendentemente dal risultato, portatore di un messaggio positivo e manifestazione fenomenica di una affermazione di libert�.
Nonostante mi rendessi conto di come la spregiudicata e cinica capacit� di distorsione dell'immagine per rapporto al reale e di manipolazione della verit� di cui dava prova il potere fosse in grado di stravolgere il significato di quello che avevo voluto fare e di come, pertanto, sarebbe stato il potere stesso a trarre vantaggio dal mio gesto, sono rimasto, per anni, abbarbicato disperatamente al concetto astratto di "rivolta assoluta".
In pratica quello di cui non mi rendevo conto era che mi accadeva di proiettare su un piano ideale le razionalizzazioni mitizzate ed assolutizzate di un impulso ribellistico viscerale, traducendole, attraverso una codificazione ideologica di tipo sostanzialmente metafisico, nelle caratteristiche ontologiche di una entit� ipostatica. Cos� come mi rifiutavo di tener conto della circostanza che se l'opera di mistificazione della verit�, messa in atto da tante parti, si rivelava tanto facile, ci� implicava necessariamente che il mio stesso gesto non fosse scevro di connotazioni tali da permettere loro di farlo.
Mi accadeva, anzi, che, proprio dal genere di reazione che il mio atto aveva suscitato e dal fatto che il potere sentisse il bisogno di farlo apparire diversamente motivato, io ricavassi la sensazione e la conferma di avere avuto ragione.
Durante tutta la fase istruttoria e in sede processuale ebbe a verificarsi un fenomeno apparentemente assurdo: non ero io, l'imputato, a cercare di mentire per attenuare le mie responsabilit�, erano gli inquirenti e coloro che avevano il compito di informare l'opinione pubblica ad affannarsi per intorbidare le acque, per far apparire verosimile le insinuazioni e le bugie pi� spudorate, per contrabbandare, attraverso traballanti sofismi, le ipotesi pi� deliranti di intricate trame e fantomatici complotti.
Questo bizzarro rovesciamento dei ruoli tradizionali mi rafforzava nei miei convincimenti e, nella misura in cui la meschinit� di quelle manovre mi permetteva di sentirmi moralmente tanto migliore dei miei accusatori, mi aiutava a dimenticare il male che io stesso avevo arrecato ed a rimuovere dalla coscienza il dolore per le vittime che il mio gesto aveva provocato.
� stato solo molto pi� tardi e dopo che aveva cominciato a svilupparsi un dialogo epistolare con altri compagni, che ho cominciato a nutrire i primi dubbi. Mi trovai, infatti, a confrontarmi con persone che, a differenza di molti altri, non erano corsi ad allinearsi con le tesi interpretative sostenute dal potere statale, dalla grande stampa e dalla stessa sinistra extraparlamentare.
Queste persone erano dei libertari che avevano seguito attentamente, spesso assistendo personalmente alle udienze, lo svolgimento dei processi a mio carico ed erano arrivate a ricavarne una valutazione obiettiva, senza lasciarsi suggestionare dalle spiegazioni di comodo offerte belle e pronte attraverso i mass-media di regime.
Quei compagni erano arrivati a capirmi ed a capire perfettamente le motivazioni del mio attentato, mi manifestavano la loro solidariet� sul piano umano ed il loro affetto, eppure? condannavano il mio atto! E questo doveva farmi pensare.
Si trattava, peraltro, di dover rimettere in discussione con me stesso un principio, quello della validit� incondizionata degli atti di rivolta e del diritto individuale di praticarli in ogni momento e con qualunque mezzo, del quale avevo fatto un punto fermo centrale dell'intero ordinamento concettuale della mia personale visione del mondo e ci� non poteva che rendere particolarmente difficile e sofferta una rimeditazione di questo postulato che minacciava di costringermi a negarne la indiscutibilit�.
Si frapponevano ad una esplicita ammissione di errore tutta una serie di fattori, quali l'orgoglio, la rabbia che mi animava ed un condizionamento interiorizzato a scambiare per coerenza la sua brutta copia: la pervicacia di chi persiste a sentirsi legato alle opinioni ed alle scelte passate, anche quando ogni evidenza paia dimostrare che erano state sbagliate.
Fu cos� che solo nel 1979, in occasione di alcune considerazioni su di una polemica, allora in corso negli ambienti libertari, intorno alla figura di Emile Henry e sui significati del suo gesto di tanti anni fa, arrivati a rendere pubblici i dubbi che mi avevano tormentato ed il sostanziale mutamento del mio modo di considerare il drammatico episodio di cui ero stato protagonista.
