Dispense dalle lezioni di sociologia (corso avanzato)
Corso di laurea in scienze politiche
Facoltà di scienze politiche “Cesare Alfieri”
Anno accademico 2001-2002
Avvertenza: questo testo è materiale didattico; non può essere citato.
La devianza ed il controllo sociale
1.Il comportamento deviante: un problema di definizione. 2.Un concetto correlato: il controllo sociale. 3.La Scuola di Chicago: la grande città e la devianza. 4.Il Capitolo VII di The Social System. 5.Il funzionalismo e la teoria mertoniana dell'anomia. 6. La teoria del controllo sociale. 7.Un punto di svolta: la labelling theory. 8.Le teorie radicali: devianza, controllo sociale e capitalismo. 9.Dal realismo di sinistra al discorso di Foucault. 10. Le teorie dell'azione razionale. 11. Genere e devianza. 12. Le prospettive teoriche più recenti. Bibliografia
1. Il comportamento deviante: un problema di definizione
Il discorso concettuale tipico delle scienze sociali e, segnatamente, della
sociologia si costruisce attraverso concetti che hanno fra di loro profonde
relazioni di opposizione e/o di complementarietà. Ne deriva che al fine
di fare chiarezza è importante sia proporre delle definizioni distinte
-concetto per concetto- ma ancor più, non di rado, è importante
esaminare le intersezioni che si stabiliscono tra due concetti. Un caso classico,
a questo proposito, è rappresentato dal concetto di devianza e dal concetto
di controllo sociale. Nelle pagine che seguono vengono proposte due definizioni
distinte, avendo cura però di vagliare il vincolo concettuale di reciprocità
indispensabile ai fini analitici.
Il termine devianza (desviaciòn social, deviancy, déviance
sociale, soziale Abweichung o Devianz) ha una sua lunga storia nella letteratura
sociologica teorica ed empirica mentre non ha conquistato uno spazio consistente
né nel linguaggio dell'uomo della strada né nel linguaggio dei
mass-media. E' risaputo che i sociologi parlano di comportamento deviante, in
linea di massima, quando intendono descrivere un comportamento che si discosta
dalle aspettative di normalità collaudate da una data società.
Gli elementi minimi e costitutivi di questa definizione, rilevanti dal punto
di vista del sociologo sono: a) un attore individuale o un gruppo; b) un comportamento
che si qualifica per la sua relativa eccezionalità nei confronti del
quadro normativo generalmente accettato da una società- Stato nonché
codificato dal diritto positivo e, comunque, ben radicato nella cultura dominante
del tempo. Dunque due aspetti vanno sottolineati sul piano interpretativo: il
comportamento deviante è relativo all'azione di alcuni attori ed è
storicizzato, vale a dire non risulta sempre identico nelle varie epoche e nei
vari luoghi. Si spiega così il fatto che le definizioni correnti nei
manuali di sociologia e nelle enciclopedie di scienze sociali propongono, quasi
sempre, sulla devianza un punto di vista nettamente relativistico che riconduce
l'attributo deviante ad una valutazione che si dà dell'azione piuttosto
che ad una sua caratteristica effettiva. In altri termini: il deviante è
un attore che adotta un comportamento che tradisce, in vario modo e con conseguenze
disparate, le aspettative che usualmente definiscono il senso della realtà
quotidiana di un ambiente sociale con il quale il deviante interagisce. Per
effetto dell'azione deviante una norma istituzionalizzata perde la sua efficacia,
o in parole più povere non fa più presa su quel soggetto particolare.
L'atto deviante in genere non resta però privo di conseguenze; di solito
produce una reazione dalla forma diversificata che testimonia del bisogno insopprimibile
di controllo sociale che qualsiasi organizzazione sociale in ogni tempo ed in
ogni luogo deve manifestare se vuole esistere. Questa reazione può essere
letta come un'espressione "naturale" della struttura normativa della
società, che pretende di ricucire la smagliatura aperta dalla devianza
e di mantenere così la sua operatività. Ove non ci sia una reazione
della società l'atto non può maturare la sua connotazione come
atto deviante, se non astrattamente. La norma agisce socialmente attraverso
due canali: la legittimazione, vale a dire l'adesione "normale" alle
aspettative di comportamento anche per merito di un processo di socializzazione
ben riuscito oppure l'azione degli apparati di controllo che funzionano erogando
sanzioni al fine di ripristinare lo stato di conformità antecedente all'atto
deviante.
Non ha molto significato per il sociologo che si occupa di deviant behaviour
collegare la devianza unicamente ad una data personalità quanto piuttosto
farla discendere dal comportamento che si collega a determinati ruoli sociali.
Questo collegamento spiega due caratteri endemici del comportamento deviante:
ripetitività e stabilità anche se l'atto deviante può svolgersi
in direzioni e secondo frequenza ed intensità spesso non omogenee. E'
corretto, allora, sostenere che la devianza si definisce per il suo carattere
interazionale. L'attribuzione soggettiva o politica della qualità deviante
dell'azione è frutto di un rapporto biunivoco che comunque non può
prescindere dal compimento di un dato atto senza il quale, ovviamente, fatti
salvi casi particolarissimi, non si possono manifestare imputazione, attribuzione,
disapprovazione e sanzione. Quelle indicate sono tutte espressioni di un complesso
rapporto sociale sussistente fra il deviante e il suo giudice ( inteso in un
senso socialmente ampio: può esser giudice anche il vicino di casa, il
compagno di scuola, un parente). Una conseguenza importante che discende dalla
definizione di devianza come status definito dalla società nella quale
il comportamento si manifesta è che non è possibile pervenire
ad una classificazione esauriente delle azioni devianti pur in quel dato milieux
di riferimento ed in quella data congiuntura culturale. I margini di prevedibilità
della reazione sociale al comportamento altrui non sono sempre identificabili
in maniera netta e rigorosa, talché le zone grigie dove la struttura
normativa consolidata non arriva sono piuttosto ampie ed in una società
complessa e multiforme come l'attuale tendono a dilatarsi. Ma ciò comporta
lo stesso la produzione di disapprovazione e l'erogazione di sanzioni anch'esse
di non agevole classificazione. Qualche esempio: la malattia mentale nelle sue
molteplici e varie manifestazioni che non sempre includono la reclusione in
un ospedale psichiatrico; l'esser vecchi o l'essere troppo poveri o l'appartenere
ad una minoranza etnica o religiosa; perfino l'abitare in una certa parte della
città piuttosto che in un' altra o avere delle abitudini di tempo libero
non allineate con quelle della massa possono esser tutti casi di comportamenti
ritenuti devianti.
La definizione scientifica della devianza assume connotazioni diverse in riferimento
all'impostazione teorica generale adottata da chi la studia. In questo paragrafo
redatto con finalità preliminari di definizione è opportuno tenere
conto dei principali orientamenti teorici. Il sociologo positivista fa coincidere
l'atto deviante con il rifiuto della norma codificata e si preoccupa di individuare
le motivazioni che inducono alla devianza. In questo caso dunque l'azione deviante
ha una sua marcata specificità come oggetto di studio. Il sociologo marxista
tende, invece, a privilegiare un'impostazione secondo cui la devianza si connette
a determinati ruoli definiti, naturalmente, dalla differente appartenenza di
classe e dalla posizione che i soggetti occupano nel processo produttivo, matrice
determinante della struttura della società e dunque anche radice ultima
del comportamento deviante. La prospettiva interpretativa propria della labelling
theory, poi, come meglio si dirà infra, adotta un criterio
di valutazione tipicamente radicale: la devianza è il prodotto di una
relazione di potere che vede da un lato un individuo od un gruppo in una condizione
di debolezza rispetto ad un altro individuo od un altro gruppo che ha il potere
(e l'interesse relativo) di etichettare come deviante il primo. Si tratta di
un'ottica di indubbia suggestione per la sua impostazione sociologica e per
lo studio delle politiche che si adottano a fini preventivi e/o repressivi della
devianza. Resta tuttavia il problema che non si può tralasciare lo studio
dell'azione che in quel dato contesto ed in quella data congiuntura storica
viene socialmente definita come atto deviante e ciò anche al fine di
capire meglio quando e perché si instaura un meccanismo di etichettamento.
Ovviamente, a seconda dell'impostazione teorica prescelta oppure in funzione
di alcune scelte di valore predilette ci si imbatte in una diversa classificazione
degli atti devianti. Usualmente tutti i testi parlano di comportamento deviante
quando fanno riferimento al comportamento criminale, alle varie forme di delinquenza
e all'uso della violenza come espediente per risolvere i problemi che sorgono
inevitabilmente nelle relazioni sociali; all'abuso di droghe; all'omosessualità,
alla malattia mentale, al suicidio. E' immediatamente evidente che questo elenco
può essere incompleto oppure troppo ampio e comunque senza dubbio da
riscrivere tra qualche lasso di tempo.
Ai fini di presentare una definizione sufficientemente esaustiva ed articolata
del comportamento deviante in quanto oggetto di studio è anche opportuno
sottolineare le differenze che sussistono fra la criminologia e la sociologia
della devianza. La criminologia studia le infrazioni commesse nei confronti
delle leggi; la sociologia della devianza ha un oggetto assai più ampio
includendo nei suoi interessi ogni atto che si allontana dal comportamento socialmente
accettato come comportamento normale. Come dire che si può essere devianti
anche senza essere criminali; come dire che la società può prevedere
sanzioni per atti che vengono reputati devianti sulla base di convenzioni sociali
che non arrivano ad essere recepite nella legislazione di una società-Stato
e che, anzi, a volte hanno un significato solo ove si manifestino all'interno
di alcune cerchie sociali. Resta fermo il punto che la sociologia della devianza
analizza nella prospettiva e con i metodi che sono propri della sociologia anche
il comportamento criminale. Che la prospettiva sociologica costituisca un elemento
arricchente rispetto alla prospettiva criminologica convenzionale è comprovato,
ad esempio, dal concetto di Deviancy Amplification elaborato nel 1964
da L. T.Wilkins e dalle prospettive analitiche correlate proprie della labelling
theory e del concetto di stigma. La criminologia per molto tempo si è
disinteressata di studiare i processi sociali che accompagnano la produzione
del crimine, mentre la sociologia si è preoccupata costantemente di ricostruire
il percorso che approda all'assunzione di un'identità deviante. Gli effetti
di un processo di stigmatizzazione che incoraggia l'assunzione di ruoli ripudiati
normalmente e le pressioni sociali che inducono un attore a diventare membro
di una subcultura deviante rappresentano un oggetto di studio significativo
utile anche come base per la costruzione e per l’implementazione di politiche
ad hoc. Anche la distinzione che E. Lemert (1967) ha proposto fra devianza
primaria e devianza secondaria (vedi infra) è particolarmente
opportuna in ordine alla valutazione delle reazioni sociali indotte dal comportamento
deviante; si tratta di un ulteriore aspetto che non rientra negli interessi
coltivati dalla criminologia.
2.Un concetto correlato: il controllo sociale
Gli specialisti da alcuni anni propendono ad intrecciare lo studio del comportamento
deviante con lo studio del controllo sociale. Si tratta di un'impostazione assai
diffusa (Cohen 1966; Cesareo 1979; Scull 1988) che non esime dal tentativo di
proporre una definizione specifica di controllo sociale (control social,
contrôle social, social control, soziale Kontrolle) perché
- come si è detto - solo la comparazione tra due concetti distinti analiticamente
agevola una valutazione adeguata della loro complementarietà. Il concetto
di controllo sociale si affaccia con nitore per la prima volta nel 1896 per
merito di E. A. Ross che raccolse poi tutte le sue riflessioni sul tema in un
volume che oggi è ritenuto un classico: Social Control: A Survey
of the Foundations of Order (1901). Ross propone il termine con un significato
preciso riferendosi al meccanismo che intenzionalmente viene esercitato dalla
collettività sull'individuo per indurlo alla conformità rispetto
all'insieme di valori che compongono l'ordine sociale in una società
non tradizionale. Sulla scia di Ross, nella proto-sociologia americana, almeno
fino ai primi anni Venti, il dibattito sul controllo sociale si sovrappone con
la riflessione sulla questione posta dall'interrogativo fondamentale per la
filosofia morale scozzese e per Georg Simmel: come è possibile l'ordine
sociale? L'idea di una forma di controllo sociale che raggiunge tutti nello
stesso modo perde significato in relazione all'accentuarsi progressivo della
complessità sociale. Già negli anni Trenta il concetto sfuma la
sua originaria generalità teoretica, si frantuma in altri concetti più
operativi sul piano empirico anche se rimane come elemento concettuale autonomo
da considerare in connessione con la settorializzazione della ricerca sociologica.
Questa interessante trasformazione viene condensata in maniera assai limpida
nella trattazione che Talcott Parsons dedicherà al concetto nel suo The
Social System (1951) esattamente mezzo secolo dopo la pubblicazione del
libro di Ross. Oggi lo spazio del concetto sembra essere entrato in un ciclo
di prudente dilatazione perché viene adottato a fini analitici dalla
sociologia criminale, dalla sociologia del diritto, dalla sociologia della medicina
e da un'avvertita sociologia della politica. Ciò detto è opportuno
ripercorrere sinteticamente la parabola storica seguita dal concetto di controllo
sociale.
