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La devianza ed il controllo sociale

Gianfranco Bettin

Dispense dalle lezioni di sociologia (corso avanzato)
Corso di laurea in scienze politiche
Facoltà di scienze politiche “Cesare Alfieri”
Anno accademico 2001-2002

Avvertenza: questo testo è materiale didattico; non può essere citato.


La devianza ed il controllo sociale

1.Il comportamento deviante: un problema di definizione. 2.Un concetto correlato: il controllo sociale. 3.La Scuola di Chicago: la grande città e la devianza. 4.Il Capitolo VII di The Social System. 5.Il funzionalismo e la teoria mertoniana dell'anomia. 6. La teoria del controllo sociale. 7.Un punto di svolta: la labelling theory. 8.Le teorie radicali: devianza, controllo sociale e capitalismo. 9.Dal realismo di sinistra al discorso di Foucault. 10. Le teorie dell'azione razionale. 11. Genere e devianza. 12. Le prospettive teoriche più recenti. Bibliografia


1. Il comportamento deviante: un problema di definizione

Il discorso concettuale tipico delle scienze sociali e, segnatamente, della sociologia si costruisce attraverso concetti che hanno fra di loro profonde relazioni di opposizione e/o di complementarietà. Ne deriva che al fine di fare chiarezza è importante sia proporre delle definizioni distinte -concetto per concetto- ma ancor più, non di rado, è importante esaminare le intersezioni che si stabiliscono tra due concetti. Un caso classico, a questo proposito, è rappresentato dal concetto di devianza e dal concetto di controllo sociale. Nelle pagine che seguono vengono proposte due definizioni distinte, avendo cura però di vagliare il vincolo concettuale di reciprocità indispensabile ai fini analitici.
Il termine devianza (desviaciòn social, deviancy, déviance sociale, soziale Abweichung o Devianz) ha una sua lunga storia nella letteratura sociologica teorica ed empirica mentre non ha conquistato uno spazio consistente né nel linguaggio dell'uomo della strada né nel linguaggio dei mass-media. E' risaputo che i sociologi parlano di comportamento deviante, in linea di massima, quando intendono descrivere un comportamento che si discosta dalle aspettative di normalità collaudate da una data società. Gli elementi minimi e costitutivi di questa definizione, rilevanti dal punto di vista del sociologo sono: a) un attore individuale o un gruppo; b) un comportamento che si qualifica per la sua relativa eccezionalità nei confronti del quadro normativo generalmente accettato da una società- Stato nonché codificato dal diritto positivo e, comunque, ben radicato nella cultura dominante del tempo. Dunque due aspetti vanno sottolineati sul piano interpretativo: il comportamento deviante è relativo all'azione di alcuni attori ed è storicizzato, vale a dire non risulta sempre identico nelle varie epoche e nei vari luoghi. Si spiega così il fatto che le definizioni correnti nei manuali di sociologia e nelle enciclopedie di scienze sociali propongono, quasi sempre, sulla devianza un punto di vista nettamente relativistico che riconduce l'attributo deviante ad una valutazione che si dà dell'azione piuttosto che ad una sua caratteristica effettiva. In altri termini: il deviante è un attore che adotta un comportamento che tradisce, in vario modo e con conseguenze disparate, le aspettative che usualmente definiscono il senso della realtà quotidiana di un ambiente sociale con il quale il deviante interagisce. Per effetto dell'azione deviante una norma istituzionalizzata perde la sua efficacia, o in parole più povere non fa più presa su quel soggetto particolare. L'atto deviante in genere non resta però privo di conseguenze; di solito produce una reazione dalla forma diversificata che testimonia del bisogno insopprimibile di controllo sociale che qualsiasi organizzazione sociale in ogni tempo ed in ogni luogo deve manifestare se vuole esistere. Questa reazione può essere letta come un'espressione "naturale" della struttura normativa della società, che pretende di ricucire la smagliatura aperta dalla devianza e di mantenere così la sua operatività. Ove non ci sia una reazione della società l'atto non può maturare la sua connotazione come atto deviante, se non astrattamente. La norma agisce socialmente attraverso due canali: la legittimazione, vale a dire l'adesione "normale" alle aspettative di comportamento anche per merito di un processo di socializzazione ben riuscito oppure l'azione degli apparati di controllo che funzionano erogando sanzioni al fine di ripristinare lo stato di conformità antecedente all'atto deviante.
Non ha molto significato per il sociologo che si occupa di deviant behaviour collegare la devianza unicamente ad una data personalità quanto piuttosto farla discendere dal comportamento che si collega a determinati ruoli sociali. Questo collegamento spiega due caratteri endemici del comportamento deviante: ripetitività e stabilità anche se l'atto deviante può svolgersi in direzioni e secondo frequenza ed intensità spesso non omogenee. E' corretto, allora, sostenere che la devianza si definisce per il suo carattere interazionale. L'attribuzione soggettiva o politica della qualità deviante dell'azione è frutto di un rapporto biunivoco che comunque non può prescindere dal compimento di un dato atto senza il quale, ovviamente, fatti salvi casi particolarissimi, non si possono manifestare imputazione, attribuzione, disapprovazione e sanzione. Quelle indicate sono tutte espressioni di un complesso rapporto sociale sussistente fra il deviante e il suo giudice ( inteso in un senso socialmente ampio: può esser giudice anche il vicino di casa, il compagno di scuola, un parente). Una conseguenza importante che discende dalla definizione di devianza come status definito dalla società nella quale il comportamento si manifesta è che non è possibile pervenire ad una classificazione esauriente delle azioni devianti pur in quel dato milieux di riferimento ed in quella data congiuntura culturale. I margini di prevedibilità della reazione sociale al comportamento altrui non sono sempre identificabili in maniera netta e rigorosa, talché le zone grigie dove la struttura normativa consolidata non arriva sono piuttosto ampie ed in una società complessa e multiforme come l'attuale tendono a dilatarsi. Ma ciò comporta lo stesso la produzione di disapprovazione e l'erogazione di sanzioni anch'esse di non agevole classificazione. Qualche esempio: la malattia mentale nelle sue molteplici e varie manifestazioni che non sempre includono la reclusione in un ospedale psichiatrico; l'esser vecchi o l'essere troppo poveri o l'appartenere ad una minoranza etnica o religiosa; perfino l'abitare in una certa parte della città piuttosto che in un' altra o avere delle abitudini di tempo libero non allineate con quelle della massa possono esser tutti casi di comportamenti ritenuti devianti.