In quella occasione, dopo aver succintamente detto da quali postulazioni fossi partito per arrivare a concludere che un gesto come quello che poi ho compiuto fosse necessario e giusto, dissi di essere giunto in seguito a ritenere sbagliate quelle mie analisi e le conseguenze operative che implicavano. Dissi anche che credevo di aver individuato il mio errore di partenza in quello di aver creduto che tutti coloro che si trovano oggettivamente sottoposti all'oppressione e all'ingiustizia sociale la percepissero in un modo non dissimile dal mio e che, pertanto, qualsiasi atto di rivolta sarebbe stato facilmente recepito e compreso, venendo ad assumere un significato esemplare e di incoraggiamento alla rivolta.
Aggiungendo testualmente: "La tragica contraddizione di questo atteggiamento � che, se cos� fosse, ogni atto di rivolta sarebbe s� immediatamente capito ma non vi sarebbe neppure il bisogno di attuarlo".
Da allora non ero pi� voluto tornare sull'argomento, ritenendolo privo di attualit� e di scarso interesse per la maggioranza dei compagni, in ragione dell'essersi trattato, per l'episodio di cui ero stato autore, di un fatto, ininfluente sul piano storico e politico ed oggettivamente importante solo per me stesso e per le povere vittime di un gesto velleitario.
N� possono obiettivamente influire a riattualizzare quella vicenda le demenziali farneticazioni di un politicante che ha, recentemente, voluto parlarne (adducendo presunte analogie e persino l'ipotesi di un raccordo di connessione con la catena di stragi, programmaticamente indiscriminate, il cui ultimo anello � costituito da quella contro i viaggiatori del rapido Napoli-Milano), oppure la dabbenaggine inquisitoriale di chi, sull'onda dell'insulse insinuazioni avanzate da tale personaggio, si � affrettato a disporre il sequestro della mia corrispondenza.
Se ne riparlo oggi � in quanto, anche perch� stimolatovi emotivamente dall'insultante vaniloquio formichiano, mi sono ritrovato ad interrogarmi una ennesima volta sulla mia decisione di allora, traendone delle ulteriori considerazioni che mi sembrano, pur partendo da esso, estendibili ad un ambito pi� ampio di quello specifico dei casi storicamente dati (e tutto sommato piuttosto rari) degli atti di rivolta individuali con ricorso alla violenza.
Mi riferisco ad una aporia del ragionamento che ho rilevato ripensando al tipo di argomentazioni attraverso le quali ero giunto a concludere per la liceit� etica, l'opportunit� pratica e la necessit� in termini di coerenza logica dell'impiego della violenza individuale (vista come unica forma di lotta possibile, in determinati periodi storici di "impasse" dei movimenti e delle speranze rivoluzionari, in quanto fase transitoria inevitabile per preparare l'esplosione di moti insurrezionali collettivi), che mi pare, per�, non essere del tutto assente, anche se in forma meno facilmente evidenziabile da altre delle teorizzazioni e delle pratiche che sono state storicamente espresse nel quadro della progettualit� rivoluzionaria di segno libertario.
Infatti, al di l� delle motivazioni occasionali e dei particolari determinismi psicologici che possono avere favorito, in casi e circostanze specifiche, le scelte individuali di mettere in atto azioni violente intenzionalmente finalizzate a portare un attacco al sistema di potere, credo sia sempre stata presente, in tutti i protagonisti di tali episodi, una comune concezione della societ� autoritaria e che questa concezione sia stata e permanga tutt'ora assai diffusa all'interno della pi� vasta area di coloro che si propongono di portare avanti un progetto rivoluzionario di trasformazione della societ�.
Intendo parlare del postulato, assunto come intuitivamente evidente, che ogni forma di dominio nasca con la violenza e si regga sulla forza materiale degli apparati repressivi di cui il potere dispone.
Questa visione del mondo, che a mio avviso rispecchia solo parzialmente la realt� ed ignora o sottovaluta il ruolo della manipolazione culturale e delle tecniche di accaparramento del consenso messe da sempre in atto dalle caste dominanti in ogni tipo di societ� gerarchica storicamente conosciuta, pu� spesso condurre alla convinzione della possibilit� di guarire i mali di una societ� violenta attraverso una specie di terapia omeopatica. Ricorrendo, cio�, all'uso di una violenza temporanea da contrapporre a quella permanente dell'oppressione sociale.