La sociologia americana fino agli anni Trenta era fortemente interessata al
problema di come fosse possibile un determinato ordine sociale dopo la disgregazione
della forma tradizionale di ordine. Il mutamento sociale veniva concepito da
Ross come il passaggio (necessario) da un ordine naturale costituito dal concorso
di personalità non corrotte ad un ordine basato su istituzioni concepite
ad hoc per il controllo sociale e rette, comunque da uomini non corrotti.
L'ordine sociale, insomma, è dovuto all'azione di una sorta di élite
cui si contrappone una moltitudine crescente di "idioti morali" tipica
espressione della società industrializzata ed urbanizzata dove il flusso
di continue immigrazioni provoca il caos della modernità. Ross individuò
ventitré tipi di controllo sociale classificabili in due grandi gruppi
a seconda che venisse esercitato un controllo esterno oppure un controllo in
termini di influsso sociale (persuasion). Nel primo tipo troviamo,
come istituzioni-chiave, le Chiese ed il diritto; nel secondo tipo l'opinione
pubblica, l'educazione. Ross adotta una prospettiva evoluzionista che riecheggia
sia Durkheim sia Toennies; egli pone al centro dell'analisi l'idea di progresso
morale intesa in termini di passaggio da forme di repressione esterna a forme
di autocontrollo. Ross non elabora una strumentazione concettuale adeguata alla
spiegazione della transizione dal controllo esterno al controllo interiorizzato:
ma la sua intuizione ha una corrispondenza nella trasformazione verso la modernità.
Risulta fin troppo facile ascrivere al filone del pensiero conservatore l'opera
di Ross tutta permeata da un orientamento di diffidenza verso la grande città
e da un'aspirazione puritana che predilige la separazione dalle orde continue
ed irrefrenabili degli stranieri immigrati che distruggono irrimediabilmente
il natural order originario. Come si diceva il concetto di controllo
sociale inteso in questa accezione ampia, delineata da Ross, rimane al centro
dell'interesse sociologico fino agli anni Trenta; anche se il 1917 rappresenta
l'anno apicale perché è in quell'anno che l'American Sociological
Society dedica il suo congresso alla questione del controllo sociale. Tuttavia,
anche negli anni Quaranta lo spazio che la riflessione sociologia più
accreditata dedica al concetto è di tutto rispetto: prima MacIver e Page,
poi Landis si preoccupano di caratterizzare il controllo sociale come una condizione
istituzionale che conferisce coerenza all'ordine sociale e che consente alla
società di mantenere il suo equilibrio dinamico. A questa fase di successo
indiscusso del concetto segue la trattazione fondamentale fatta da Talcott Parsons
del controllo sociale come risposta alla devianza nella cornice della sua speciale
concezione dell'ordine sociale. Dopo la parentesi parsonsiana di rivalorizzazione
il concetto entra in crisi, ad esso si preferiscono il concetto di norma e quello
di integrazione. Il progresso ulteriore delle sociologie speciali incrementa
la produzione di concetti più specifici, legati all'analisi di problematiche
di settore e alla ricerca empirica promossa sulla vasta gamma di comportamento
criminale. Ne consegue l'obsolescenza del concetto di controllo sociale che
trova ormai una nicchia esclusiva nella sociologia criminale.
3. La Scuola di Chicago: la grande città e la devianza
Nella storia della ricerca sociologica la questione-devianza occupa una posizione
centrale già nella prima generazione di sociologi americani. Tre tappe
cruciali caratterizzano l'itinerario analitico sul tema fino ai primi anni Cinquanta.
David Matza nel suo studio classico Come si diventa devianti (1969)
propone tre coppie concettuali come chiavi di lettura tendenzialmente unificanti:
a) correzione-comprensione (la devianza viene studiata perché va rimossa;
la devianza va compresa anche in una dimensione di empatia); b) patologia-diversità
(la normalità va preservata dalla devianza che ne è una sua variante
non tollerabile; la devianza è una variante tollerabile della normalità);
c) semplicità-complessità (la devianza è un fenomeno ovvio
della vita in società; la devianza è un fenomeno non facile da
definire rispetto alla normalità con la quale spesso si intreccia). Queste
tre coppie concettuali ci aiutano a leggere le differenti analisi della devianza
e, non a caso, le rintracciamo costantemente. E' importante osservare che Matza
non propone un'ipotesi evoluzionista né presenta i termini delle coppie
concettuali in forma dicotomica: la relazione tra i concetti è di tipo
dialettico. Le contrapposizioni proposte si ritrovano in ogni concezione sociologica
dai primi studi della Scuola di Chicago fino ai neo-chicagoans o, se
si preferisce, fino ai labelling theorists, a parte la parentesi concettuale
parsonsiana principalmente dedicata alla tematizzazione: comportamento deviante
- controllo sociale - quotidianità piuttosto che all'analisi della criminalità
in senso proprio.
Negli anni Venti ed in quelli immediatamente successivi la crescita brutalmente
rapida delle città rappresenta per gli Stati Uniti d'America il nodo
sociale e politico dalla cui risoluzione dipende la stabilità del quadro
societario complessivo. Un buon esempio è offerto dall'ingigantimento
di Chicago: nel 1900 gli abitanti erano 1.700.000, nel 1920 erano diventati
2.700.000, nel 1930 sono 3.400.000. Magma di gruppi etnici, di nazionalità
e di classi sociali differenti; la grande città è il punto di
arrivo agognato di un flusso migratorio di vasta consistenza proveniente dall'Europa,
ma pure dalle piccole città e dalle innumerevoli comunità rurali
dell'America del tempo. La Chicago degli anni Venti e Trenta diventa così
il laboratorio di ricerca ideale per chi si occupa dei fenomeni di patologia
urbana. La disoccupazione, la mancanza di alloggio, il vizio, il crimine e la
devianza caratterizzano la vita di questi giganteschi agglomerati di folle inquiete
ed in continuo movimento. The City of the Big Shoulders - come la definì
Carl Sandburg in una sua ode famosa del 1914- condensava in sé‚
le tendenze di un'intera società che si rinnovava attraverso processi
che alternavano incessantemente sviluppo e crisi.
Robert Ezra Park è al centro di un progetto di ricerche sull'ambiente
urbano che resta ineguagliato per vastità e per impegno. La Scuola ecologica
di Chicago, nelle sue diverse generazioni di ricercatori impegnati tra il 1916
ed il 1939, annovera accanto agli “urbanologi” in senso stretto
come E. Burgess, R.McKenzie, E.Zorbaugh e L.Wirth altri studiosi come G.H. Mead,
W.Ogburn, F.Merrill, R.Redfield, S.Stouffer, H.Lasswell e E.Bogardus i quali,
partendo da un interesse comune per l'interpretazione degli effetti sociali
dell'urbanizzazione avviano delle ricerche che rappresentano l'inizio di diverse
specializzazioni della sociologia contemporanea: oltre alla sociologia della
città si possono ricordare la sociologia della famiglia, la sociologia
dell'opinione pubblica e dei mass-media, la sociologia delle professioni, lo
studio del social change e, non ultima, la sociologia del comportamento
deviante. Gli ecologi urbani propongono il termine disorganizzazione sociale
perché la loro impostazione ricollega la devianza ad un processo di disgregazione
sociale che ha nella città la sua matrice fondamentale. Il termine va
comunque accettato con cautela perché numerose ricerche degli stessi
ecologi ci dimostrano come il crimine e la devianza siano fenomeni assai organizzati.
L'allentarsi dei vincoli che legavano un individuo ad un determinato spazio
ove si esauriva la sua vita di essere sociale e l'indebolirsi dell'influenza
dei gruppi primari incoraggiano l'aumento della disorganizzazione sociale, della
devianza e del crimine che non solo si intensificano ma acquistano una connotazione
marcatamente urbana. «La natura generale di questi mutamenti è
indicata dal fatto che lo sviluppo delle città è stato accompagnato
dalla sostituzione di relazioni indirette e 'secondarie' alle relazioni dirette,
immediate e 'primarie' nelle associazioni degli individui nella comunità...Sotto
le influenze disgregatrici della vita cittadina, la maggior parte delle nostre
istituzioni tradizionali - la chiesa, la scuola e la famiglia - si sono notevolmente
modificate» (R.Park 1925,24-5). Insieme alla dissoluzione progressiva
di questo tipo di relazioni sociali e delle istituzioni fondamentali assistiamo
all'indebolimento ed alla scomparsa graduale di quell'ordine morale tradizionale
che su quel tipo di relazioni si fondava. Sono dunque alterate le condizioni
che garantivano un certo tipo di controllo sociale; mentre Durkheim parlava
di anomia, Park parla di "mobilitazione dell'individuo" e di "individualizzazione"
cioè di processi di cui non manca di sottolineare anche le implicazioni
positive. Park, infatti, definisce "regioni morali" quelle zone della
città "ove prevale un codice morale deviante". E se è
vero che i valori tipici della middle-class americana restano il parametro
fondamentale cui riferire la devianza, è pure vero che Park non si fa
condizionare troppo da questo parametro.
Nell'ambito della Scuola di Chicago la teoria dell'interazionismo simbolico
costituisce un riferimento essenziale per la comprensione della devianza. Il
comportamento umano viene concettualizzato come 'relativo' in quanto prodotto
dagli scambi simbolici fra individui. La definizione di sé stessi e degli
altri da parte dei soggetti avviene attraverso il processo comunicativo, o di
simbolizzazione. L'identità individuale è costruita sulla base
del riferimento all'altro generalizzato (Mead 1934). Thomas, mettendo in relazione
la costruzione dell'identità con la situazione, ovvero con il contesto
in cui si trova il soggetto, teorizza la pluralità delle identità
e fa discendere la legittimità del comportamento dalla definizione corretta
della situazione da parte del soggetto. La devianza è definita, quindi,
come il risultato della percezione che le persone hanno le une delle altre.
Ciò fa sì che il comportamento ritenuto normale dagli appartenenti
ad un gruppo possa essere definito deviante dall'esterno. L'attribuzione della
devianza avviene non nel contesto specifico dell'azione ma con riferimento all'assetto
sociale complessivo. La devianza può sorgere, inoltre, dal fraintendimento
della situazione da parte degli individui. A partire dal contributo offerto
dalla Scuola di Chicago, si svilupperà, negli anni Sessanta, la teoria
dell' etichettamento.
La Scuola di Chicago adotta l'ideologia della patologia sociale senza valutare
adeguatamente l'influenza di fattori storico-politici nella determinazione della
complessa problematica della disorganizzazione sociale. Pur con questo limite,
il tentativo merita vivo apprezzamento perché si ispira a criteri non
moralistici e segue un'impostazione rigorosa sotto il profilo scientifico. Agli
ecologi si devono i primi studi sistematici sulle bande giovanili, sui vagabondi
e sulle diverse forme di criminalità organizzata. Shaw e McKay, ad esempio,
lavorano sulle aree delinquenziali, cioè su un tipo speciale di area
naturale che incoraggia i rapporti simbiotici fra diversi tipi di devianza.
Gli atti criminali vengono localizzati su una mappa di Chicago insieme al luogo
di residenza dell'attore deviante; questi dati vengono correlati, ad esempio,
al tasso di densità della popolazione e/o al tasso di età della
popolazione si fanno così delle piccole scoperte, storicamente confinate
alla realtà chicagoana del tempo: il tasso del comportamento delinquente
è inversamente proporzionale alla distanza dal centro della città.
L'area criminogena registra le quote più alte di suicidi, di malattie
mentali, di casi di prostituzione et coetera e si sovrappone con una
zona di transizione contrassegnata da forte marginalità e da profondo
degrado morale. Alla Scuola di Chicago va poi anche riconosciuto il merito di
avere impostato una descrizione acribica dell'universo eterogeneo della devianza
ricostruendo in maniera straordinariamente efficace, grazie a delle tecniche
di rilevazione originalissime, l'ambiente di insorgenza della devianza ma pure
lo stile e la carriera degli attori devianti.
Dagli studi della Scuola di Chicago, proseguiti per tutti gli anni Quaranta,
sono emerse diverse teorie. La metodologia e i concetti della Scuola di Chicago
non solo hanno dato impulso a successive esperienze di ricerca ma hanno generato
anche alcuni degli orientamenti euristici contemporanei più suggestivi.
La sottolineatura del comportamento individuale ed dell'interazione fra gli
individui piuttosto che del condizionamento delle strutture sociali e culturali
ha prodotto, da un lato, le teorie dell'etichettamento e, dall'altro, del controllo
sociale e dell'anomia. Anche l'approccio basato sul concetto di comunità
è stato recuperato a partire dagli anni Settanta, prima per effetto dell'interesse
per il tema della vittimizzazione, stimolato da specifiche inchieste, poi grazie
al riemergere dell'attenzione per la dimensione ecologica della disgregazione.
La teoria ecologica attuale ha fra i suoi oggetti di studio la localizzazione
del crimine, ovvero i luoghi prediletti e gli ambienti propizi al crimine, l'evoluzione
nel tempo dell'ambiente sociale e lo sviluppo delle carriere criminali nella
comunità.