La definizione scientifica della devianza assume connotazioni diverse in riferimento all'impostazione teorica generale adottata da chi la studia. In questo paragrafo redatto con finalità preliminari di definizione è opportuno tenere conto dei principali orientamenti teorici. Il sociologo positivista fa coincidere l'atto deviante con il rifiuto della norma codificata e si preoccupa di individuare le motivazioni che inducono alla devianza. In questo caso dunque l'azione deviante ha una sua marcata specificità come oggetto di studio. Il sociologo marxista tende, invece, a privilegiare un'impostazione secondo cui la devianza si connette a determinati ruoli definiti, naturalmente, dalla differente appartenenza di classe e dalla posizione che i soggetti occupano nel processo produttivo, matrice determinante della struttura della società e dunque anche radice ultima del comportamento deviante. La prospettiva interpretativa propria della labelling theory, poi, come meglio si dirà infra, adotta un criterio di valutazione tipicamente radicale: la devianza è il prodotto di una relazione di potere che vede da un lato un individuo od un gruppo in una condizione di debolezza rispetto ad un altro individuo od un altro gruppo che ha il potere (e l'interesse relativo) di etichettare come deviante il primo. Si tratta di un'ottica di indubbia suggestione per la sua impostazione sociologica e per lo studio delle politiche che si adottano a fini preventivi e/o repressivi della devianza. Resta tuttavia il problema che non si può tralasciare lo studio dell'azione che in quel dato contesto ed in quella data congiuntura storica viene socialmente definita come atto deviante e ciò anche al fine di capire meglio quando e perché si instaura un meccanismo di etichettamento.
Ovviamente, a seconda dell'impostazione teorica prescelta oppure in funzione di alcune scelte di valore predilette ci si imbatte in una diversa classificazione degli atti devianti. Usualmente tutti i testi parlano di comportamento deviante quando fanno riferimento al comportamento criminale, alle varie forme di delinquenza e all'uso della violenza come espediente per risolvere i problemi che sorgono inevitabilmente nelle relazioni sociali; all'abuso di droghe; all'omosessualità, alla malattia mentale, al suicidio. E' immediatamente evidente che questo elenco può essere incompleto oppure troppo ampio e comunque senza dubbio da riscrivere tra qualche lasso di tempo.
Ai fini di presentare una definizione sufficientemente esaustiva ed articolata del comportamento deviante in quanto oggetto di studio è anche opportuno sottolineare le differenze che sussistono fra la criminologia e la sociologia della devianza. La criminologia studia le infrazioni commesse nei confronti delle leggi; la sociologia della devianza ha un oggetto assai più ampio includendo nei suoi interessi ogni atto che si allontana dal comportamento socialmente accettato come comportamento normale. Come dire che si può essere devianti anche senza essere criminali; come dire che la società può prevedere sanzioni per atti che vengono reputati devianti sulla base di convenzioni sociali che non arrivano ad essere recepite nella legislazione di una società-Stato e che, anzi, a volte hanno un significato solo ove si manifestino all'interno di alcune cerchie sociali. Resta fermo il punto che la sociologia della devianza analizza nella prospettiva e con i metodi che sono propri della sociologia anche il comportamento criminale. Che la prospettiva sociologica costituisca un elemento arricchente rispetto alla prospettiva criminologica convenzionale è comprovato, ad esempio, dal concetto di Deviancy Amplification elaborato nel 1964 da L. T.Wilkins e dalle prospettive analitiche correlate proprie della labelling theory e del concetto di stigma. La criminologia per molto tempo si è disinteressata di studiare i processi sociali che accompagnano la produzione del crimine, mentre la sociologia si è preoccupata costantemente di ricostruire il percorso che approda all'assunzione di un'identità deviante. Gli effetti di un processo di stigmatizzazione che incoraggia l'assunzione di ruoli ripudiati normalmente e le pressioni sociali che inducono un attore a diventare membro di una subcultura deviante rappresentano un oggetto di studio significativo utile anche come base per la costruzione e per l’implementazione di politiche ad hoc. Anche la distinzione che E. Lemert (1967) ha proposto fra devianza primaria e devianza secondaria (vedi infra) è particolarmente opportuna in ordine alla valutazione delle reazioni sociali indotte dal comportamento deviante; si tratta di un ulteriore aspetto che non rientra negli interessi coltivati dalla criminologia.


2.Un concetto correlato: il controllo sociale

Gli specialisti da alcuni anni propendono ad intrecciare lo studio del comportamento deviante con lo studio del controllo sociale. Si tratta di un'impostazione assai diffusa (Cohen 1966; Cesareo 1979; Scull 1988) che non esime dal tentativo di proporre una definizione specifica di controllo sociale (control social, contrôle social, social control, soziale Kontrolle) perché - come si è detto - solo la comparazione tra due concetti distinti analiticamente agevola una valutazione adeguata della loro complementarietà. Il concetto di controllo sociale si affaccia con nitore per la prima volta nel 1896 per merito di E. A. Ross che raccolse poi tutte le sue riflessioni sul tema in un volume che oggi è ritenuto un classico: Social Control: A Survey of the Foundations of Order (1901). Ross propone il termine con un significato preciso riferendosi al meccanismo che intenzionalmente viene esercitato dalla collettività sull'individuo per indurlo alla conformità rispetto all'insieme di valori che compongono l'ordine sociale in una società non tradizionale. Sulla scia di Ross, nella proto-sociologia americana, almeno fino ai primi anni Venti, il dibattito sul controllo sociale si sovrappone con la riflessione sulla questione posta dall'interrogativo fondamentale per la filosofia morale scozzese e per Georg Simmel: come è possibile l'ordine sociale? L'idea di una forma di controllo sociale che raggiunge tutti nello stesso modo perde significato in relazione all'accentuarsi progressivo della complessità sociale. Già negli anni Trenta il concetto sfuma la sua originaria generalità teoretica, si frantuma in altri concetti più operativi sul piano empirico anche se rimane come elemento concettuale autonomo da considerare in connessione con la settorializzazione della ricerca sociologica. Questa interessante trasformazione viene condensata in maniera assai limpida nella trattazione che Talcott Parsons dedicherà al concetto nel suo The Social System (1951) esattamente mezzo secolo dopo la pubblicazione del libro di Ross. Oggi lo spazio del concetto sembra essere entrato in un ciclo di prudente dilatazione perché viene adottato a fini analitici dalla sociologia criminale, dalla sociologia del diritto, dalla sociologia della medicina e da un'avvertita sociologia della politica. Ciò detto è opportuno ripercorrere sinteticamente la parabola storica seguita dal concetto di controllo sociale.
La sociologia americana fino agli anni Trenta era fortemente interessata al problema di come fosse possibile un determinato ordine sociale dopo la disgregazione della forma tradizionale di ordine. Il mutamento sociale veniva concepito da Ross come il passaggio (necessario) da un ordine naturale costituito dal concorso di personalità non corrotte ad un ordine basato su istituzioni concepite ad hoc per il controllo sociale e rette, comunque da uomini non corrotti. L'ordine sociale, insomma, è dovuto all'azione di una sorta di élite cui si contrappone una moltitudine crescente di "idioti morali" tipica espressione della società industrializzata ed urbanizzata dove il flusso di continue immigrazioni provoca il caos della modernità. Ross individuò ventitré tipi di controllo sociale classificabili in due grandi gruppi a seconda che venisse esercitato un controllo esterno oppure un controllo in termini di influsso sociale (persuasion). Nel primo tipo troviamo, come istituzioni-chiave, le Chiese ed il diritto; nel secondo tipo l'opinione pubblica, l'educazione. Ross adotta una prospettiva evoluzionista che riecheggia sia Durkheim sia Toennies; egli pone al centro dell'analisi l'idea di progresso morale intesa in termini di passaggio da forme di repressione esterna a forme di autocontrollo. Ross non elabora una strumentazione concettuale adeguata alla spiegazione della transizione dal controllo esterno al controllo interiorizzato: ma la sua intuizione ha una corrispondenza nella trasformazione verso la modernità. Risulta fin troppo facile ascrivere al filone del pensiero conservatore l'opera di Ross tutta permeata da un orientamento di diffidenza verso la grande città e da un'aspirazione puritana che predilige la separazione dalle orde continue ed irrefrenabili degli stranieri immigrati che distruggono irrimediabilmente il natural order originario. Come si diceva il concetto di controllo sociale inteso in questa accezione ampia, delineata da Ross, rimane al centro dell'interesse sociologico fino agli anni Trenta; anche se il 1917 rappresenta l'anno apicale perché è in quell'anno che l'American Sociological Society dedica il suo congresso alla questione del controllo sociale. Tuttavia, anche negli anni Quaranta lo spazio che la riflessione sociologia più accreditata dedica al concetto è di tutto rispetto: prima MacIver e Page, poi Landis si preoccupano di caratterizzare il controllo sociale come una condizione istituzionale che conferisce coerenza all'ordine sociale e che consente alla società di mantenere il suo equilibrio dinamico. A questa fase di successo indiscusso del concetto segue la trattazione fondamentale fatta da Talcott Parsons del controllo sociale come risposta alla devianza nella cornice della sua speciale concezione dell'ordine sociale. Dopo la parentesi parsonsiana di rivalorizzazione il concetto entra in crisi, ad esso si preferiscono il concetto di norma e quello di integrazione. Il progresso ulteriore delle sociologie speciali incrementa la produzione di concetti più specifici, legati all'analisi di problematiche di settore e alla ricerca empirica promossa sulla vasta gamma di comportamento criminale. Ne consegue l'obsolescenza del concetto di controllo sociale che trova ormai una nicchia esclusiva nella sociologia criminale.