Nel mio caso personale il tipo di ragionamento che ha costituito la base, per cos� dire "teorica", da cui si � sviluppata la mia decisione di allora � stato, grosso modo, questo: "La societ� gerarchica si regge sull'imposizione totalitaria di norme comportamentali che subordinano ogni individuo obbligandolo alla sottomissione con la minaccia di sanzioni. L'unico modo valido, pertanto, di mettere in discussione il dominio esercitato dallo Stato e dalle classi dominanti non pu� venire individuato se non nella rottura violenta di queste regole, attraverso atti di trasgressione assoluta che non tengono alcun conto delle minacce di sanzioni, dei pregiudizi sociali consolidati e di una valutazione utilitaristica delle possibili ripercussioni".
In quest'ottica, ogni violazione premeditata delle leggi e della stessa morale comune appare configurarsi in una manifestazione di libert� e, anzi, il livello di libert� affermato verrebbe ad essere tanto pi� alto quanto pi� clamorosamente violento lo sia stato il gesto di ribellione portano a compimento. L'apparente correttezza formale di questo ragionamento viene, per�, a rivelarsi fittizia, qualora esso venga portato avanti fino alle estreme conseguenze logiche.
Infatti, il preciso attimo in cui viene realizzato il gesto di rottura violenta verrebbe s� a coincidere con quello della conquista, anche se effimera, di una condizione di libert� assoluta, ma, per le sue stesse modalit� di attuazione, quel momento si trova ad essere quello dell'esercizio di una violenza su altri individui e, quindi, dell'affermazione di un potere assoluto su di loro. bank hacking.com, bank hacking canada, bank hacking cyber, bank computer hacking, hacking bank credentials, bank account hacking cases in india, bank account hacking complaint, bank hacking, bank data hacking in pakistan, bank hacking apk download, cosmos bank hacking details, online bank hacking definition, bank account hacking download, bank account hacking apk download, download bank hacking program, bank hacking, bank hacking examples, bank hacking expert, hacking equity bank, bank hacking, bank hacking forum, bank hacking software for mobile,
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Ne consegue l'insorgere di una situazione paradossale, ove uno stesso gesto �, contemporaneamente, atto di rivolta contro il potere e atto di affermazione di un potere; manifestazione di una volont� di ricerca della libert� assoluta e forma compiuta di prevaricazione e di sopraffazione autoritaria.
Rinuncio in partenza a qualsiasi tentativo di risolvere questa vera e propria antinomia semantica (che sembra formulata "ad hoc" per corroborare la vecchia teoria della "coincidentia oppositorum" cara al Cusano e a Giordano Bruno), per limitarmi ad osservare come essa sembri suggerire che l'adozione di una prassi (quella della violenza) che appartiene alla logica del dominio, porti con s� il rischio ineludibile di trasformare anche un gesto che vuole essere libertario in un atto di dominazione sugli altri e di avvallo del principio di potere.
Considerazione questa che, secondo me, non vede ristretta la sua validit� all'ambito circoscritto degli attentati individuali, ma pone sul tappeto il problema pi� grande della rimeditazione e forse di una parziale revisione di alcuni concetti implicati tradizionalmente da molti progetti di rinnovamento radicale della societ�, quali sono stati concepiti nel passato (nella misura in cui essi contengono la proposta di strategie rivoluzionarie di tipo "militare") e l'esigenza della individuazione di percorsi rivoluzionari liberati dall'ipoteca della necessit� di adottare mezzi intrinsecamente autoritari e, di per ci� stesso, contraddittori con i fini che si vogliono perseguire.
* Questo scritto inedito costituisce l'essenza della riflessione autocritica di Bertoli rispetto al proprio gesto di 13 anni fa. Rappresenta a questo proposito l'approfondita continuazione logica di un discorso gi� toccato pubblicamente attraverso gli articoli "Il prezzo da pagare" e "Atti individuali e 'terrorismo'", pubblicati su "A rivista anarchica" e ora riproposti nelle seguenti pagine. Elaborato nel gennaio '85 non fu pubblicato su "A rivista anarchica" per mancanza di spazio ed in seguito, per identici motivi, non pot� comparire neppure su "Senzapatria". Proponendolo oggi si � ritenuto opportuno collocarlo in veste introduttiva, rispecchiando fedelmente l'attuale pensiero dell'autore.
Fonte: Gianfranco Bertoli, Prefazione dell'autore, in Attraversando l'arcipelago, Edizioni Senzapatria, 1986.