4. Il Capitolo VII di The Social System
Per Talcott Parsons devianza e controllo sociale sono due concetti interdipendenti
la cui trattazione viene sviluppata nell'ambito più ampio dell'intera
concezione dell'azione sociale. «La dimensione della conformità-deviazione,
cioè il problema funzionale, è inerente ai sistemi socialmente
strutturati di azione sociale in un contesto di valori culturali» (p.329).
La loro trattazione non viene dunque banalmente ridotta all'ambito specifico
della sociologia criminale. In altre parole è necessario ricondurre questi
concetti, come altri concetti sociologici, alla concezione parsonsiana dell'ordine
sociale concepito, principalmente, come effetto naturale del processo di socializzazione
che definisce in veste motivazionale -decisiva per ogni attore e per l'intero
ciclo della vita- il complesso valoriale caratteristico del sistema culturale.
Lo studio della devianza viene proposto nei termini di uno studio dei processi
che incoraggiano la resistenza alla conformità (o meglio alle aspettative
di conformità prescritte dal modello normativo); lo studio del controllo
sociale corrisponde allo studio dei meccanismi mediante i quali le tendenze
devianti vengono “neutralizzate nei vari sistemi sociali”. E' importante
sottolineare che la definizione di questi due concetti può essere sviluppata
avendo riguardo al singolo attore oppure avendo riguardo al complessivo sistema
di interazione. E' fondamentale ricordare con Parsons che: « l'equilibrio
stabile del processo di interazione costituisce il punto fondamentale di riferimento
per l'analisi del controllo sociale, così come lo è per la teoria
della deviazione» (Talcott Parsons (1951) 1965, p.307).
Talcott Parsons si sofferma sul problema del comportamento deviante nei termini
che gli sono propri dell'analisi della genesi della motivazione alla deviazione.
La formazione di una motivazione cumulativa alla deviazione viene ricondotta
ad un circolo vizioso presente nell'interazione di due soggetti agenti - ego
e alter - che alimentano delle ambivalenze complementari all'interno dei rispettivi
sistemi motivazionali. L’ambivalenza rispetto alla norma interiorizzata
e rispetto alle persone che svolgono un ruolo di partnership nell'interazione
si traduce in uno stato d'animo dell'attore che, essendo ambivalente, non adotta
un rifiuto netto della devianza. L'effetto della deviazione è quello
di mettere in crisi il sistema interattivo medesimo e di mettere in crisi la
conformità alle aspettative reciproche di comportamento. La definizione
parsonsiana in chiave di ambivalenza svela la profonda influenza della psicanalisi
e, in maniera consequenziaria, fa discendere dalla concezione del controllo
sociale una terapia mirata a rimotivare il deviante ad un'azione conforme. Tuttavia
la posizione di Parsons in proposito è più articolata di quanto
usualmente i suoi commentatori abbiano fatto credere. Non a caso egli scrive
che « il processo di psicoterapia... può servire, per certi scopi,
come prototipo dei meccanismi di controllo sociale» (pp.310-1). Nella
genesi della deviazione il conflitto di ruolo può risultare un fattore
determinante. L'attore può essere esposto a contrastanti aspettative
legittimate di ruolo con la conseguenza che non è possibile un loro adempimento
integrale. La soluzione sta nel compromesso oppure nella scelta di un'alternativa
a scapito dell'altra. Effetti probabili: l'attore si espone a delle sanzioni
ed alle inevitabili tensioni prodotte da un conflitto interno dovuto all'interiorizzazione
di gruppi di valori non apparentabili. Gli effetti perversi del conflitto di
ruolo si possono superare ridefinendo la situazione oppure fuggendola, adottando
la segretezza e distinguendo rigorosamente le situazioni nelle quali l'eterogeneità
dei valori può occasionare il conflitto di ruolo medesimo.
La devianza è diffusa, di rado appariscente e, in genere, sembrerebbe
avere conseguenze non devastanti; altrettanto in ombra opererebbero, in generale,
i meccanismi preposti alla funzione del controllo sociale. Di questi meccanismi
Talcott Parsons fornisce un'articolata tipologia che merita di essere ripresa
in questa sede perché esprime la coerenza del suo sistema teorico, ma
non solo per questo motivo. In primis va osservato che, in linea generale,
i meccanismi fondamentali di controllo sociale sono da ritrovare nei normali
processi di interazione così come si svolgono in un sistema sociale integrato
istituzionalmente. Il primo meccanismo da considerare, allora, è l'istituzionalizzazione;
essa è importante per descrivere lo sfondo sul quale dobbiamo comprendere
il funzionamento delle dinamiche di controllo sociale in un senso più
stretto. L'istituzionalizzazione svolge funzioni integrative a diversi livelli:
in particolare essa mette ordine nel complesso intreccio di relazioni in modo
che l'attore può gestire il suo sistema interattivo contenendone la dimensione
conflittuale. A tal fine viene organizzato in maniera piuttosto rigida il tempo
dell'azione sociale e, in secondo luogo, si determinano delle priorità
istituzionalizzate. Esiste poi una gamma di meccanismi informali di controllo,
solo in apparenza da considerare “minori”. Si tratta di un insieme
di sanzioni interpersonali che esprimono chiaramente il dissenso rispetto al
deviante e che ricorrono a forme di comunicazione sociale anche gestuale od
indiretta, con una finalità evidente di ricondurre garbatamente chi è
andato al di là del limite nello spazio comportamentale corretto. Il
terzo meccanismo da valutare è la ritualizzazione. I modelli rituali
servono per riorganizzare la reazione al dato critico in un modo positivo e
a prevenire, controllandole, le tendenze alla rottura. Un esempio classico è
offerto dall'elaborazione sociale del lutto. I modelli rituali hanno, in genere,
una connotazione permissiva che agisce da sfogo (comunque sempre controllato
culturalmente) della tensione che potrebbe avere effetti perniciosi per l'attore
implicato e per il relativo gruppo e per la comunità di appartenenza.
Un altro tipo di meccanismo di controllo sociale dalla significatività
più tenue è l'istituzione secondaria. Si tratta di una sorta di
valvola di sicurezza che genera effetti di controllo su elementi motivazionali
potenzialmente devianti. L'istituzione secondaria funziona da zona franca cioè
come uno spazio dove alcuni comportamenti ritenuti devianti sono invece legittimati.
L'esempio parsonsiano è quello della cultura della gioventù americana
che presenta, a suo dire, una dimensione permissiva piuttosto spinta, al limite
della deviazione esplicita. Alcuni modelli propri dello stile di vita giovanile
vengono integrati dalle principali strutture istituzionali specialmente grazie
all'educazione; altri modelli ricadono nell'ambito dei caratteri “autoliquidatori”
della cultura giovanile che promuovono una maturazione individuale ed un'emancipazione
progressiva dalla stessa cultura giovanile.
Un quarto tipo di meccanismo di controllo sociale è rappresentato dai
meccanismi di isolamento che si prefiggono sia di prevenire la formazione di
strutture di gruppo caratterizzate da una maggiore deviazione sia di prevenire
una pretesa di legittimità. Il deviante viene spinto in una certa posizione
con interessanti effetti deterrenti. Infine, la categoria più vasta e
più comune dei meccanismi di controllo sociale è data dall'apparato
punitivo composto da polizia e da magistratura con la funzione eminente di imporre
i modelli normativi e di collegare alla violazione della norma l'erogazione
di specifiche sanzioni negative. Nonostante che la riflessione su questo tipo
di meccanismo renda problematico il postulato parsonsiano dell'autoregolazione
del sistema sociale e sveli le difficoltà a volte persistenti di ripristinare
spontaneamente lo stato di equilibrio, Parsons non sottovaluta affatto l'importanza
di questi meccanismi ed avanza due osservazioni: a) gli organi di imposizione
svolgono una funzione essenziale nel senso di limitare la diffusione delle tendenze
devianti illeggittime; b) « attraverso la loro relazione con i tipi più
sottili di meccanismi di controllo sorgono i problemi di maggiore interesse
sociologico» (p.321). Parsons, infatti, sviluppa tutta la sua analisi
sul controllo sociale nell'intento di dimostrare che « nel sistema sociale
esistono di fatto importanti meccanismi non progettati, che in un certo senso
tengono testa alle tendenze intrinseche a una deviazione socialmente strutturata,
fornendo insieme alcuni suggerimenti sulle direzioni che la ricerca deve prendere
se vuole sbrogliare le fila intricate del funzionamento di questi meccanismi
» (p.329). Che il tema abbia una sua evidente centralità nel sistema
teorico parsonsiano risulta, infine, dimostrato dall'affermazione che «
le tendenze strutturate del comportamento deviante che non sono state affrontate
con successo dai meccanismi di controllo del sistema sociale, costituiscono
una delle fonti principali del mutamento nella struttura del sistema sociale»
(p.330).
5. Il funzionalismo e la teoria mertoniana dell'anomia
Sappiamo che il funzionalismo affronta lo studio della società concependola
come una totalità di strutture interdipendenti, ognuna delle quali svolge
una funzione orientata al mantenimento del sistema sociale complessivo e della
sua riproduzione. Emile Durkheim è senza dubbio uno dei principali precursori
del funzionalismo; la sua metodologia adotta come principio fondamentale la
separazione tra la causa efficiente di un fenomeno e la funzione che lo stesso
fenomeno assolve. «Ciò che dobbiamo determinare è se sussiste
una corrispondenza fra il fatto considerato e i bisogni generali dell'organismo
sociale ed in che cosa consista questa corrispondenza». In questa stessa
ottica non risulta poi molto paradossale l'idea, sempre di Durkheim (il quale
comunque non ha mai adottato il termine di devianza) che il crimine abbia una
sua funzionalità e che non si possa concepire esclusivamente come una
manifestazione patologica della vita in società. La devianza, in questa
prospettiva macrosociologica adempie un ruolo positivo nella conservazione dell'ordine
sociale ed anzi rafforza la normalità. Nelle Regole del metodo sociologico
(1895) Durkheim scrive con grande chiarezza che: «Classificare il reato
tra i fenomeni della sociologia normale non significa soltanto dire che esso
è un fenomeno inevitabile, benché increscioso, dovuto all'incorreggibile
cattiveria degli uomini, ma significa anche affermare che esso è un fattore
della salute pubblica, una parte integrante di ogni società sana».
Non solo è inconcepibile un organizzazione della vita collettiva senza
la presenza di manifestazioni devianti, ma v'è di più: la devianza
svolge delle funzioni positive perché rafforza la struttura normativa
nella coscienza collettiva; il criminale collega e mantiene più unite
tra di loro le persone normali che si ritrovano concordi nel condannare il reo
e che confermano così il loro senso della realtà comunitaria come
orientamento giusto. Naturalmente il sociologismo durkheimiano perviene a conclusioni
permeate da un funzionalismo esasperato che possono suscitare più di
una perplessità quando scrive: «Contrariamente alle idee correnti,
il criminale non appare più come un essere radicalmente non-socievole,
una specie di elemento parassita, di corpo estraneo e non assimilabile introdotto
in seno alla società; egli è invece un agente regolare della vita
sociale. Il reato, da parte sua, non deve più venir concepito come un
male che è impossibile contenere in limiti troppo angusti; ma quando
accade che esso scenda sensibilmente al di sotto del suo livello ordinario,
questo fatto non deve essere per noi un motivo di soddisfazione, perché
questo apparente progresso è certamente contemporaneo e solidale a qualche
turbamento sociale» (p.77). Quindi la pena, per Durkheim, non ha come
scopo primario la riabilitazione del criminale bensì la riconferma dell'autorità
morale della società; un punto di vista che è ostico alla criminologia
liberale. Ciò che preme sottolineare in questa sede è che Durkheim
suggerisce un approccio di studio della devianza in termini di funzionamento
della società, prescindendo dallo studio delle motivazioni individuali
che spingono all'atto deviante.
A questa stessa prospettiva ed al concetto durkheimiano di anomia si ispira
una delle più fortunate teorie sociologiche della devianza, quella elaborata
da Robert K. Merton nel 1938 nel saggio Social Structure and Anomia.
Il comportamento deviante insorge più frequentemente quando le norme
che governano la condotta in un dato quadro societario appaiono contraddittorie.
Per Merton la struttura sociale esercita su alcuni individui una pressione a
deviare, innescando un meccanismo dove le mete culturalmente condivise e i mezzi
socialmente accettati per raggiungerle sono sfasati. Cerchiamo di spiegare meglio.
Le mete culturali sono quegli obiettivi generali che danno senso all'esperienza
della vita: ad esempio nella società d'oggi, la conquista della ricchezza
e il successo. Tutti, o quasi tutti i membri di una società, in una data
epoca adottano le mete che la cultura propone in una forma quasi categorica.
La società propone anche gli strumenti istituzionali idonei (e legittimi)
per conquistare dette mete. La società del nostro tempo sovradimensiona
l'importanza di alcune mete, mentre non sottolinea - con altrettanta importanza-
le procedure istituzionali che devono essere adottate per il perseguimento dello
scopo condiviso. Molti individui sottoposti ad una particolare tensione per
il raggiungimento della meta si chiedono quale dei procedimenti disponibili
sia più efficace e meno costoso. Ne consegue che «il procedimento
che si mostra più efficace tecnicamente, non importa se sia più
o meno legittimo culturalmente, viene preferito alla condotta prescritta culturalmente.