3. La Scuola di Chicago: la grande città e la devianza

Nella storia della ricerca sociologica la questione-devianza occupa una posizione centrale già nella prima generazione di sociologi americani. Tre tappe cruciali caratterizzano l'itinerario analitico sul tema fino ai primi anni Cinquanta. David Matza nel suo studio classico Come si diventa devianti (1969) propone tre coppie concettuali come chiavi di lettura tendenzialmente unificanti: a) correzione-comprensione (la devianza viene studiata perché va rimossa; la devianza va compresa anche in una dimensione di empatia); b) patologia-diversità (la normalità va preservata dalla devianza che ne è una sua variante non tollerabile; la devianza è una variante tollerabile della normalità); c) semplicità-complessità (la devianza è un fenomeno ovvio della vita in società; la devianza è un fenomeno non facile da definire rispetto alla normalità con la quale spesso si intreccia). Queste tre coppie concettuali ci aiutano a leggere le differenti analisi della devianza e, non a caso, le rintracciamo costantemente. E' importante osservare che Matza non propone un'ipotesi evoluzionista né presenta i termini delle coppie concettuali in forma dicotomica: la relazione tra i concetti è di tipo dialettico. Le contrapposizioni proposte si ritrovano in ogni concezione sociologica dai primi studi della Scuola di Chicago fino ai neo-chicagoans o, se si preferisce, fino ai labelling theorists, a parte la parentesi concettuale parsonsiana principalmente dedicata alla tematizzazione: comportamento deviante - controllo sociale - quotidianità piuttosto che all'analisi della criminalità in senso proprio.
Negli anni Venti ed in quelli immediatamente successivi la crescita brutalmente rapida delle città rappresenta per gli Stati Uniti d'America il nodo sociale e politico dalla cui risoluzione dipende la stabilità del quadro societario complessivo. Un buon esempio è offerto dall'ingigantimento di Chicago: nel 1900 gli abitanti erano 1.700.000, nel 1920 erano diventati 2.700.000, nel 1930 sono 3.400.000. Magma di gruppi etnici, di nazionalità e di classi sociali differenti; la grande città è il punto di arrivo agognato di un flusso migratorio di vasta consistenza proveniente dall'Europa, ma pure dalle piccole città e dalle innumerevoli comunità rurali dell'America del tempo. La Chicago degli anni Venti e Trenta diventa così il laboratorio di ricerca ideale per chi si occupa dei fenomeni di patologia urbana. La disoccupazione, la mancanza di alloggio, il vizio, il crimine e la devianza caratterizzano la vita di questi giganteschi agglomerati di folle inquiete ed in continuo movimento. The City of the Big Shoulders - come la definì Carl Sandburg in una sua ode famosa del 1914- condensava in sé‚ le tendenze di un'intera società che si rinnovava attraverso processi che alternavano incessantemente sviluppo e crisi.
Robert Ezra Park è al centro di un progetto di ricerche sull'ambiente urbano che resta ineguagliato per vastità e per impegno. La Scuola ecologica di Chicago, nelle sue diverse generazioni di ricercatori impegnati tra il 1916 ed il 1939, annovera accanto agli “urbanologi” in senso stretto come E. Burgess, R.McKenzie, E.Zorbaugh e L.Wirth altri studiosi come G.H. Mead, W.Ogburn, F.Merrill, R.Redfield, S.Stouffer, H.Lasswell e E.Bogardus i quali, partendo da un interesse comune per l'interpretazione degli effetti sociali dell'urbanizzazione avviano delle ricerche che rappresentano l'inizio di diverse specializzazioni della sociologia contemporanea: oltre alla sociologia della città si possono ricordare la sociologia della famiglia, la sociologia dell'opinione pubblica e dei mass-media, la sociologia delle professioni, lo studio del social change e, non ultima, la sociologia del comportamento deviante. Gli ecologi urbani propongono il termine disorganizzazione sociale perché la loro impostazione ricollega la devianza ad un processo di disgregazione sociale che ha nella città la sua matrice fondamentale. Il termine va comunque accettato con cautela perché numerose ricerche degli stessi ecologi ci dimostrano come il crimine e la devianza siano fenomeni assai organizzati.
L'allentarsi dei vincoli che legavano un individuo ad un determinato spazio ove si esauriva la sua vita di essere sociale e l'indebolirsi dell'influenza dei gruppi primari incoraggiano l'aumento della disorganizzazione sociale, della devianza e del crimine che non solo si intensificano ma acquistano una connotazione marcatamente urbana. «La natura generale di questi mutamenti è indicata dal fatto che lo sviluppo delle città è stato accompagnato dalla sostituzione di relazioni indirette e 'secondarie' alle relazioni dirette, immediate e 'primarie' nelle associazioni degli individui nella comunità...Sotto le influenze disgregatrici della vita cittadina, la maggior parte delle nostre istituzioni tradizionali - la chiesa, la scuola e la famiglia - si sono notevolmente modificate» (R.Park 1925,24-5). Insieme alla dissoluzione progressiva di questo tipo di relazioni sociali e delle istituzioni fondamentali assistiamo all'indebolimento ed alla scomparsa graduale di quell'ordine morale tradizionale che su quel tipo di relazioni si fondava. Sono dunque alterate le condizioni che garantivano un certo tipo di controllo sociale; mentre Durkheim parlava di anomia, Park parla di "mobilitazione dell'individuo" e di "individualizzazione" cioè di processi di cui non manca di sottolineare anche le implicazioni positive. Park, infatti, definisce "regioni morali" quelle zone della città "ove prevale un codice morale deviante". E se è vero che i valori tipici della middle-class americana restano il parametro fondamentale cui riferire la devianza, è pure vero che Park non si fa condizionare troppo da questo parametro.
Nell'ambito della Scuola di Chicago la teoria dell'interazionismo simbolico costituisce un riferimento essenziale per la comprensione della devianza. Il comportamento umano viene concettualizzato come 'relativo' in quanto prodotto dagli scambi simbolici fra individui. La definizione di sé stessi e degli altri da parte dei soggetti avviene attraverso il processo comunicativo, o di simbolizzazione. L'identità individuale è costruita sulla base del riferimento all'altro generalizzato (Mead 1934). Thomas, mettendo in relazione la costruzione dell'identità con la situazione, ovvero con il contesto in cui si trova il soggetto, teorizza la pluralità delle identità e fa discendere la legittimità del comportamento dalla definizione corretta della situazione da parte del soggetto. La devianza è definita, quindi, come il risultato della percezione che le persone hanno le une delle altre. Ciò fa sì che il comportamento ritenuto normale dagli appartenenti ad un gruppo possa essere definito deviante dall'esterno. L'attribuzione della devianza avviene non nel contesto specifico dell'azione ma con riferimento all'assetto sociale complessivo. La devianza può sorgere, inoltre, dal fraintendimento della situazione da parte degli individui. A partire dal contributo offerto dalla Scuola di Chicago, si svilupperà, negli anni Sessanta, la teoria dell' etichettamento.
La Scuola di Chicago adotta l'ideologia della patologia sociale senza valutare adeguatamente l'influenza di fattori storico-politici nella determinazione della complessa problematica della disorganizzazione sociale. Pur con questo limite, il tentativo merita vivo apprezzamento perché si ispira a criteri non moralistici e segue un'impostazione rigorosa sotto il profilo scientifico. Agli ecologi si devono i primi studi sistematici sulle bande giovanili, sui vagabondi e sulle diverse forme di criminalità organizzata. Shaw e McKay, ad esempio, lavorano sulle aree delinquenziali, cioè su un tipo speciale di area naturale che incoraggia i rapporti simbiotici fra diversi tipi di devianza. Gli atti criminali vengono localizzati su una mappa di Chicago insieme al luogo di residenza dell'attore deviante; questi dati vengono correlati, ad esempio, al tasso di densità della popolazione e/o al tasso di età della popolazione si fanno così delle piccole scoperte, storicamente confinate alla realtà chicagoana del tempo: il tasso del comportamento delinquente è inversamente proporzionale alla distanza dal centro della città. L'area criminogena registra le quote più alte di suicidi, di malattie mentali, di casi di prostituzione et coetera e si sovrappone con una zona di transizione contrassegnata da forte marginalità e da profondo degrado morale. Alla Scuola di Chicago va poi anche riconosciuto il merito di avere impostato una descrizione acribica dell'universo eterogeneo della devianza ricostruendo in maniera straordinariamente efficace, grazie a delle tecniche di rilevazione originalissime, l'ambiente di insorgenza della devianza ma pure lo stile e la carriera degli attori devianti.
Dagli studi della Scuola di Chicago, proseguiti per tutti gli anni Quaranta, sono emerse diverse teorie. La metodologia e i concetti della Scuola di Chicago non solo hanno dato impulso a successive esperienze di ricerca ma hanno generato anche alcuni degli orientamenti euristici contemporanei più suggestivi. La sottolineatura del comportamento individuale ed dell'interazione fra gli individui piuttosto che del condizionamento delle strutture sociali e culturali ha prodotto, da un lato, le teorie dell'etichettamento e, dall'altro, del controllo sociale e dell'anomia. Anche l'approccio basato sul concetto di comunità è stato recuperato a partire dagli anni Settanta, prima per effetto dell'interesse per il tema della vittimizzazione, stimolato da specifiche inchieste, poi grazie al riemergere dell'attenzione per la dimensione ecologica della disgregazione. La teoria ecologica attuale ha fra i suoi oggetti di studio la localizzazione del crimine, ovvero i luoghi prediletti e gli ambienti propizi al crimine, l'evoluzione nel tempo dell'ambiente sociale e lo sviluppo delle carriere criminali nella comunità.


4. Il Capitolo VII di The Social System

Per Talcott Parsons devianza e controllo sociale sono due concetti interdipendenti la cui trattazione viene sviluppata nell'ambito più ampio dell'intera concezione dell'azione sociale. «La dimensione della conformità-deviazione, cioè il problema funzionale, è inerente ai sistemi socialmente strutturati di azione sociale in un contesto di valori culturali» (p.329). La loro trattazione non viene dunque banalmente ridotta all'ambito specifico della sociologia criminale. In altre parole è necessario ricondurre questi concetti, come altri concetti sociologici, alla concezione parsonsiana dell'ordine sociale concepito, principalmente, come effetto naturale del processo di socializzazione che definisce in veste motivazionale -decisiva per ogni attore e per l'intero ciclo della vita- il complesso valoriale caratteristico del sistema culturale. Lo studio della devianza viene proposto nei termini di uno studio dei processi che incoraggiano la resistenza alla conformità (o meglio alle aspettative di conformità prescritte dal modello normativo); lo studio del controllo sociale corrisponde allo studio dei meccanismi mediante i quali le tendenze devianti vengono “neutralizzate nei vari sistemi sociali”. E' importante sottolineare che la definizione di questi due concetti può essere sviluppata avendo riguardo al singolo attore oppure avendo riguardo al complessivo sistema di interazione. E' fondamentale ricordare con Parsons che: « l'equilibrio stabile del processo di interazione costituisce il punto fondamentale di riferimento per l'analisi del controllo sociale, così come lo è per la teoria della deviazione» (Talcott Parsons (1951) 1965, p.307).
Talcott Parsons si sofferma sul problema del comportamento deviante nei termini che gli sono propri dell'analisi della genesi della motivazione alla deviazione. La formazione di una motivazione cumulativa alla deviazione viene ricondotta ad un circolo vizioso presente nell'interazione di due soggetti agenti - ego e alter - che alimentano delle ambivalenze complementari all'interno dei rispettivi sistemi motivazionali. L’ambivalenza rispetto alla norma interiorizzata e rispetto alle persone che svolgono un ruolo di partnership nell'interazione si traduce in uno stato d'animo dell'attore che, essendo ambivalente, non adotta un rifiuto netto della devianza. L'effetto della deviazione è quello di mettere in crisi il sistema interattivo medesimo e di mettere in crisi la conformità alle aspettative reciproche di comportamento. La definizione parsonsiana in chiave di ambivalenza svela la profonda influenza della psicanalisi e, in maniera consequenziaria, fa discendere dalla concezione del controllo sociale una terapia mirata a rimotivare il deviante ad un'azione conforme. Tuttavia la posizione di Parsons in proposito è più articolata di quanto usualmente i suoi commentatori abbiano fatto credere. Non a caso egli scrive che « il processo di psicoterapia... può servire, per certi scopi, come prototipo dei meccanismi di controllo sociale» (pp.310-1). Nella genesi della deviazione il conflitto di ruolo può risultare un fattore determinante. L'attore può essere esposto a contrastanti aspettative legittimate di ruolo con la conseguenza che non è possibile un loro adempimento integrale. La soluzione sta nel compromesso oppure nella scelta di un'alternativa a scapito dell'altra. Effetti probabili: l'attore si espone a delle sanzioni ed alle inevitabili tensioni prodotte da un conflitto interno dovuto all'interiorizzazione di gruppi di valori non apparentabili. Gli effetti perversi del conflitto di ruolo si possono superare ridefinendo la situazione oppure fuggendola, adottando la segretezza e distinguendo rigorosamente le situazioni nelle quali l'eterogeneità dei valori può occasionare il conflitto di ruolo medesimo.
La devianza è diffusa, di rado appariscente e, in genere, sembrerebbe avere conseguenze non devastanti; altrettanto in ombra opererebbero, in generale, i meccanismi preposti alla funzione del controllo sociale. Di questi meccanismi Talcott Parsons fornisce un'articolata tipologia che merita di essere ripresa in questa sede perché esprime la coerenza del suo sistema teorico, ma non solo per questo motivo. In primis va osservato che, in linea generale, i meccanismi fondamentali di controllo sociale sono da ritrovare nei normali processi di interazione così come si svolgono in un sistema sociale integrato istituzionalmente. Il primo meccanismo da considerare, allora, è l'istituzionalizzazione; essa è importante per descrivere lo sfondo sul quale dobbiamo comprendere il funzionamento delle dinamiche di controllo sociale in un senso più stretto. L'istituzionalizzazione svolge funzioni integrative a diversi livelli: in particolare essa mette ordine nel complesso intreccio di relazioni in modo che l'attore può gestire il suo sistema interattivo contenendone la dimensione conflittuale. A tal fine viene organizzato in maniera piuttosto rigida il tempo dell'azione sociale e, in secondo luogo, si determinano delle priorità istituzionalizzate. Esiste poi una gamma di meccanismi informali di controllo, solo in apparenza da considerare “minori”. Si tratta di un insieme di sanzioni interpersonali che esprimono chiaramente il dissenso rispetto al deviante e che ricorrono a forme di comunicazione sociale anche gestuale od indiretta, con una finalità evidente di ricondurre garbatamente chi è andato al di là del limite nello spazio comportamentale corretto. Il terzo meccanismo da valutare è la ritualizzazione. I modelli rituali servono per riorganizzare la reazione al dato critico in un modo positivo e a prevenire, controllandole, le tendenze alla rottura. Un esempio classico è offerto dall'elaborazione sociale del lutto. I modelli rituali hanno, in genere, una connotazione permissiva che agisce da sfogo (comunque sempre controllato culturalmente) della tensione che potrebbe avere effetti perniciosi per l'attore implicato e per il relativo gruppo e per la comunità di appartenenza. Un altro tipo di meccanismo di controllo sociale dalla significatività più tenue è l'istituzione secondaria. Si tratta di una sorta di valvola di sicurezza che genera effetti di controllo su elementi motivazionali potenzialmente devianti. L'istituzione secondaria funziona da zona franca cioè come uno spazio dove alcuni comportamenti ritenuti devianti sono invece legittimati. L'esempio parsonsiano è quello della cultura della gioventù americana che presenta, a suo dire, una dimensione permissiva piuttosto spinta, al limite della deviazione esplicita. Alcuni modelli propri dello stile di vita giovanile vengono integrati dalle principali strutture istituzionali specialmente grazie all'educazione; altri modelli ricadono nell'ambito dei caratteri “autoliquidatori” della cultura giovanile che promuovono una maturazione individuale ed un'emancipazione progressiva dalla stessa cultura giovanile.
Un quarto tipo di meccanismo di controllo sociale è rappresentato dai meccanismi di isolamento che si prefiggono sia di prevenire la formazione di strutture di gruppo caratterizzate da una maggiore deviazione sia di prevenire una pretesa di legittimità. Il deviante viene spinto in una certa posizione con interessanti effetti deterrenti. Infine, la categoria più vasta e più comune dei meccanismi di controllo sociale è data dall'apparato punitivo composto da polizia e da magistratura con la funzione eminente di imporre i modelli normativi e di collegare alla violazione della norma l'erogazione di specifiche sanzioni negative. Nonostante che la riflessione su questo tipo di meccanismo renda problematico il postulato parsonsiano dell'autoregolazione del sistema sociale e sveli le difficoltà a volte persistenti di ripristinare spontaneamente lo stato di equilibrio, Parsons non sottovaluta affatto l'importanza di questi meccanismi ed avanza due osservazioni: a) gli organi di imposizione svolgono una funzione essenziale nel senso di limitare la diffusione delle tendenze devianti illeggittime; b) « attraverso la loro relazione con i tipi più sottili di meccanismi di controllo sorgono i problemi di maggiore interesse sociologico» (p.321). Parsons, infatti, sviluppa tutta la sua analisi sul controllo sociale nell'intento di dimostrare che « nel sistema sociale esistono di fatto importanti meccanismi non progettati, che in un certo senso tengono testa alle tendenze intrinseche a una deviazione socialmente strutturata, fornendo insieme alcuni suggerimenti sulle direzioni che la ricerca deve prendere se vuole sbrogliare le fila intricate del funzionamento di questi meccanismi » (p.329). Che il tema abbia una sua evidente centralità nel sistema teorico parsonsiano risulta, infine, dimostrato dall'affermazione che « le tendenze strutturate del comportamento deviante che non sono state affrontate con successo dai meccanismi di controllo del sistema sociale, costituiscono una delle fonti principali del mutamento nella struttura del sistema sociale» (p.330).