Via via che questo processo di attenuazione continua la società diventa
instabile; e si sviluppa ciò che Durkheim ha chiamato 'anomia' (o mancanza
di norme)».
A ben guardare Merton propone una rivisitazione concettuale del termine durkheimiano
piuttosto sui generis, dato che nella società che induce alla
devianza alcune mete sono normativamente assai radicate e la loro accettazione
è molto diffusa; il comportamento deviante si manifesta quando le norme
che reggono la condotta in un dato ambiente evidenziano delle contraddizioni.
La riflessione mertoniana sulla devianza si allarga a una concezione più
generale dei rapporti fra struttura sociale e struttura culturale; per Merton,
«la struttura sociale si comporta di volta in volta come una barriera
o una porta aperta nei confronti della realizzazione dei mandati culturali:
quando la struttura culturale e la struttura sociale non sono integrate e la
prima richiede dei comportamenti che la seconda impedisce, ne consegue una tensione
che porta alla violazione delle norme o all'assenza di norme».
L'analisi mertoniana è particolarmente acuta nell'individuazione del
meccanismo socio-culturale tipico dell'America urbana ma anche di ogni società
post-capitalistica:« il processo per cui l'esaltazione del fine genera
quel che nel senso letterale del termine si potrebbe chiamare una demoralizzazione
(....), cioè una de-istituzionalizzazione dei mezzi, si verifica in molti
gruppi nei quali le due componenti della struttura sociale non sono grandemente
integrate». La meta del successo, valutata in termini della quantità
di denaro guadagnato e dell'acquisizione di beni materiali, viene condivisa
da tutti, indipendentemente dall'appartenenza sociale di ciascuno, ed assume
un valore preminente nei cui confronti si possono verificare cinque modalità
di adattamento articolate in una tipologia che fa parte, ormai, del discorso
sociologico classico.
modi di adattamento |
mete culturali |
mezzi istituzionali |
1. conformità | + |
+ |
2. innovazione | + |
- |
3. ritualismo | - |
+ |
4. rinuncia | - |
- |
5. ribellione | + - |
+ - |
La conformità rappresenta la modalità di adattamento più
comune; senza di essa non ci sarebbe la possibilità di vivere in una
società. In questo caso vengono pienamente accettati sia i valori propagandati
dalla cultura sia i mezzi indicati per ottenere lo status congruo con lo stile
di vita che viene ad essi associato. Questa soluzione è, naturalmente,
diffusa un po' in tutti gli strati sociali, anche se alcuni strati sembrano
più inclini di altri ad optare per questa forma di adattamento. L'innovazione
comporta l'accettazione delle mete culturali e, dunque, dei valori socialmente
approvati, ma una presa di distanza nei confronti dei mezzi istituzionali. L'innovatore
opta per l'uso di mezzi tecnicamente idonei a perseguire la meta anche se è
ben consapevole che si tratta di mezzi socialmente non approvati. Secondo Merton
i white collar crimes studiati da Sutherland rientrano in questa categoria.
Ma il caso più interessante sociologicamente riguarda coloro che appartengono
alle classi inferiori nei cui confronti opera, forse, la maggiore pressione
ad un comportamento deviante.
Il sistema della stratificazione mette in evidenza che gli strati inferiori
accettano, come tutti gli altri, il mito della ricchezza. Anche se, di fatto,
le possibilità effettive a loro disposizione per agire istituzionalmente
al fine di procacciarsi delle grandi ricchezze praticamente sono inesistenti;
questi ceti non sono indotti a criticare la struttura sociale e politica che
li colloca in una condizione di palese svantaggio rispetto agli strati superiori.
L'intreccio fra queste condizioni non compatibili reciprocamente produce devianza.
L'opzione rituale riguarda, invece, coloro che respingono le mete ma accettano
i mezzi. Il burocrate iperattivo o l'impiegato forzatamente innamorato della
sua routine esprimono le frustrazioni proprie di chi non ha la possibilità
concreta di raggiungere la meta del successo ma necessita di un conforto psicologico
compensatorio. La rinuncia, impropriamente, si configura come un tipo di adattamento:
rinuncia, infatti, colui che non accetta né le mete né i mezzi
istituzionalmente previsti per raggiungerle. Chi rinuncia abbandona il gioco
definito dalla struttura socio-culturale in termini di esasperata competitività
e si mette ai margini della società. L'elenco dei rinunciatari effettuato
da Merton comprende delle categorie asociali e dei tipi particolari di devianti:
« gli psicotici, i visionari, i paria, i reietti, i mendicanti, i vagabondi,
i girovaghi, gli ubriaconi cronici e i drogati». Quella del rinunciatario
si configura come una modalità di adattamento che matura nella sfera
del privato ed è dunque irrilevante (almeno in apparenza) sul piano collettivo.
La ribellione, infine, comporta una doppia scelta: prima il rifiuto delle mete
e dei mezzi codificati, poi l'assunzione di nuove mete e di nuovi mezzi. Il
ribelle combatte per una struttura socio-culturale alternativa a quella da cui
ha preso la distanza. Il rifiuto dei valori dominanti e dei mezzi prescritti
per realizzarli si accompagna con l'impegno per sostituirli con altri valori
in vista di una rifondazione radicale del sistema sociale.
Il principio sociologico generale che emerge dall'analisi mertoniana è
che non tutti dispongono delle medesime chances per raggiungere legittimamente
gli obiettivi di status definiti con forza dallo stesso processo di socializzazione.
Età, sesso, classe sociale di appartenenza possono costituire un'agevolazione
oppure un ostacolo per il successo. Le differenti classi sociali sono soggette
in maniera differenziale all'influenza anomica. La tipologia definita da Merton
va letta per l'appunto come serie di modalità di adattamento ad una condizione
sociale anomica. I problemi che i critici hanno sollevato nei confronti di questa
proposta mertoniana che tende a sovrapporre, in qualche caso, devianza ed anomia
sono numerosi (cfr. R.Dubin 1959; H.Hyman 1969; G.Gennaro 1993). Merton stesso
era consapevole del problema di un'imputazione causale troppo semplificata e
scriveva che «anomia e tassi sempre più alti di comportamento deviante
possono essere concepiti come fenomeni interagenti in un processo di dinamica
culturale e sociale». In altre parole la sua teoria rimane suggestiva
proprio perché tenta di individuare le basi culturali del comportamento
deviante e non teme di svelare la connessione tra la devianza ed un nucleo valoriale
predominante nella società moderna.
La prospettiva delineata da Merton viene ripresa da Albert K.Cohen cui si deve
un contributo importante sulla subcultura della devianza giovanile. Cohen nota
in primis che il giovane quando devia adotta un orientamento irrational,
malicious and unaccountable; sottolinea cioè alcuni aspetti generali
e tipici della psicologia giovanile che si riflettono sull'atto deviante. Ma
l'altro aspetto rilevante della sua analisi sui Ragazzi delinquenti
(1955) è dato dall'ipotesi che la devianza, anzi più precisamente
la delinquenza giovanile sia un'espressione caratteristica delle classi socialmente
inferiori. L'analogia con l'impostazione mertoniana è chiara: i giovani,
indifferentemente rispetto alla loro appartenenza sociale, vengono valutati
sulla base di un complesso di valori che caratterizza l'american way of
life tipico della classe media. In funzione di questo apparato valoriale
e normativo ci si trova di fronte ad «un sistema di qualificazione sociale
in cui i giovani di livelli sociali diversi possono essere e sono posti direttamente
a confronto in base allo stesso complesso di criteri basati sull'acquisività.
Differenze sistematiche in questa capacità generale di successo, connesse
con la classe di appartenenza, relegheranno sul fondo della piramide sociale
i giovani appartenenti alle classi sociali più svantaggiate, non direttamente
a causa della loro posizione di classe in quanto tale, ma perché a causa
degli handicap connessi con la classe che agiscono da remora per loro, essi
mancano delle qualifiche personali richieste. In breve, dove le opportunità
di successo sono connesse con la classe, si produrrà lo scontento sociale
nella misura in cui il sistema di qualificazione è democratico»
(A.K.Cohen 1974, pp.86-8). In poche parole i giovani di classe inferiore hanno
dei problemi di adattamento dovuti al confronto con gli standard di comportamento
definiti dalla classe media; la subcultura delinquente è una delle risposte
possibili a questi problemi. Ma andiamo con ordine. I ragazzi che appartengono
originariamente alla classe inferiore possono adottare rispetto allo svantaggio
della condizione di partenza una di queste tre soluzioni che va letta - in una
chiave mertoniana - come una soluzione ad un problema di adattamento: a) una
certa quota di ragazzi della classe operaia si impegna in una forma straordinaria
in un percorso di vita che ricopia lo schema tradizionale dei giovani di classe
media (è la soluzione da college boys): in questo caso il successo
scolastico rappresenta la porta di ingresso verso il successo in generale e
l'adesione piena ai valori dominanti; b) per molti la “prova” dell'esperienza
scolastica fallisce; ci si trova allora un lavoro tipico da membro della classe
inferiore, senza uno sbocco stimolante in termini di carriera e ci si adatta
ad una condizione di vita che respinge in parte i valori della classe media
senza però entrare in una condizione di aperto conflitto (è la
soluzione da corner boys); c) alcuni, infine, adottano la soluzione
delinquente: respingono energicamente gli standard di vita della classe media
( sia pure con l'ambivalenza dovuta alla socializzazione primaria), ricercano
l’unione tra ribelli e riattivano il processo di autostima intraprendendo
delle attività di banda. La gang rappresenta un medium sociologico
imprescindibile per motivarsi reciprocamente nell'attività tipica dei
delinquenti. La subcultura delinquente ha, principalmente, la funzione di legittimare
l'aggressività.
6. La teoria del controllo sociale
Alla teoria della subcultura si contrappone l'approccio alla devianza basato
sul concetto di controllo sociale. Matza critica l'assunto centrale della teoria
della subcultura, secondo il quale la devianza dà luogo ad un mondo indipendente
regolato da norme autonome e l'individuo che viola la legge - ovvero le norme
dell'ordine legittimo - è totalmente estraneo a questo ordine. Per Matza
(1964) la definizione sociale della devianza discende dal conflitto fra il senso
attribuito all'atto deviante dai devianti e il senso dato allo stesso atto dagli
altri soggetti. Nel suo studio sui giovani delinquenti Matza vede nel deviante
un individuo che partecipa al sistema dei valori legittimo e si pone il problema
di spiegare perché il deviante è tale, pur conoscendo e condividendo
le regole di comportamento degli altri membri della società. Sykes e
Matza (1957) sostengono che, in un contesto in cui i valori e le norme rappresentano
delle guide per l'azione di carattere flessibile, il deviante può elaborare
delle giustificazioni della propria azione, adducendo motivazioni che legittimano
dal suo punto di vista la sospensione di una norma morale o legale e gli consentono
di sentirsi autorizzato a trasgredire. In quest'ottica l'ingresso nella devianza
non implica l'interiorizzazione dei valori di una sottocultura contrapposta
all'ordine sociale dominante, ma l'apprendimento delle “tecniche di neutralizzazione”
che consentono all'individuo di continuare a considerare legittime le regole
che sta violando. Le tecniche di neutralizzazione individuate sono cinque: la
negazione della responsabilità, la negazione del danno, la negazione
della vittima, la condanna di chi condanna e il richiamo a lealtà di
ordine più elevato. La neutralizzazione spiegherebbe l'inclinazione di
un individuo a compiere atti devianti in quanto la sospensione della fedeltà
ai valori sociali libera l'individuo e lo pone alla deriva. La condizione di
deriva è aperta sia al reingresso nella conformità sia al proseguimento
sulla strada della devianza.
La versione più recente della corrente sociologica che legge la devianza
in termini di controllo sociale è la teoria del legame sociale di Hirschi
(1969). Similmente a Durkheim, Hirschi pone i comportamenti su di una scala
che va dalla conformità alla devianza. Il comportamento convenzionale
è il frutto dell'influenza delle norme interiorizzate, della coscienza
e del desiderio di approvazione. L'individuo è libero di accedere alla
devianza, ma, mentre Sykes e Matza spiegano l'orientamento alla devianza con
il ricorso da parte dell'individuo alle tecniche di neutralizzazione, Hirschi
chiama in causa la natura dei legami sociali e associa la devianza al loro indebolimento
o alla rottura. Un individuo compie un reato quando i vincoli che lo legano
alla società perdono di forza e di efficacia nel trattenerlo dal seguire
le proprie inclinazioni e i propri interessi. I legami sociali sono costituiti
da quattro elementi: l'attaccamento, il coinvolgimento, l'impegno e la convinzione.
L'attaccamento è dato dalla forza dei legami verso altri significativi
(i genitori, gli amici, i modelli di ruolo) o verso le istituzioni (la scuola,
l'associazione); il coinvolgimento è espresso dal tempo e dalle risorse
dedicate alla partecipazione ad attività convenzionali (tanto più
tempo è dedicato allo studio, allo svago, ecc. tanto meno ne resta per
compiere atti devianti); l'impegno è costituito dall'investimento sotto
forma di istruzione, reputazione, posizione economica; la convinzione, infine,
consiste nel riconoscimento della validità delle norme vigenti. La libertà
di adottare comportamenti devianti si riduce o si estende a seconda della presenza
e dell'intensità degli elementi costitutivi dei legami sociali.