5. Il funzionalismo e la teoria mertoniana dell'anomia

Sappiamo che il funzionalismo affronta lo studio della società concependola come una totalità di strutture interdipendenti, ognuna delle quali svolge una funzione orientata al mantenimento del sistema sociale complessivo e della sua riproduzione. Emile Durkheim è senza dubbio uno dei principali precursori del funzionalismo; la sua metodologia adotta come principio fondamentale la separazione tra la causa efficiente di un fenomeno e la funzione che lo stesso fenomeno assolve. «Ciò che dobbiamo determinare è se sussiste una corrispondenza fra il fatto considerato e i bisogni generali dell'organismo sociale ed in che cosa consista questa corrispondenza». In questa stessa ottica non risulta poi molto paradossale l'idea, sempre di Durkheim (il quale comunque non ha mai adottato il termine di devianza) che il crimine abbia una sua funzionalità e che non si possa concepire esclusivamente come una manifestazione patologica della vita in società. La devianza, in questa prospettiva macrosociologica adempie un ruolo positivo nella conservazione dell'ordine sociale ed anzi rafforza la normalità. Nelle Regole del metodo sociologico (1895) Durkheim scrive con grande chiarezza che: «Classificare il reato tra i fenomeni della sociologia normale non significa soltanto dire che esso è un fenomeno inevitabile, benché increscioso, dovuto all'incorreggibile cattiveria degli uomini, ma significa anche affermare che esso è un fattore della salute pubblica, una parte integrante di ogni società sana». Non solo è inconcepibile un organizzazione della vita collettiva senza la presenza di manifestazioni devianti, ma v'è di più: la devianza svolge delle funzioni positive perché rafforza la struttura normativa nella coscienza collettiva; il criminale collega e mantiene più unite tra di loro le persone normali che si ritrovano concordi nel condannare il reo e che confermano così il loro senso della realtà comunitaria come orientamento giusto. Naturalmente il sociologismo durkheimiano perviene a conclusioni permeate da un funzionalismo esasperato che possono suscitare più di una perplessità quando scrive: «Contrariamente alle idee correnti, il criminale non appare più come un essere radicalmente non-socievole, una specie di elemento parassita, di corpo estraneo e non assimilabile introdotto in seno alla società; egli è invece un agente regolare della vita sociale. Il reato, da parte sua, non deve più venir concepito come un male che è impossibile contenere in limiti troppo angusti; ma quando accade che esso scenda sensibilmente al di sotto del suo livello ordinario, questo fatto non deve essere per noi un motivo di soddisfazione, perché questo apparente progresso è certamente contemporaneo e solidale a qualche turbamento sociale» (p.77). Quindi la pena, per Durkheim, non ha come scopo primario la riabilitazione del criminale bensì la riconferma dell'autorità morale della società; un punto di vista che è ostico alla criminologia liberale. Ciò che preme sottolineare in questa sede è che Durkheim suggerisce un approccio di studio della devianza in termini di funzionamento della società, prescindendo dallo studio delle motivazioni individuali che spingono all'atto deviante.
A questa stessa prospettiva ed al concetto durkheimiano di anomia si ispira una delle più fortunate teorie sociologiche della devianza, quella elaborata da Robert K. Merton nel 1938 nel saggio Social Structure and Anomia. Il comportamento deviante insorge più frequentemente quando le norme che governano la condotta in un dato quadro societario appaiono contraddittorie. Per Merton la struttura sociale esercita su alcuni individui una pressione a deviare, innescando un meccanismo dove le mete culturalmente condivise e i mezzi socialmente accettati per raggiungerle sono sfasati. Cerchiamo di spiegare meglio. Le mete culturali sono quegli obiettivi generali che danno senso all'esperienza della vita: ad esempio nella società d'oggi, la conquista della ricchezza e il successo. Tutti, o quasi tutti i membri di una società, in una data epoca adottano le mete che la cultura propone in una forma quasi categorica. La società propone anche gli strumenti istituzionali idonei (e legittimi) per conquistare dette mete. La società del nostro tempo sovradimensiona l'importanza di alcune mete, mentre non sottolinea - con altrettanta importanza- le procedure istituzionali che devono essere adottate per il perseguimento dello scopo condiviso. Molti individui sottoposti ad una particolare tensione per il raggiungimento della meta si chiedono quale dei procedimenti disponibili sia più efficace e meno costoso. Ne consegue che «il procedimento che si mostra più efficace tecnicamente, non importa se sia più o meno legittimo culturalmente, viene preferito alla condotta prescritta culturalmente. Via via che questo processo di attenuazione continua la società diventa instabile; e si sviluppa ciò che Durkheim ha chiamato 'anomia' (o mancanza di norme)».
A ben guardare Merton propone una rivisitazione concettuale del termine durkheimiano piuttosto sui generis, dato che nella società che induce alla devianza alcune mete sono normativamente assai radicate e la loro accettazione è molto diffusa; il comportamento deviante si manifesta quando le norme che reggono la condotta in un dato ambiente evidenziano delle contraddizioni. La riflessione mertoniana sulla devianza si allarga a una concezione più generale dei rapporti fra struttura sociale e struttura culturale; per Merton, «la struttura sociale si comporta di volta in volta come una barriera o una porta aperta nei confronti della realizzazione dei mandati culturali: quando la struttura culturale e la struttura sociale non sono integrate e la prima richiede dei comportamenti che la seconda impedisce, ne consegue una tensione che porta alla violazione delle norme o all'assenza di norme».
L'analisi mertoniana è particolarmente acuta nell'individuazione del meccanismo socio-culturale tipico dell'America urbana ma anche di ogni società post-capitalistica:« il processo per cui l'esaltazione del fine genera quel che nel senso letterale del termine si potrebbe chiamare una demoralizzazione (....), cioè una de-istituzionalizzazione dei mezzi, si verifica in molti gruppi nei quali le due componenti della struttura sociale non sono grandemente integrate». La meta del successo, valutata in termini della quantità di denaro guadagnato e dell'acquisizione di beni materiali, viene condivisa da tutti, indipendentemente dall'appartenenza sociale di ciascuno, ed assume un valore preminente nei cui confronti si possono verificare cinque modalità di adattamento articolate in una tipologia che fa parte, ormai, del discorso sociologico classico.

modi di adattamento
mete culturali
mezzi istituzionali
1. conformità
+
+
2. innovazione
+
-
3. ritualismo
-
+
4. rinuncia
-
-
5. ribellione
+
-
+
-