La teoria del controllo sociale pone, dunque, in relazione l'aumento dei comportamenti
devianti con l'indebolimento della coesione sociale. La devianza è assunta
come un dato naturale in una società. Gli individui agiscono spinti dalla
ricerca dell'autoconservazione e della gratificazione; il vivere sociale è
reso possibile dall'ordine morale formato dalle regole, che gli individui interiorizzano
nel corso della socializzazione; il legame con l'ordine sociale, imperniato
sui quattro elementi individuati, è la condizione per il mantenimento
della conformità. In quest'approccio, che si fonda su di una concezione
pessimistica della natura umana, ritenuta moralmente fragile e bisognosa di
freni e di controlli, è proprio la conformità a dover essere spiegata,
piuttosto che la devianza.
Una versione più recente della teoria del controllo sociale è
stata elaborata da Gottfredson e Hirschi (1990) con la denominazione di teoria
generale della criminalità o teoria del basso autocontrollo. Il crimine
non nasce da motivazioni o bisogni specifici ma dalle pulsioni di tipo egoistico
quando vi è un basso grado di autocontrollo. I tratti della personalità
individuale - come l'impulsività, l'insensibilità, l'egocentrismo
e le capacità intellettive - assunti in età precoce durante il
processo di socializzazione influenzano la capacità di autocontrollo
degli individui. Se le caratteristiche potenzialmente criminali sono parte costitutiva
della natura umana, la possibilità di intraprendere una carriera deviante
viene a dipendere dal successo o dal fallimento del processo di socializzazione.
All'interno della loro teoria gli autori ricomprendono anche gli assunti di
altre correnti teoriche; l'atto deviante, da un lato, è compiuto dal
soggetto sulla base di un'aspettativa di gratificazione e del calcolo dei costi
e dei benefici che ne scaturiscono, che configurano una disposizione razionale
da parte del deviante, e, dall'altro, presuppone delle condizioni favorevoli
esterne e interne al soggetto.
7. Un punto di svolta: la labelling theory
Alla metà degli anni Sessanta emerge un punto di vista sulla devianza
che, per certi aspetti, appare come una sorta di rivoluzione copernicana ma
che, sotto altri versanti, si presenta come un'espressione sincretica della
Scuola di Chicago e del funzionalismo che tiene però in largo conto anche
dell'interazionismo simbolico e della fenomenologia. Questo nuovo modo di guardare
la devianza riesce a combinare prospettive teoriche diverse in un 'unica tesi:
lo studio della devianza deve spostare il suo fuoco dall'attore e dall'atto
verso l'opinione pubblica. La società inventa la devianza nel senso che
i gruppi sociali stabiliscono che cosa è devianza, definendo le norme
la cui infrazione comporta l'attribuzione della qualifica deviante. L'attore
deviante è una persona particolare che viene etichettato come outsider.
La devianza non è un'azione qualificata intrinsecamente come tale, ma
piuttosto l'effetto dell'applicazione di certe regole e delle sanzioni correlate
da parte di alcuni (gli etichettatori) a danno di altri (i trasgressori). Il
nuovo orientamento mette radici prima nella sociologia statunitense e poi in
quella europea, dominando la scena per oltre vent'anni. Viene individuato con
nomi diversi: teoria interazionista, transazionale, della reazione sociale ma
il più delle volte con l'espressione fortunata di labelling theory.
Sotto il profilo metodologico l'innovazione sta proprio in uno spostamento di
attenzione dal comportamento alla reazione sociale. Le teorie tradizionali studiano
l'azione deviante e cercano di rintracciare le sue cause in un pattern
più o meno deterministico; le nuove teorie evitano la spiegazione causale,
adottano un modello flessibile dell'azione umana e sono unicamente interessate
ai meccanismi di etichettamento che rappresentano la reazione sociale alla devianza.
L'ottica è innovativa perché si sostiene che non è la devianza
che genera il controllo sociale ma all'opposto è il controllo sociale
che porta alla devianza.
La definizione di Howard S. Becker esprime bene il significato di questo nuovo
orientamento teorico: «La devianza non è la qualità di un
atto compiuto da una persona, ma piuttosto la conseguenza dell'applicazione
di norme di sanzioni da parte di alcuni nei confronti di un trasgressore (offender).
Il deviante è uno a cui questa etichetta è stata applicata con
successo; il comportamento deviante è il comportamento che le persone
così etichettano» (H.S. Becker 1964). La distinzione di Edwin M.
Lemert fra devianza primaria e devianza secondaria rappresenta uno dei concetti
fondanti della teoria dell'etichettamento. Si parla di devianza primaria avendo
riguardo ad un comportamento che, pur essendo obiettivamente deviante, non viene
censurato e, quindi, non comporta una redifinizione dello status sociale del
trasgressore. Quando il comportamento deviante è ripetuto frequentemente,
acquista evidente visibilità ed allora si scatena una reazione sociale:
a questo punto si ha il passaggio alla devianza secondaria. Il passaggio dalla
devianza primaria alla devianza secondaria è formato da un meccanismo
di interazione a più stadi che vede un progressivo rafforzamento nella
condotta deviante come effetto di un incremento ripetuto di sanzioni sociali
e di formale stigmatizzazione. Alla fine della sequenza, l'attore muta l'originaria
autovalutazione del proprio comportamento, accetta il suo status di deviante
ed opera gli adattamenti di ruolo corrispondenti. In parole più semplici
la devianza primaria ha delle implicazioni marginali anche per la struttura
psichica del soggetto che non si vede costretto a riorganizzare il suo progetto
di vita complessivo. La devianza secondaria, invece, vede una stabilizzazione
del comportamento deviante, la ripetitività lo rende abitudinario con
la conseguenza, in certo modo, di professionalizzarlo e di contagiare anche
gli altri ruoli che non avrebbero una connessione diretta con l'atto deviante
medesimo.
L'inizio della carriera deviante è non di rado del tutto accidentale.
La reazione della società trasforma un fatto episodico; la disapprovazione,
l'isolamento sociale la degradazione che ne consegue stabilizzano la devianza.
Il comportamento deviante diventa uno strumento di difesa da usare per fronteggiare
i problemi posti dalla reazione sociale. Uno dei contributi interessanti sul
piano euristico dettati dalla scuola del labelling e da Becker specificatamente,
riguarda la proposta di un modello sequenziale (o fasico) in sostituzione del
modello simultaneo prediletto dall'approccio sociologico tradizionale a proposito
della costituzione di un comportamento deviante. Le variabili interpretative
di ciascuna delle fasi componenti sono significative anche perché la
distinzione tra deviante e non deviante sottolinea il carattere processuale
del comportamento deviante che perde la sua unicità e che si sviluppa
per l'appunto attraverso una sequenza di atti nel tempo. Ne deriva l’elaborazione
del concetto di carriera che nella formulazione beckeriana prevede l'apprendimento
sociale di motivazioni e di interessi devianti.
Lemert, tuttavia, assai acutamente osserva che una parte non trascurabile della
definizione sociale del deviante non ha una corrispondenza nel suo comportamento
effettivo. Si riscontra, insomma, un surplus di reazione sociale e di correlata
penalizzazione che dipende da una distorsione non agevole da spiegare. In misura
non piccola la devianza diventa allora devianza putativa. Questo processo di
falsa imputazione che connota i meccanismi di reazione sociale dipende da molte
condizioni; prima fra tutte l'uso manipolativo della devianza effettuato da
gruppi in competizione per motivi di potere. Ma vanno considerati anche il deficit
organizzativo degli apparati di controllo e le esigenze legate alle politiche
instaurate da questi stessi apparati, la separazione tra i problemi reali posti
dalla devianza e l'opinione pubblica, et alia.
L'anatema lanciato da chi e/o da coloro che hanno il potere di etichettare si
traduce in un controllo della condotta di chi viene etichettato. Non si può
però concepire l'etichettato esclusivamente come un dominato inerte;
specialmente in una società complessa, mutevole e pluralista qual è
la società contemporanea, il deviante non rimane sempre passivo ma organizza
una risposta a chi lo etichetta. Il quadro normativo difeso con l'azione del
labelling diventa oggetto di conflitto e si colloca, non di rado, al
centro della dinamica politica di una data società. Ma non si può
trascurare una riflessione che riguarda il singolo attore coinvolto nel processo
di labelling; egli, alla fine di questo processo, si identificherà
con l'immagine socialmente codificata del deviante ma anche con la subcultura
organizzata in funzione di quella data devianza alla quale l'attore partecipa.
Il deviante si riconferma tale respingendo coloro (singoli, gruppi, istituzioni)
che l'hanno respinto e che l'hanno confermato nella sua condizione di outsider.
Resta valida comunque l'osservazione che quante più subculture animano
la scena sociale (l'esempio tipico viene offerto proprio dalla forte eterogeneità
socio-culturale della metropoli) tanto più problematica diventa l'individuazione
del deviante e del suo etichettamento.
Rispetto ai teorici dell’etichettamento Goffman esplora il tema della
devianza in relazione ai processi di costruzione dell’identità
sociale. Nella sua analisi del rapporto fra ruolo e identità, Goffman
(1956) individua tre componenti del ruolo: l’aspetto normativo, l’aspetto
tipico, costituito dagli attributi associati alla persona che adotta il ruolo,
l’aspetto dell’interpretazione, che fa riferimento al contesto di
interazione nel quale il ruolo viene assunto. Il ruolo, dunque, si colloca sempre
in un sistema di interazione e di attività situata e la persona che lo
assume si conforma alle attese degli altri. La possibilità di interpretare
più ruoli a seconda delle esigenze poste dal contesto pone il problema
della definizione e del mantenimento dell’identità personale, che
Goffman risolve introducendo il concetto di “distanza dal ruolo”.
L’attore può segnalare agli altri che non si assoggetta completamente
alle obbligazioni afferenti al ruolo che egli si trova a rivestire. Questo scarto
fra ruoli e identità può essere recepito dagli interlocutori dell’attore
come trasgressione delle norme che regolano il ruolo e assumere la forma della
devianza.
In un’opera successiva, Stigma, Goffman (1963) offre un secondo
importante contributo alla teoria della devianza. Un atto deviante è
tale quando trasgredisce una norma; per Goffman la trasgressione ha per oggetto
un tipo specifico di norme, che regolano l’identità. Ogni individuo
è dotato di un’identità sociale: un complesso di segni esteriori
definisce il suo status sociale e stabilisce le modalità di rapporto
che gli altri possono intrattenere con lui. L’identità personale
che si va così a costruire è composta di due dimensioni: una virtuale,
che è attribuita all’individuo sulla base della sua apparenza,
e l’altra reale. Lo stigma è quell’attributo personale (una
qualità fisica o culturale, come il colore della pelle, la deformità,
l'handicap, l'omosessualità, la religione) la cui osservazione suscita
negli altri un dubbio sull’identità sociale del soggetto, in quanto
pone il problema dell’adeguatezza fra identità virtuale e identità
reale. Da parte sua l’individuo portatore di stigma cerca di gestire lo
scarto tra le due dimensioni della sua identità, attraverso delle strategie
di controllo dell’informazione sociale, che sono volte a far dimenticare
o a servirsi dello stigma stesso quando lo stigma è riconoscibile e palese,
oppure a evitarne lo svelamento quando lo stigma è nascosto. Si pone,
dunque, per Goffman il problema di spiegare quando un attributo si trasforma
ed è riconosciuto dagli altri come stigma. In teoria qualsiasi attributo
può divenire uno stigma; poiché il passaggio da attributo a stereotipo
avviene nel corso dell’interazione faccia a faccia, l’autore sottolinea
che non è il possesso dello stigma in sé ma il tipo di rapporto
sociale in cui il soggetto è coinvolto a determinare il sorgere della
devianza. Il deviante è, perciò, il soggetto che è portatore
di uno stigma, che ha scarse possibilità di controllare l’informazione
per lui discreditante, e che, infine, è posto in contesti poco favorevoli
alla gestione di un’identità segnata dallo stigma.
La più parte delle ricerche empiriche effettuate sulla questione devianza
negli ultimi trent'anni riflette questo approccio, confermandone la suggestione
presso gli addetti ai lavori. Tra i molteplici temi affrontati troviamo la ricostruzione
storico-istituzionale degli apparati di controllo; l'analisi delle modalità
di funzionamento delle istituzioni di controllo sociale; lo studio della formazione
della gestione delle identità del deviante e la costruzione degli stereotipi
relativi. Negli anni Sessanta questo orientamento è stato affiancato
vigorosamente da un’ondata movimentista che ha coinvolto non poche categorie
devianti con l'esigenza di mitigare l'ostracismo sociale ma anche professionisti
ed operatori impegnati nelle attività di controllo sociale che sentivano
il bisogno di sostituire i criteri tradizionali che guidavano il loro lavoro.
Si sono formate delle organizzazioni critiche di settore nell'ambito della criminologia,
del diritto e della psichiatria, mobilitate al fine di smantellare le strutture
di controllo sociale, di promuovere il rinnovo dei paradigmi teorici e di far
mettere radici ad una cultura della diversità che ha sorretto, ad esempio,
sul piano internazionale il movimento per la liberazione degli omosessuali ed
in molti casi ha travolto le vecchie forme di legislazione sull'organizzazione
della vita nelle istituzioni totali come ospedali psichiatrici e prigioni. Queste
strategie hanno incoraggiato importanti esperimenti innovativi anche al livello
delle politiche sociali, sanitarie e carcerarie in molti paesi occidentali.