La conformità rappresenta la modalità di adattamento più comune; senza di essa non ci sarebbe la possibilità di vivere in una società. In questo caso vengono pienamente accettati sia i valori propagandati dalla cultura sia i mezzi indicati per ottenere lo status congruo con lo stile di vita che viene ad essi associato. Questa soluzione è, naturalmente, diffusa un po' in tutti gli strati sociali, anche se alcuni strati sembrano più inclini di altri ad optare per questa forma di adattamento. L'innovazione comporta l'accettazione delle mete culturali e, dunque, dei valori socialmente approvati, ma una presa di distanza nei confronti dei mezzi istituzionali. L'innovatore opta per l'uso di mezzi tecnicamente idonei a perseguire la meta anche se è ben consapevole che si tratta di mezzi socialmente non approvati. Secondo Merton i white collar crimes studiati da Sutherland rientrano in questa categoria. Ma il caso più interessante sociologicamente riguarda coloro che appartengono alle classi inferiori nei cui confronti opera, forse, la maggiore pressione ad un comportamento deviante.
Il sistema della stratificazione mette in evidenza che gli strati inferiori accettano, come tutti gli altri, il mito della ricchezza. Anche se, di fatto, le possibilità effettive a loro disposizione per agire istituzionalmente al fine di procacciarsi delle grandi ricchezze praticamente sono inesistenti; questi ceti non sono indotti a criticare la struttura sociale e politica che li colloca in una condizione di palese svantaggio rispetto agli strati superiori. L'intreccio fra queste condizioni non compatibili reciprocamente produce devianza. L'opzione rituale riguarda, invece, coloro che respingono le mete ma accettano i mezzi. Il burocrate iperattivo o l'impiegato forzatamente innamorato della sua routine esprimono le frustrazioni proprie di chi non ha la possibilità concreta di raggiungere la meta del successo ma necessita di un conforto psicologico compensatorio. La rinuncia, impropriamente, si configura come un tipo di adattamento: rinuncia, infatti, colui che non accetta né le mete né i mezzi istituzionalmente previsti per raggiungerle. Chi rinuncia abbandona il gioco definito dalla struttura socio-culturale in termini di esasperata competitività e si mette ai margini della società. L'elenco dei rinunciatari effettuato da Merton comprende delle categorie asociali e dei tipi particolari di devianti: « gli psicotici, i visionari, i paria, i reietti, i mendicanti, i vagabondi, i girovaghi, gli ubriaconi cronici e i drogati». Quella del rinunciatario si configura come una modalità di adattamento che matura nella sfera del privato ed è dunque irrilevante (almeno in apparenza) sul piano collettivo. La ribellione, infine, comporta una doppia scelta: prima il rifiuto delle mete e dei mezzi codificati, poi l'assunzione di nuove mete e di nuovi mezzi. Il ribelle combatte per una struttura socio-culturale alternativa a quella da cui ha preso la distanza. Il rifiuto dei valori dominanti e dei mezzi prescritti per realizzarli si accompagna con l'impegno per sostituirli con altri valori in vista di una rifondazione radicale del sistema sociale.
Il principio sociologico generale che emerge dall'analisi mertoniana è che non tutti dispongono delle medesime chances per raggiungere legittimamente gli obiettivi di status definiti con forza dallo stesso processo di socializzazione. Età, sesso, classe sociale di appartenenza possono costituire un'agevolazione oppure un ostacolo per il successo. Le differenti classi sociali sono soggette in maniera differenziale all'influenza anomica. La tipologia definita da Merton va letta per l'appunto come serie di modalità di adattamento ad una condizione sociale anomica. I problemi che i critici hanno sollevato nei confronti di questa proposta mertoniana che tende a sovrapporre, in qualche caso, devianza ed anomia sono numerosi (cfr. R.Dubin 1959; H.Hyman 1969; G.Gennaro 1993). Merton stesso era consapevole del problema di un'imputazione causale troppo semplificata e scriveva che «anomia e tassi sempre più alti di comportamento deviante possono essere concepiti come fenomeni interagenti in un processo di dinamica culturale e sociale». In altre parole la sua teoria rimane suggestiva proprio perché tenta di individuare le basi culturali del comportamento deviante e non teme di svelare la connessione tra la devianza ed un nucleo valoriale predominante nella società moderna.
La prospettiva delineata da Merton viene ripresa da Albert K.Cohen cui si deve un contributo importante sulla subcultura della devianza giovanile. Cohen nota in primis che il giovane quando devia adotta un orientamento irrational, malicious and unaccountable; sottolinea cioè alcuni aspetti generali e tipici della psicologia giovanile che si riflettono sull'atto deviante. Ma l'altro aspetto rilevante della sua analisi sui Ragazzi delinquenti (1955) è dato dall'ipotesi che la devianza, anzi più precisamente la delinquenza giovanile sia un'espressione caratteristica delle classi socialmente inferiori. L'analogia con l'impostazione mertoniana è chiara: i giovani, indifferentemente rispetto alla loro appartenenza sociale, vengono valutati sulla base di un complesso di valori che caratterizza l'american way of life tipico della classe media. In funzione di questo apparato valoriale e normativo ci si trova di fronte ad «un sistema di qualificazione sociale in cui i giovani di livelli sociali diversi possono essere e sono posti direttamente a confronto in base allo stesso complesso di criteri basati sull'acquisività. Differenze sistematiche in questa capacità generale di successo, connesse con la classe di appartenenza, relegheranno sul fondo della piramide sociale i giovani appartenenti alle classi sociali più svantaggiate, non direttamente a causa della loro posizione di classe in quanto tale, ma perché a causa degli handicap connessi con la classe che agiscono da remora per loro, essi mancano delle qualifiche personali richieste. In breve, dove le opportunità di successo sono connesse con la classe, si produrrà lo scontento sociale nella misura in cui il sistema di qualificazione è democratico» (A.K.Cohen 1974, pp.86-8). In poche parole i giovani di classe inferiore hanno dei problemi di adattamento dovuti al confronto con gli standard di comportamento definiti dalla classe media; la subcultura delinquente è una delle risposte possibili a questi problemi. Ma andiamo con ordine. I ragazzi che appartengono originariamente alla classe inferiore possono adottare rispetto allo svantaggio della condizione di partenza una di queste tre soluzioni che va letta - in una chiave mertoniana - come una soluzione ad un problema di adattamento: a) una certa quota di ragazzi della classe operaia si impegna in una forma straordinaria in un percorso di vita che ricopia lo schema tradizionale dei giovani di classe media (è la soluzione da college boys): in questo caso il successo scolastico rappresenta la porta di ingresso verso il successo in generale e l'adesione piena ai valori dominanti; b) per molti la “prova” dell'esperienza scolastica fallisce; ci si trova allora un lavoro tipico da membro della classe inferiore, senza uno sbocco stimolante in termini di carriera e ci si adatta ad una condizione di vita che respinge in parte i valori della classe media senza però entrare in una condizione di aperto conflitto (è la soluzione da corner boys); c) alcuni, infine, adottano la soluzione delinquente: respingono energicamente gli standard di vita della classe media ( sia pure con l'ambivalenza dovuta alla socializzazione primaria), ricercano l’unione tra ribelli e riattivano il processo di autostima intraprendendo delle attività di banda. La gang rappresenta un medium sociologico imprescindibile per motivarsi reciprocamente nell'attività tipica dei delinquenti. La subcultura delinquente ha, principalmente, la funzione di legittimare l'aggressività.


6. La teoria del controllo sociale

Alla teoria della subcultura si contrappone l'approccio alla devianza basato sul concetto di controllo sociale. Matza critica l'assunto centrale della teoria della subcultura, secondo il quale la devianza dà luogo ad un mondo indipendente regolato da norme autonome e l'individuo che viola la legge - ovvero le norme dell'ordine legittimo - è totalmente estraneo a questo ordine. Per Matza (1964) la definizione sociale della devianza discende dal conflitto fra il senso attribuito all'atto deviante dai devianti e il senso dato allo stesso atto dagli altri soggetti. Nel suo studio sui giovani delinquenti Matza vede nel deviante un individuo che partecipa al sistema dei valori legittimo e si pone il problema di spiegare perché il deviante è tale, pur conoscendo e condividendo le regole di comportamento degli altri membri della società. Sykes e Matza (1957) sostengono che, in un contesto in cui i valori e le norme rappresentano delle guide per l'azione di carattere flessibile, il deviante può elaborare delle giustificazioni della propria azione, adducendo motivazioni che legittimano dal suo punto di vista la sospensione di una norma morale o legale e gli consentono di sentirsi autorizzato a trasgredire. In quest'ottica l'ingresso nella devianza non implica l'interiorizzazione dei valori di una sottocultura contrapposta all'ordine sociale dominante, ma l'apprendimento delle “tecniche di neutralizzazione” che consentono all'individuo di continuare a considerare legittime le regole che sta violando. Le tecniche di neutralizzazione individuate sono cinque: la negazione della responsabilità, la negazione del danno, la negazione della vittima, la condanna di chi condanna e il richiamo a lealtà di ordine più elevato. La neutralizzazione spiegherebbe l'inclinazione di un individuo a compiere atti devianti in quanto la sospensione della fedeltà ai valori sociali libera l'individuo e lo pone alla deriva. La condizione di deriva è aperta sia al reingresso nella conformità sia al proseguimento sulla strada della devianza.
La versione più recente della corrente sociologica che legge la devianza in termini di controllo sociale è la teoria del legame sociale di Hirschi (1969). Similmente a Durkheim, Hirschi pone i comportamenti su di una scala che va dalla conformità alla devianza. Il comportamento convenzionale è il frutto dell'influenza delle norme interiorizzate, della coscienza e del desiderio di approvazione. L'individuo è libero di accedere alla devianza, ma, mentre Sykes e Matza spiegano l'orientamento alla devianza con il ricorso da parte dell'individuo alle tecniche di neutralizzazione, Hirschi chiama in causa la natura dei legami sociali e associa la devianza al loro indebolimento o alla rottura. Un individuo compie un reato quando i vincoli che lo legano alla società perdono di forza e di efficacia nel trattenerlo dal seguire le proprie inclinazioni e i propri interessi. I legami sociali sono costituiti da quattro elementi: l'attaccamento, il coinvolgimento, l'impegno e la convinzione. L'attaccamento è dato dalla forza dei legami verso altri significativi (i genitori, gli amici, i modelli di ruolo) o verso le istituzioni (la scuola, l'associazione); il coinvolgimento è espresso dal tempo e dalle risorse dedicate alla partecipazione ad attività convenzionali (tanto più tempo è dedicato allo studio, allo svago, ecc. tanto meno ne resta per compiere atti devianti); l'impegno è costituito dall'investimento sotto forma di istruzione, reputazione, posizione economica; la convinzione, infine, consiste nel riconoscimento della validità delle norme vigenti. La libertà di adottare comportamenti devianti si riduce o si estende a seconda della presenza e dell'intensità degli elementi costitutivi dei legami sociali.
La teoria del controllo sociale pone, dunque, in relazione l'aumento dei comportamenti devianti con l'indebolimento della coesione sociale. La devianza è assunta come un dato naturale in una società. Gli individui agiscono spinti dalla ricerca dell'autoconservazione e della gratificazione; il vivere sociale è reso possibile dall'ordine morale formato dalle regole, che gli individui interiorizzano nel corso della socializzazione; il legame con l'ordine sociale, imperniato sui quattro elementi individuati, è la condizione per il mantenimento della conformità. In quest'approccio, che si fonda su di una concezione pessimistica della natura umana, ritenuta moralmente fragile e bisognosa di freni e di controlli, è proprio la conformità a dover essere spiegata, piuttosto che la devianza.
Una versione più recente della teoria del controllo sociale è stata elaborata da Gottfredson e Hirschi (1990) con la denominazione di teoria generale della criminalità o teoria del basso autocontrollo. Il crimine non nasce da motivazioni o bisogni specifici ma dalle pulsioni di tipo egoistico quando vi è un basso grado di autocontrollo. I tratti della personalità individuale - come l'impulsività, l'insensibilità, l'egocentrismo e le capacità intellettive - assunti in età precoce durante il processo di socializzazione influenzano la capacità di autocontrollo degli individui. Se le caratteristiche potenzialmente criminali sono parte costitutiva della natura umana, la possibilità di intraprendere una carriera deviante viene a dipendere dal successo o dal fallimento del processo di socializzazione. All'interno della loro teoria gli autori ricomprendono anche gli assunti di altre correnti teoriche; l'atto deviante, da un lato, è compiuto dal soggetto sulla base di un'aspettativa di gratificazione e del calcolo dei costi e dei benefici che ne scaturiscono, che configurano una disposizione razionale da parte del deviante, e, dall'altro, presuppone delle condizioni favorevoli esterne e interne al soggetto.