Sia questi esperimenti di politica sociale sia la teoria del labelling
che li ha ispirati sono tuttavia oggetto di critiche piuttosto dure che forse
è opportuno ricordare brevemente, stante la decisiva influenza avuta
dalla teoria dell'etichettamento a partire dagli anni Sessanta ad oggi.
Giovanni Gennaro ha raccolto in una forma sistematica le critiche principali
riguardanti sia il piano del supporto empirico della teoria, sia il piano dei
presupposti fondamentali e della ideologia che la orienta. I labellists
svalutano oltre modo il dato relativo alla devianza primaria; non danno peso,
cioè, al momento della prima crisi nel rapporto dell'attore con la norma:
per la teoria dell'etichettamento, infatti, la vera devianza si ha solo nel
momento in cui si concreta una reazione di controllo nei confronti dell'atto
che si discosta dalla norma. Questa impostazione non è però da
accettare in toto proprio perché la labelling theory
non riesce a sostituire le teorie più tradizionali che si preoccupano
invece di spiegare, in vario modo, specialmente quando non esclusivamente la
devianza primaria. Altrettanto significative appaiono però le critiche
relative alla validità della teoria sotto il profilo del suo supporto
empirico. Ad esempio, una rassegna di molte ricerche dedicate alla malattia
mentale ed alla sua istituzionalizzazione, curata da Walter Gove nel 1970 nella
prospettiva della societal reaction, mostra che l'etichettamento non
è un meccanismo che scatta immediatamente e sempre nei confronti di chi
manifesta i sintomi della malattia. I meccanismi individuati dalla labelling
si riscontrano specialmente per i casi estremi degli internati a lungo termine,
e, dunque, la teoria troverebbe idonea applicazione solo per una parte di una
fenomenologia invece assai varia e complessa. Anche il potere degli apparati
di controllo appare tutt'altro che incontrastato o esente da possibilità
di negoziazione, oltreché risultare correlato soprattutto con la propensione
alla recidività. In sostanza tra le accuse principali si rintracciano
quelle di un eccesso di relativismo e quella di un'indebita attribuzione di
capacità di causazione all'etichettamento. Ancora: Lemert aveva definito
la reazione sociale come « un insieme di processi tramite i quali le società
rispondono ai devianti sia informalmente sia attraverso le loro agenzie ufficialmente
delegate». Ebbene è stato autorevolemente notato che la nozione
di reazione sociale «viene a beneficiare di uno spettro di referenza straordinariamente
ampio, che va dalla diceria all'arresto» talché se da un lato ha
permesso alla teoria di avere successo, dall'altro lato ne mina la solidità
scientifica almeno sino a quando non vengano chiariti con più precisione
il suo significato ed il suo ambito di applicazione (Gennaro 1993,pp.167-171).
Infine, tra le critiche va citata per la sua rilevanza storica quella espressa
nel 1974 dallo stesso Lemert; si tratta di una sorta di bilancio dell'efficacia
della teoria effettuato da uno dei suoi inventori. Lemert include tra i lati
deboli della labelling: un “estremo soggettivismo”; l'adozione
spesso acritica del punto di vista del deviante; un sovradimensionamento dell'autoritarismo
dell'establishment e dell'arbitrarietà della reazione sociale; l'uso
di un linguaggio suggestivo ma metaforico che rimane prigioniero del deviant
argot; ed infine l'evidenziazione del principale punto di debolezza nella
derivazione della teoria dal pensiero di Mead che soffrirebbe non poco di ambiguità.
L'interazionismo simbolico, con le sue ambiguità terminologiche e concettuali,
produrrebbe le smagliature più gravi di cui soffre la labelling theory.
Non è il caso in questa sede di andare oltre a ciò che è
stato detto anche perché gli elementi sopra riportati sembrano sufficienti
a chiarire l'originalità ma pure il relativo spessore di questa teoria
che era stata adeguatamente etichettata come a new wave in sociology.
8. Le teorie radicali: devianza, controllo sociale e capitalismo
Negli anni Settanta e negli anni Ottanta la questione devianza viene ricollocata
nell'ambito di un importante filone dell'analisi sociologica quello delle teorie
conflittuali. Questa collocazione riporta la questione ad un livello macrosociale
e rilancia l'interesse per i fenomeni di criminalità. In altre parole
l'attenzione si focalizza su fenomeni e su processi che rappresentano la repressione
istituzionale mentre restano in secondo piano i comportamenti non conformisti
che avevano appassionato fino ad allora i sociologi della devianza.
Come è noto, la sociologia del conflitto presenta due versioni: una versione
pluralista ed una versione marxista. La versione pluralista (o liberale, alla
Dahrendorf) sottolinea la rilevanza delle dinamiche fra gruppi sociali in competizione
per l'autorità. La versione pluralista, inoltre, prescinde sia dal riferimento
ad una dimensione strutturale del conflitto sia da una valutazione adeguatamente
critica dei reali interessi che vengono soddisfatti dal sistema giuridico. La
soluzione dei problemi emersi per effetto del conflitto, d'altronde, viene coerentemente
affidata alla mediazione politica ed al suo potere di riformare il quadro normativo.
I paladini di questa versione sono i criminologi G.Vold e A.T.Turk. Per loro
il crimine si collega direttamente e prevalentemente a situazioni di conflitto
intergruppo e alla esigenza di pervenire a degli aggiustamenti reciproci tra
i vari interessi di cui i diversi gruppi sono portatori. Il potere di produzione
delle norme e della loro applicazione viene esercitato dalle autorità
ufficiali; la criminalità è connessa ai conflitti normativi derivanti
dalla eterogeneità dei sistemi di norme cui i soggetti fanno riferimento
sulla base di una loro specifica caratterizzazione sociologica. Le probabilità
di criminalizzazione varierebbero in funzione della forza a disposizione dei
gruppi che confliggono; la criminalizzazione diventa spinta a carico dei gruppi
attrezzati con minori risorse. Turk trascura la classe sociale come variabile
cruciale per l'interpretazione del processo di criminalizzazione a favore di
altre variabili quali il sesso, l'età e l'appartenenza etnica. Turk propone,
a questo stesso proposito, una interessante distinzione fra processi di criminalizzazione
innescati dalle istituzioni di controllo e i processi di stigmatizzazione che
invece hanno un teatro sociale vasto. Oggetto del conflitto è qui il
rapporto di dominio di alcuni (individui o gruppi) su altri, dunque un rapporto
politico.
Alcuni critici ritengono che l'adozione di un modello del conflitto siffatto
non rappresenta una reale alternativa: la devianza diventa un'espressione funzionale
all'adattamento del sistema al modello dell'integrazione. Il processo di criminalizzazione
viene ricondotto (e ridotto) all'affermazione dell'autorità da parte
di chi ne è istituzionalmente il titolare. Comunque sia, le teorie del
conflitto, nella versione pluralista, promuovono la sociologia criminale liberale
rispetto alle teorie funzionalistiche nonché rispetto alle teorie della
reazione sociale sopra esaminate. L'inquadramento della devianza e del crimine
nell'ambito di difficile decodificazione delle relazioni di potere apre le porte,
nel bene e nel male, alla fase successiva di affermazione delle teorie criminologiche
radicali che propugnano un'altra versione della teoria conflittuale.
Karl Marx non si era mai occupato in forma sistematica né di devianza
né di crimine eppure il suo pensiero ed il suo metodo vengono ripresi
all'inizio degli anni Settanta da un gruppo di autori accomunati da un orientamento
più radicale di quello della labelling theory, che viene denominato
da alcuni Radical Criminology. La teoria dell'etichettamento viene
politicizzata nel senso che la reazione sociale viene riferita quasi unicamente
all'intervento repressivo dello Stato e nel senso che la devianza viene apprezzata
in quanto azione politica contestatrice. La devianza viene considerata come
"un'azione cripto-politica primitiva". Il 1973 è un anno importante
per la definizione di questo nuovo orientamento, perché in questo stesso
anno viene pubblicato il libro-manifesto di I. Taylor, P. Walton e J. Young,
The New Criminology. Con questo libro la sociologia delle devianza
statunitense ottiene un riconoscimento internazionale e si fonde con un omologo
approccio di critica del diritto che aveva in Inghilterra le sue punte più
avanzate. Da questa fusione nasce la piattaforma programmatica della criminologia
critica, che diventa un indiscusso punto di riferimento generale per la sociologia
della devianza del tempo.
Il marxismo classico in primis, l'influenza critica di Marcuse e della
Nuova Sinistra formano un paradigma eterogeneo che collega devianza e controllo
sociale alle caratteristiche strutturali del capitalismo. Gli elementi tipici
dell'approccio dei radicals comprendono una visione conflittualista
dell'ordine sociale basata sul principio della diseguaglianza e della divisione
in classi sociali di matrice nettamente marxiana. La differenza tra le classi
comporta lo sfruttamento della classe lavoratrice da parte di una classe dominante
che controlla i mezzi di produzione e lo Stato. La devianza di conseguenza non
si può concepire genericamente, così come non ha senso definire
il crimine in termini meramente giuridici. La devianza è devianza di
classe. E' crimine ciò che la classe dominante ha l'interesse a definire
tale; ma il crimine è anche la reazione alle condizioni di vita proprie
della classe sociale di appartenenza. La classe lavoratrice delinque perché
attraverso il crimine trova una via di sopravvivenza a fronte delle sue misere
condizioni di vita. D'altronde, il giovane Engels, nel suo saggio-ricerca su
La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845), aveva descritto
con grande efficacia come la classe operaia urbana ricorresse, saltuariamente
e per necessità di sopravvivenza, al crimine e facesse della devianza
uno stile di vita conseguente all’abbrutimento in cui era obbligata. Il
crimine, dunque, viene riproposto come aspetto endemico della (ineluttabile)
lotta di classe. Al punto che si arriva a sostenere in tutta tranquillità
che nelle società socialiste ove il conflitto di classe è minore,
minore sarà anche il tasso di criminalità. Ci si imbatte qui in
uno dei punti deboli delle teorie radicali che conferiscono un alone romantico
all'illegalità: la devianza è la vera sfida contro l'ordine capitalistico
ed è da concepire come l'atto rivoluzionario per eccellenza.
Ma sarebbe riduttivo pensare che il marxismo ortodosso sia il solo filone che
fa da framework al programma teorico di Taylor, Walton e Young. La
nuova criminologia, infatti, ambisce a stabilire delle connessioni fra l'interazionismo,
altri approcci interessati alla dimensione soggettiva e la teoria marxiana che
guarda invece alla struttura della società. Questa “nuova”
teoria della devianza e della criminalità, più specificatamente,
vuol riportare le cause dell'azione deviante alle trasformazioni della società
industriale avanzata e prospetta un'economia politica del crimine che rappresenterà,
poi, al tempo stesso il suo limite. Diversamente dai sostenitori della social
reaction si tratta di vedere la devianza come una soluzione consapevole
(e libera) dei problemi posti da una società densa di contraddizioni.
La dimensione politica di questo discorso viene chiaramente esplicitata perché
lo scopo della New Criminology è quello di trasformare la società
e di garantire il massimo di autonomia ai suoi membri. Si tratta di contribuire
all'organizzazione di una società « nella quale il fatto che esista
una diversità umana - sia essa personale, organica o sociale- non sia
passibile di criminalizzazione da parte del potere» (Ibid., p.443).
I criminologi radicali sostengono che l'interesse dimostrato dagli altri studiosi
e dagli opinion maker per il crimine degli emarginati è frutto
di una scelta ideologica e di una manipolazione rivolte ad oscurare i crimini
più importanti, quelli commessi dai proprietari dei mezzi di produzione
e dai potenti. Questa impostazione tutta sbilanciata verso un'economia politica
della criminalità cerca di ricostruire il senso del diritto penale come
se fosse unicamente espressione dell'ideologia capitalista. Anche il criminologo
tradizionale viene percepito come un tecnocrate al servizio degli interessi
della classe dominante. Ne consegue che il criminologo radical abbandonerà
il piano unicamente descrittivo del suo lavoro di studioso perché deve
impedire che i potenti usino lo studio del crimine in una chiave prescrittiva
e politica a fini unicamente repressivi. Viene ribadito che il capitalismo è
criminogeno perché alimenta la diseguaglianza sociale, il degrado nel
lavoro e la disoccupazione. Il criminologo arriva allora a prospettare soprattutto
delle soluzioni di tipo politico espresse con particolare energia ma del tutto
inconsistenti sul piano analitico. Un buon esempio viene offerto da asserzioni
come questa di T.Platt per cui i veri crimini da combattere sono « l'imperialismo,
il razzismo, il capitalismo, il sessismo e gli altri sistemi di sfruttamento
che danno il loro contributo alle miserie umane e che privano la gente delle
loro potenzialità umane ». La criminologia diventa un progetto
politico che non si preoccupa di rendere empiricamente verificabili le sue principali
asserzioni. Seguendo questo approccio ci si dovrebbero aspettare alti tassi
di devianza per i membri della working class; i dati empirici smentiscono,
invece, l'ipotesi senza ombra di dubbio: la classe operaia non è mai
stata né diventa la punta di diamante di un movimento fatto da criminali
politicizzati. All'opposto la ricerca empirica dimostra che nell'ambito della
working class allignano atteggiamenti conservatori e fin reazionari
di accettazione della gerarchia, di xenofobia, di favore per la pena di morte
et similia. In generale comunque non sono stati dimostrati legami diretti
ed univoci tra devianza e capitalismo; inoltre, la crisi della congiuntura culturale
che alimentava politicamente la New Criminology in Europa e negli Usa
ha creato tra le file di questo gruppo serio disorientamento ed attualmente
i radicals stanno riconsiderando un po' tutto l'impianto del loro discorso
sul crimine.
9. Dal realismo di sinistra al discorso di Foucault
Il panorama attuale si caratterizza per la decisa inclinazione alla coesistenza
dei differenti paradigmi esaminati. La sociologia della devianza e del crimine
prosegue il suo cammino in maniera sincretica; parti degli approcci esaminati
vengono combinate fra di loro nello sforzo di aprire nuove e più adeguate
possibilità euristiche. Questa frenesia della sintesi combinatoria denuncia,
tuttavia, la mancanza di idee originali e non porta a grandi risultati. D'altronde
ogni teoria nasce come espressione di una data congiuntura per fare fronte a
bisogni specifici della comunità scientifica e del quadro societario
nel quale opera. Confondere un approccio con un altro significa perdere le rispettive
specificità e proporre una teoria integrata non vuol dire certo eliminare
i punti deboli di ogni teoria. Come probabile effetto di questa incertezza gli
anni Ottanta vedono una decisa affermazione della criminologia realista negli
Usa e della criminologia amministrativa in Inghilterra. Due etichette che riguardano
un analogo atteggiamento di diffidenza verso la spiegazione sociologica della
devianza e una domanda per l'implementazione di una politica penale intransigente
ove le misure operative di polizia devono rappresentare un deterrente con il
massimo grado di efficacia. La criminologia realista (o amministrativa) rappresenta
il trionfo del pragmatismo. I governi conservatori dello stesso decennio optano
- in sintonia con questo approccio - per una maggiore articolazione delle tecniche
di prevenzione e di controllo. Naturalmente gli esponenti della criminologia
radicale cercano di reagire e di trovare un percorso che presenti delle alternative
al conservatorismo pragmatico. Questa nuova via viene denominata realismo di
sinistra o realismo radicale ed il suo programma si articola in parte riprendendo
vecchie idee, in parte proponendone di nuove, comunque sia nell'alveo di un'impostazione
realista.
Il realismo di sinistra (così detto perché ostile ad una criminologia
realista conservatrice) pretende di inquadrare l'azione criminale nella sua
interezza sia ad un livello macro sia ad un livello micro, di esaminare tutti
lati del quadrato, aggressore, vittima, Stato e società, nonché
di valutare adeguatamente le cause dell'azione criminale e della reazione sociale
conseguente. Ciò significa, in concreto: a) affrontare di nuovo il problema
dell'eziologia del crimine. La matrice capitalista dell'azione deviante è
considerata accanto ad altri problemi sociali e soprattutto tra gli effetti
dipendenti dalla deprivazione relativa tipica di aree subculturali specifiche;
b) costruire una seria vittimologia capace di considerare anche chi è
stato danneggiato dal crimine al fine di evitare l'enfatizzazione della questione
criminale oggetto di campagne di allarme sociale politicamente interessate;
c) prevenire l'effetto distorcente dei mezzi di comunicazione di massa che gonfiano
la questione criminale al di là della sua effettiva consistenza e, soprattutto,
alterano la corretta percezione del fenomeno e delle sue caratteristiche costitutive;
d) attuare una strategia di democratizzazione degli istituti che trattano la
questione criminale evitando l'errore di una politica abolizionista, che per
l'appunto non è realista. Gli obiettivi prioritari dei fautori di questo
approccio sono quelli di ridefinire le strategie di intervento della polizia
alla luce di un severo controllo democratico e di promuovere dei meccanismi
alternativi a quelli adottati dal sistema di giustizia penale formale incoraggiando
la mediazione e l'intervento della comunità. I lati deboli dell'approccio
realista sono piuttosto trasparenti. Ci si limita qui a considerare la questione
eziologica che i realisti affrontano in maniera semplicistica affidandosi unicamente
a due categorie: il discontent e la deprivazione relativa senza illuminare
la relazione tra questi concetti, le situazioni cui sono socialmente connesse
e l'insorgere della devianza. E' evidente che scontento e deprivazione relativa
sono presenti in molti casi ma non sempre producono devianza. Anche la proposta
insistente di responsabilizzare la polizia che ambisce a diminuire le chance
di vitimizzazione dei poveri si trasforma in un'enfatizzazione gratuita della
deterrenza.
Stimolati da questo approccio i fautori della criminologia critica hanno ulteriormente
articolato il loro punto di vista sulla devianza e sul crimine. In particolare,
pur mantenendo un interesse spiccato per la costruzione sociale della criminalità
e per gli effetti concreti che ne discendono, il tema dei mass-media e di come
il loro intervento manipoli la opinione pubblica acquista una centralità
che non aveva mai avuto in precedenza. L'enfasi posta eccessivamente a carico
della violenza criminale ha la funzione di nascondere altre forme di violenza
assai più devastanti. Inoltre i mass-media attivano un meccanismo di
definizione pubblica del criminale come capro espiatorio. Il criminale è
presentato come il diverso contro il quale bisogna organizzare una convergenza
generalizzata: la società non funziona perché il diverso ne blocca
gli ingranaggi più delicati. In questo modo si evita di prendere coscienza
del fatto che oltre alla diversità tra il deviante e l'uomo della strada
sussistono anche non pochi caratteri comuni. L'interazionismo aveva già
definito la criminalità come il frutto di valutazioni maturate nell'ambito
del generale processo di comunicazione sociale. La costruzione sociale della
criminalità ha oggi una dimensione di marcata artificialità che
richiede secondo i sostenitori di questa nuova fase della criminologia critica
una comunicazione libera del potere nel senso propugnato da Habermas.
La ricerca di nuovi paradigmi idonei ad interpretare la devianza, il crimine
e le correlate tecniche di controllo sociale in una società complessa
non può trascurare l'apporto di Michel Foucault. Anche se non è
un sociologo stricto sensu, la sua riflessione è straordinariamente
ricca di prospettive e permette di intraprendere nuovi ed utili percorsi. E'
giocoforza in questa sede condensare l'analisi su pochi punti specifici ma cruciali.
La relazione tra sapere e potere trova una specificazione importante nella formazione
della criminologia come scienza che si accompagna alle dinamiche materiali di
esclusione. Foucault non si impegna nella validazione di questa o di quell'altra
teoria sull'eziologia del crimine ma piuttosto in una ricostruzione genealogica
che approderebbe alla spiegazione del perché quella data teoria ha funzionato
ed è stata recepita come produttrice di verità. Seguendo questo
punto di vista si rendono problematiche le discipline ed i concetti che le costituiscono
nel senso che “gli effetti di verità” sono generati sociologicamente
in corrispondenza alle esigenze del potere che è ovviamente interessato
a produrre una data verità. Viene così sottolineato come le scienze
sociali - dalla statistica alla criminologia - siano nate nell'ambito di speciali
istituzioni di potere. Le categorie conoscitive vengono elaborate mentre si
provvede alla costruzione delle scienze sociali con l'intento di gestire gli
individui trasformandoli in soggetti, dalla soggettività depotenziata,
per disciplinarli con una metodologia adeguata alle esigenze della società
che sono esigenze di normalizzazione.
La tesi di Sorvegliare e punire è che «le scienze dell'uomo
non siano separabili da quei rapporti di potere che le rendono possibili »;
anche le pratiche di punizione emergono all'interno di un rapporto di forza
che viene ulteriormente consolidato dalla definizione delle stesse pratiche.
La classificazione del deviante tramite la ricerca scientifica prima e le misure
di controllo dopo presentano la devianza come una questione sociale da governare.
Come si sa, Foucault riduce il potere ad un reticolo di punti in costante movimento;
vale a dire che il potere è esteso e comprensivo di ogni relazione sociale.
Questa concezione del potere, come potere diffuso in forma capillare, si riflette
sul modo di concepire la fenomenologia deviante per lo meno in due modi: a)
la marginalizzazione di alcune categorie sociali viene a dipendere non solo
dalle istituzioni deputate al controllo sociale ma anche dalle reti relazionali
che le circondano; b) la diffusione capillare del potere conferma la perdita
di centralità dei sistemi di controllo sociale e di disciplina del deviante.
La società moderna, in quanto società che tende alla normalizzazione,
si fonda sul sapere disciplinare e su un discorso che è quello della
norma intesa, però, in un senso che travalica i confini ristretti della
regola giuridica. Il codice della normalità si collega ad un orizzonte
teorico dominato dalle scienze sociali. Le tecniche giuridiche per la prevenzione
ed il controllo perdono spazio a vantaggio di una articolazione complessa di
strumenti disciplinari adottati nei confronti dell' universo deviante che, a
sua volta, si complessifica. La conseguenza di questa degiuridificazione del
controllo sociale è il lassismo dell'intervento istituzionale, surrogato
tuttavia da strategie di controllo pervasive dell'intera sfera di vita del deviante
con la perdita di quel garantismo di cui beneficiava in un regime esclusivamente
giuridico.
Un altro topos classico riguarda la prigione, cioè il luogo dove da sempre
si gestiscono le manifestazioni criminali che Foucault chiama gli “illegalismi”.
La prigione ha una funzione latente, assai più significativa di quella
manifesta che è volta a punire e a riabilitare. Questa funzione latente
si evidenzia riflettendo sul dibattito che costantemente, da due secoli a questa
parte, ne critica l'organizzazione e i metodi che la governano. Nel capitolo
di Sorvegliare e punire dedicato agli “Illegalismi” ed
alla delinquenza Foucault rileva gli elementi costitutivi del sistema carcerario:
«il sistema carcerario unisce in una medesima configurazione dei discorsi
e delle architetture, dei regolamenti correttivi e delle proposizioni scientifiche,
degli effetti sociali reali e delle utopie invincibili, dei programmi per correggere
i delinquenti e dei meccanismi che solidificano la delinquenza. Il preteso scacco
non fa allora parte del funzionamento della prigione?» (pp.289-290). La
gestione della pena non avrebbe una banale funzione di repressione ma assolverebbe
ad una più complessa funzione di gestione economica degli illegalismi
e di produzione controllata della delinquenza e di una sua riproduzione, politicamente
orientata. La prigione fallisce solo in apparenza; lo scopo principale viene
perseguito ed è quello di alimentare « una forma particolare di
illegalismo, che essa permette di separare, di porre in piena luce e di organizzare
come un ambiente relativamente chiuso, ma penetrabile. Essa contribuisce ad
organizzare un illegalismo vistoso, definito, irriducibile...; essa disegna,
isola e sottolinea una forma di illegalismo che sembra riassumere simbolicamente
tutte le altre, ma che permette di lasciare nell'ombra quelle che si vogliono
o che si devono tollerare» (p.304). L'amministrazione della giustizia
e l'azione della polizia concorrono con la prigione nella gestione degli illegalismi.
Si salda con il ruolo svolto da queste istituzioni il ruolo svolto dai mass-media
mirato alla rappresentazione della delinquenza. In particolare la cronaca nera
dei giornali determina una data percezione della delinquenza presso l'opinione
pubblica. Secondo Foucault la funzione della stampa converge con quella della
prigione nell'oscurare il senso sociale della delinquenza che, come gli altri
illegalismi, affonda le sue radici nella condizione di esclusione e di povertà.
L'importante è che non maturi nella coscienza degli strati popolari l'idea
che sussiste una saldatura tra gli illegalismi di natura criminale e gli illegalismi
di matrice politica animati da senso dell’eguaglianza.
In breve, la ricerca storica di Foucault propone una chiave di lettura ed un
ulteriore approfondimento dei problemi della devianza adeguata alla complessità
del presente lungo queste tematiche: a)l'intreccio tra la disciplina criminologica
e le relazioni di potere vede il sapere disponibile a conferire legittimazione
alla gestione della devianza secondo una logica di rafforzamento reciproco;
b) l'effetto-verità attribuito ad alcune teorie sulla devianza, il feticismo
verso i dati quantitativi e il riduzionismo interessato dei mass-media convergono
nella formazione di un dato tipo di politiche di controllo; c) la diffusività
di un potere capillare oggettiva la condizione del deviante e lo marginalizza
anche presso ambienti sociali che dovrebbero partecipare della sua esclusione,
invece di inasprirla paradossalmente.
10. Le teorie dell'azione razionale
Fino agli anni Settanta, fra i teorici della devianza, solo Matza, con il concetto
di deriva, aveva messo l'accento sulla volontarietà della decisione di
compiere un atto deviante. A partire da questo periodo la riflessione sociologica
sulla devianza affronta il tema della responsabilità individuale. Contemporaneamente
si risveglia anche fra gli economisti l'interesse per il tema della criminalità,
che viene affrontato in base all'assunto comportamentista proprio della disciplina,
per il quale la decisione di compiere un reato va analizzata come di natura
strettamente razionale, e, quindi, in termini di opportunità, costi e
benefici. In questa ottica, il genere di considerazioni e di valutazioni che
motivano un individuo a compiere un atto deviante non differiscono da quelle
che indirizzano qualsiasi tipo di scelta. Un soggetto intraprende la carriera
deviante quando la remunerazione del reato è maggiore di quella derivante
dal lavoro legale, tenendo conto della probabilità di cattura e di condanna
e della severità della pena (G.S. Becker 1968).
Le teorie sociologiche dell'azione razionale, sviluppatesi negli ultimi venti
anni, propongono una lettura della devianza, che prescinde dalla distinzione
fra normalità e patologia. Questa corrente recupera la teoria classica,
che guarda al reato e attribuisce al soggetto deviante il libero arbitrio e
la responsabilità delle decisioni, e si distacca dalla teoria positivista,
che concentra l'attenzione sul deviante, trascurando l'atto, le modalità,
le condizioni e le opportunità, e tende a definire il deviante come ricettore
passivo di pressioni esterne. Per spiegare la devianza vengono accolti due presupposti:
a) la devianza deve essere considerata un'azione; b) in quanto azione deve essere
compiuta in modo tale da renderne riconoscibile il carattere deviante sia da
parte di chi la realizza che da parte di chi la subisce, la osserva o la reprime.
L'assunto di base di questo approccio è che, dal punto di vista dell'attore,
l'atto deviante risponde a criteri di razionalità. La devianza in quanto
attività pratica richiede da parte di chi la realizza una determinata
competenza. La devianza viene definita come un'azione metodicamente organizzata
che l'individuo può esplicitare dandone una descrizione intelligibile:
il deviante sa quello che fa e sa come farlo. La razionalità si esprime
sia sul piano dell'azione, attraverso la congruenza fra fini e mezzi della devianza,
sia su quello cognitivo, attraverso la coerenza fra credenza, azione e rappresentazione
dell'azione.
Le principali teorie che hanno adottato uno dei due schemi di analisi della
devianza basato sull'assunto della razionalità dell'individuo sono la
teoria degli stili di vita, la teoria delle attività di routine e la
teoria cognitiva. La teoria delle attività di routine (Cohen e Felson
1979) si propone di individuare i fattori che influiscono sulla decisione di
commettere un atto deviante. Questo approccio, che ha conosciuto un notevole
successo negli anni Ottanta, si riallaccia ad altre impostazioni che hanno ricevuto
nuovo impulso dagli studi di questo periodo, la vittimologia, che studia le
vittime e le condizioni di vita e la teoria ecologica. Nella teoria delle attività
di routine il livello di devianza in una società dipende dalle modalità
dell'interazione sociale nella vita quotidiana, che si strutturano nelle attività
quali il lavoro, l'uso del tempo libero, la disponibilità e la cura dell'alloggio,
l'allevare figli, gli acquisti, ecc. Sono le attività di routine a mettere
in contatto aggressori e vittime. Perché si compia l'atto criminale sono
necessari più elementi: aggressori motivati, obiettivi o vittime designati
(un bene da prendere, una persona da assalire) e assenza di guardiani (i poliziotti,
ma anche tutti coloro, parenti, amici passanti, la cui presenza agisce come
deterrente). L'incontro fra questi elementi avviene durante lo svolgimento e
grazie alle attività di routine. Le differenze e i cambiamenti delle
routine determinano le diverse probabilità rispettivamente di compiere
e di essere vittime di atti criminali. Certi soggetti o certi luoghi sono più
esposti alla criminalità rispetto ad altri a causa delle modalità
di interazione sociale e degli schemi di routine. Per la comprensione del comportamento
deviante occorre, dunque, considerare non solo la prospettiva del deviante -
le sue caratteristiche così come le sue motivazioni -, ma anche gli altri
elementi del contesto in cui l'atto avviene: la presenza di qualcosa o di qualcuno
cui l'atto deviante si indirizza e l'assenza di controlli o di fattori di contesto
inibenti la devianza. Se manca uno solo dei tre elementi indicati il reato non
può avvenire. Il fuoco dell'analisi in questo approccio alla devianza
è nell'atto, piuttosto che nell'attore. La semplice disponibilità
a compiere l'atto deviante da parte del soggetto non è sufficiente per
determinare l'effettivo accadimento del reato.
La teoria degli stili di vita utilizza il concetto di rischio per spiegare la
vittimizzazione. L'attenzione si appunta non sugli autori dei reati ma sulle
vittime degli atti criminali. La probabilità di rimanere vittima di un
reato è legata allo stile di vita adottato dall'individuo. Ma lo stile
di vita, che comprende sia le attività di lavoro che quelle del tempo
libero, dipende dal ruolo sociale, dalla posizione nella struttura sociale e
dalla componente razionale delle scelte di comportamento. Le esperienze di vittimizzazione
sono, dunque, prevedibili, sulla base delle variazioni degli stili di vita indotti
dalla collocazione sociale degli individui.
Vari approcci confluiscono nella categoria delle teorie cognitive. Walters e
White (1989) affermano il ruolo della cognition nel determinare le
forme di attività degli individui. I fattori ambientali e sociali modellano
solo indirettamente il comportamento individuale, ponendo dei vincoli. La devianza
non è determinata dai condizionamenti esterni al soggetto, bensì
dall'irrazionalità e dall'inadeguatezza degli schemi mentali adottati
dal deviante. Alla base del comportamento deviante vi sarebbe il mancato sviluppo
della cognition.
Altre ricerche sulla delinquenza e sul consumo di droghe hanno adottato lo schema
della razionalità cognitiva, respingendo la tesi dell'irresponsabilità
del deviante e attribuendo al soggetto l'intenzionalità nel compiere
l'azione e la capacità di riconcettualizzare la propria esperienza di
devianza. La questione dell'abbandono della devianza, ad esempio dell'uscita
dalla tossicomania, viene riformulata in termini di mobilitazione delle capacità
razionali del soggetto, il quale riconosce la differenza fra la propria condizione
e lo stato di normalità, in quanto dotato di riflessività e partecipe
in qualche misura del sistema normativo vigente.
Le teorie razionali recuperano la prospettiva teorica della scuola classica,
che analizza la devianza a livello micro e fa discendere il comportamento deviante
dalla decisione libera e autonoma dell'individuo. In alcune versioni l'attenzione
alla natura individuale della scelta deviante si coniuga con la considerazione
del contesto in cui la devianza ha luogo.
11. Genere e devianza
La constatazione empirica del fortissimo squilibrio numerico fra donne e uomini
devianti ha introdotto , nel corso degli ultimi decenni, negli studi criminologici
la prospettiva di genere, a lungo trascurata, ed ha di conseguenza incoraggiato
una teoria della criminalità femminile.
Le teorie della criminalità femminile elaborate negli anni Settanta leggono
i mutamenti nella propensione delle donne alla devianza all'interno del processo
generale di cambiamento della condizione femminile. Secondo un primo approccio
l'inserimento della donna nella società ne comporta la maschilizzazione,
che, tra l'altro, si traduce nel più frequente coinvolgimento in attività
criminali. Una variante di quest'approccio fa riferimento alle opportunità
di commettere un atto deviante: la partecipazione alla vita sociale e al mondo
del lavoro, favorendo le occasioni di devianza, dovrebbe portare ad una crescita
del tasso di criminalità femminile. Tuttavia né l'una né
l'altra teoria hanno trovato dei validi riscontri empirici.
Rispetto alle teorie sulla criminalità femminile, gli approcci alla devianza
che fanno uso del concetto di genere si propongono di spiegare sia il comportamento
maschile che quello femminile. Hagan (1989) sostiene che per spiegare il fenomeno
della delinquenza occorre guardare al modo in cui la struttura di classe della
famiglia modella la riproduzione sociale delle relazioni di genere, che a sua
volta condiziona la distribuzione sociale della delinquenza (teoria del controllo
del potere). Le modalità attraverso le quali i genitori assolvono i compiti
di assistenza, di protezione e di socializzazione dei bambini ai ruoli della
vita adulta, producendo differenze di genere relative all'accesso a determinati
tipi di attività con margini di libertà o contenuti di rischio
elevati, si traducono in una più forte esposizione degli uomini alla
devianza e in una maggiore protezione delle donne dalla stessa. Il divario di
genere nel comportamento deviante si allarga in presenza di strutture familiari
patriarcali e si restringe quando si diffonde il modello egualitario di famiglia.
All'interno della produzione scientifica sulla devianza nella prospettiva di
genere un ampio spazio non possono non occupare le teorie femministe, che si
sono diversificate seguendo vari indirizzi analoghi a quelli della criminologia
tradizionale (femminismo liberale, radicale, marxista e socialista).
12. Le prospettive teoriche più recenti
Negli anni ottanta diversi studiosi hanno concentrato i loro sforzi nella direzione
dell'integrazione delle diverse teorie. Se si considerano i singoli approcci
come pertinenti a distinti ambiti di spiegazione, la composizione delle singole
teorie in un complesso coerente può determinare un significativo avanzamento
disciplinare (Short 1989). Su posizioni estremamente critiche rispetto a questi
progetti si colloca, invece, Hirschi (1979), che reputa quella dell'integrazione
una prospettiva sterile, perché le teorie non sarebbero effettivamente
conciliabili, e ritiene che si debba piuttosto puntare a costruire nuove teorie.
Fra i modelli teorici che seguono la strada dell'integrazione i più recenti
sono la teoria delle subculture degli adolescenti e la teoria della vergogna
differenziale. La prima cerca di spiegare la delinquenza delle classi medie,
che sembra smentire il paradigma interpretativo delle teorie del controllo sociale,
secondo il quale la delinquenza deriva da una insufficiente socializzazione,
utilizzando i concetti di conflitto, subcultura e rete dei pari (Schwendinger
e Schwendinger 1985). L'ipotesi esplicativa avanzata dagli autori mette in luce
il ruolo del capitalismo nel generare atteggiamenti di tipo individualistico
e competitivo negli adolescenti, che sono in tal modo orientati a privilegiare
in ogni caso i propri bisogni. Secondo gli autori fra gli adolescenti sono distinguibili
tre subculture stratificate per classe ("persone in vista", "intermedi",
"ragazzi di strada"), che esprimono forme diverse di criminalità.
Allargando la definizione di delinquenza ai reati tipici degli adolescenti delle
classi superiori, emerge una somiglianza fra le violenze delle bande di strada
e i comportamenti devianti adottati nelle classi elevate.
La teoria della vergogna differenziale è stata elaborata da Braithwaite
(1989), come sviluppo della teoria dell'etichettamento, per superare l'impasse
teorico posto dalla necessità di spiegare in che modo l'individuo viene
orientato verso la devianza. Perché si determini un comportamento criminale,
è in primo luogo necessario che le opportunità legittime siano
sostituite da quelle illegittime. Ciò avviene nell'ambito di una subcultura
che induce nell'individuo l'apprendimento differenziale e la trasmissione di
valori conformi alla subcultura e in contrasto con l'ordinamento dominante.
Braithwaite spiega l'influenza esercitata dalla subcultura con la capacità
che essa ha di produrre negli individui sentimenti di vergogna analogamente
a quanto fa l'ordine morale vigente.
Una direzione di analisi interessante è stata aperta dalla teoria soggettiva,
di impostazione fenomenologica, che esplora le motivazioni e gli intenti dei
devianti con l'ausilio di metodologie di tipo qualitativo (Katz 1988). In questo
approccio vengono messi in discussione alcuni assunti sia della criminologia
positivista sia della teoria classica e delle teorie dell'azione razionale.
Riguardo alla prima, viene messa in discussione la relazione fra le caratteristiche
sociali e l'ingresso nella devianza: molte delle persone che per i loro tratti
sono potenzialmente dei criminali non giungono alla devianza e, viceversa, compiono
atti devianti soggetti privi delle caratteristiche ritenute predisponenti. Riguardo
al secondo gruppo di teorie, la prospettiva fenomenologica reinterpreta la situazione
deviante dal punto di vista del soggetto. Viene affermato il presupposto che
la razionalità del deviante non può essere assimilata a priori
a quella della vittima o dell'osservatore ma deve essere tenuta distinta. Inoltre
nell'impostazione scelta da Katz le motivazioni che spingono l'individuo alla
devianza non sono riducibili ai benefici di natura materiale, economica o finanziaria;
certi eventi e situazioni tipicamente devianti esercitano un particolare fascino
seduttivo sull'individuo, in quanto gli offrono un'occasione di divertimento,
di eccitazione o di piacere, gli permettono di sottrarsi a vincoli e restrizioni
o di superare un'umiliazione, mettono a sua disposizione un'identità
nuova. Allontanandosi dalla vita normale e assumendo il carattere dell'imprevedibilità
e della caoticità, il deviante diventa estraneo alle vittime e si attribuisce
una prospettiva di superiorità morale sulla vittima designata. Tendenzialmente
il reo si costruisce un proprio mondo. Questa ricostruzione del significato
e delle condizioni della devianza dal punto di vista del soggetto, per la metodologia
adottata, non è generalizzabile al complesso o comunque a gruppi o categorie
individuate di devianti.
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