7. Un punto di svolta: la labelling theory

Alla metà degli anni Sessanta emerge un punto di vista sulla devianza che, per certi aspetti, appare come una sorta di rivoluzione copernicana ma che, sotto altri versanti, si presenta come un'espressione sincretica della Scuola di Chicago e del funzionalismo che tiene però in largo conto anche dell'interazionismo simbolico e della fenomenologia. Questo nuovo modo di guardare la devianza riesce a combinare prospettive teoriche diverse in un 'unica tesi: lo studio della devianza deve spostare il suo fuoco dall'attore e dall'atto verso l'opinione pubblica. La società inventa la devianza nel senso che i gruppi sociali stabiliscono che cosa è devianza, definendo le norme la cui infrazione comporta l'attribuzione della qualifica deviante. L'attore deviante è una persona particolare che viene etichettato come outsider. La devianza non è un'azione qualificata intrinsecamente come tale, ma piuttosto l'effetto dell'applicazione di certe regole e delle sanzioni correlate da parte di alcuni (gli etichettatori) a danno di altri (i trasgressori). Il nuovo orientamento mette radici prima nella sociologia statunitense e poi in quella europea, dominando la scena per oltre vent'anni. Viene individuato con nomi diversi: teoria interazionista, transazionale, della reazione sociale ma il più delle volte con l'espressione fortunata di labelling theory. Sotto il profilo metodologico l'innovazione sta proprio in uno spostamento di attenzione dal comportamento alla reazione sociale. Le teorie tradizionali studiano l'azione deviante e cercano di rintracciare le sue cause in un pattern più o meno deterministico; le nuove teorie evitano la spiegazione causale, adottano un modello flessibile dell'azione umana e sono unicamente interessate ai meccanismi di etichettamento che rappresentano la reazione sociale alla devianza. L'ottica è innovativa perché si sostiene che non è la devianza che genera il controllo sociale ma all'opposto è il controllo sociale che porta alla devianza.
La definizione di Howard S. Becker esprime bene il significato di questo nuovo orientamento teorico: «La devianza non è la qualità di un atto compiuto da una persona, ma piuttosto la conseguenza dell'applicazione di norme di sanzioni da parte di alcuni nei confronti di un trasgressore (offender). Il deviante è uno a cui questa etichetta è stata applicata con successo; il comportamento deviante è il comportamento che le persone così etichettano» (H.S. Becker 1964). La distinzione di Edwin M. Lemert fra devianza primaria e devianza secondaria rappresenta uno dei concetti fondanti della teoria dell'etichettamento. Si parla di devianza primaria avendo riguardo ad un comportamento che, pur essendo obiettivamente deviante, non viene censurato e, quindi, non comporta una redifinizione dello status sociale del trasgressore. Quando il comportamento deviante è ripetuto frequentemente, acquista evidente visibilità ed allora si scatena una reazione sociale: a questo punto si ha il passaggio alla devianza secondaria. Il passaggio dalla devianza primaria alla devianza secondaria è formato da un meccanismo di interazione a più stadi che vede un progressivo rafforzamento nella condotta deviante come effetto di un incremento ripetuto di sanzioni sociali e di formale stigmatizzazione. Alla fine della sequenza, l'attore muta l'originaria autovalutazione del proprio comportamento, accetta il suo status di deviante ed opera gli adattamenti di ruolo corrispondenti. In parole più semplici la devianza primaria ha delle implicazioni marginali anche per la struttura psichica del soggetto che non si vede costretto a riorganizzare il suo progetto di vita complessivo. La devianza secondaria, invece, vede una stabilizzazione del comportamento deviante, la ripetitività lo rende abitudinario con la conseguenza, in certo modo, di professionalizzarlo e di contagiare anche gli altri ruoli che non avrebbero una connessione diretta con l'atto deviante medesimo.
L'inizio della carriera deviante è non di rado del tutto accidentale. La reazione della società trasforma un fatto episodico; la disapprovazione, l'isolamento sociale la degradazione che ne consegue stabilizzano la devianza. Il comportamento deviante diventa uno strumento di difesa da usare per fronteggiare i problemi posti dalla reazione sociale. Uno dei contributi interessanti sul piano euristico dettati dalla scuola del labelling e da Becker specificatamente, riguarda la proposta di un modello sequenziale (o fasico) in sostituzione del modello simultaneo prediletto dall'approccio sociologico tradizionale a proposito della costituzione di un comportamento deviante. Le variabili interpretative di ciascuna delle fasi componenti sono significative anche perché la distinzione tra deviante e non deviante sottolinea il carattere processuale del comportamento deviante che perde la sua unicità e che si sviluppa per l'appunto attraverso una sequenza di atti nel tempo. Ne deriva l’elaborazione del concetto di carriera che nella formulazione beckeriana prevede l'apprendimento sociale di motivazioni e di interessi devianti.
Lemert, tuttavia, assai acutamente osserva che una parte non trascurabile della definizione sociale del deviante non ha una corrispondenza nel suo comportamento effettivo. Si riscontra, insomma, un surplus di reazione sociale e di correlata penalizzazione che dipende da una distorsione non agevole da spiegare. In misura non piccola la devianza diventa allora devianza putativa. Questo processo di falsa imputazione che connota i meccanismi di reazione sociale dipende da molte condizioni; prima fra tutte l'uso manipolativo della devianza effettuato da gruppi in competizione per motivi di potere. Ma vanno considerati anche il deficit organizzativo degli apparati di controllo e le esigenze legate alle politiche instaurate da questi stessi apparati, la separazione tra i problemi reali posti dalla devianza e l'opinione pubblica, et alia.
L'anatema lanciato da chi e/o da coloro che hanno il potere di etichettare si traduce in un controllo della condotta di chi viene etichettato. Non si può però concepire l'etichettato esclusivamente come un dominato inerte; specialmente in una società complessa, mutevole e pluralista qual è la società contemporanea, il deviante non rimane sempre passivo ma organizza una risposta a chi lo etichetta. Il quadro normativo difeso con l'azione del labelling diventa oggetto di conflitto e si colloca, non di rado, al centro della dinamica politica di una data società. Ma non si può trascurare una riflessione che riguarda il singolo attore coinvolto nel processo di labelling; egli, alla fine di questo processo, si identificherà con l'immagine socialmente codificata del deviante ma anche con la subcultura organizzata in funzione di quella data devianza alla quale l'attore partecipa. Il deviante si riconferma tale respingendo coloro (singoli, gruppi, istituzioni) che l'hanno respinto e che l'hanno confermato nella sua condizione di outsider. Resta valida comunque l'osservazione che quante più subculture animano la scena sociale (l'esempio tipico viene offerto proprio dalla forte eterogeneità socio-culturale della metropoli) tanto più problematica diventa l'individuazione del deviante e del suo etichettamento.
Rispetto ai teorici dell’etichettamento Goffman esplora il tema della devianza in relazione ai processi di costruzione dell’identità sociale. Nella sua analisi del rapporto fra ruolo e identità, Goffman (1956) individua tre componenti del ruolo: l’aspetto normativo, l’aspetto tipico, costituito dagli attributi associati alla persona che adotta il ruolo, l’aspetto dell’interpretazione, che fa riferimento al contesto di interazione nel quale il ruolo viene assunto. Il ruolo, dunque, si colloca sempre in un sistema di interazione e di attività situata e la persona che lo assume si conforma alle attese degli altri. La possibilità di interpretare più ruoli a seconda delle esigenze poste dal contesto pone il problema della definizione e del mantenimento dell’identità personale, che Goffman risolve introducendo il concetto di “distanza dal ruolo”. L’attore può segnalare agli altri che non si assoggetta completamente alle obbligazioni afferenti al ruolo che egli si trova a rivestire. Questo scarto fra ruoli e identità può essere recepito dagli interlocutori dell’attore come trasgressione delle norme che regolano il ruolo e assumere la forma della devianza.
In un’opera successiva, Stigma, Goffman (1963) offre un secondo importante contributo alla teoria della devianza. Un atto deviante è tale quando trasgredisce una norma; per Goffman la trasgressione ha per oggetto un tipo specifico di norme, che regolano l’identità. Ogni individuo è dotato di un’identità sociale: un complesso di segni esteriori definisce il suo status sociale e stabilisce le modalità di rapporto che gli altri possono intrattenere con lui. L’identità personale che si va così a costruire è composta di due dimensioni: una virtuale, che è attribuita all’individuo sulla base della sua apparenza, e l’altra reale. Lo stigma è quell’attributo personale (una qualità fisica o culturale, come il colore della pelle, la deformità, l'handicap, l'omosessualità, la religione) la cui osservazione suscita negli altri un dubbio sull’identità sociale del soggetto, in quanto pone il problema dell’adeguatezza fra identità virtuale e identità reale. Da parte sua l’individuo portatore di stigma cerca di gestire lo scarto tra le due dimensioni della sua identità, attraverso delle strategie di controllo dell’informazione sociale, che sono volte a far dimenticare o a servirsi dello stigma stesso quando lo stigma è riconoscibile e palese, oppure a evitarne lo svelamento quando lo stigma è nascosto. Si pone, dunque, per Goffman il problema di spiegare quando un attributo si trasforma ed è riconosciuto dagli altri come stigma. In teoria qualsiasi attributo può divenire uno stigma; poiché il passaggio da attributo a stereotipo avviene nel corso dell’interazione faccia a faccia, l’autore sottolinea che non è il possesso dello stigma in sé ma il tipo di rapporto sociale in cui il soggetto è coinvolto a determinare il sorgere della devianza. Il deviante è, perciò, il soggetto che è portatore di uno stigma, che ha scarse possibilità di controllare l’informazione per lui discreditante, e che, infine, è posto in contesti poco favorevoli alla gestione di un’identità segnata dallo stigma.
La più parte delle ricerche empiriche effettuate sulla questione devianza negli ultimi trent'anni riflette questo approccio, confermandone la suggestione presso gli addetti ai lavori. Tra i molteplici temi affrontati troviamo la ricostruzione storico-istituzionale degli apparati di controllo; l'analisi delle modalità di funzionamento delle istituzioni di controllo sociale; lo studio della formazione della gestione delle identità del deviante e la costruzione degli stereotipi relativi. Negli anni Sessanta questo orientamento è stato affiancato vigorosamente da un’ondata movimentista che ha coinvolto non poche categorie devianti con l'esigenza di mitigare l'ostracismo sociale ma anche professionisti ed operatori impegnati nelle attività di controllo sociale che sentivano il bisogno di sostituire i criteri tradizionali che guidavano il loro lavoro. Si sono formate delle organizzazioni critiche di settore nell'ambito della criminologia, del diritto e della psichiatria, mobilitate al fine di smantellare le strutture di controllo sociale, di promuovere il rinnovo dei paradigmi teorici e di far mettere radici ad una cultura della diversità che ha sorretto, ad esempio, sul piano internazionale il movimento per la liberazione degli omosessuali ed in molti casi ha travolto le vecchie forme di legislazione sull'organizzazione della vita nelle istituzioni totali come ospedali psichiatrici e prigioni. Queste strategie hanno incoraggiato importanti esperimenti innovativi anche al livello delle politiche sociali, sanitarie e carcerarie in molti paesi occidentali. Sia questi esperimenti di politica sociale sia la teoria del labelling che li ha ispirati sono tuttavia oggetto di critiche piuttosto dure che forse è opportuno ricordare brevemente, stante la decisiva influenza avuta dalla teoria dell'etichettamento a partire dagli anni Sessanta ad oggi.
Giovanni Gennaro ha raccolto in una forma sistematica le critiche principali riguardanti sia il piano del supporto empirico della teoria, sia il piano dei presupposti fondamentali e della ideologia che la orienta. I labellists svalutano oltre modo il dato relativo alla devianza primaria; non danno peso, cioè, al momento della prima crisi nel rapporto dell'attore con la norma: per la teoria dell'etichettamento, infatti, la vera devianza si ha solo nel momento in cui si concreta una reazione di controllo nei confronti dell'atto che si discosta dalla norma. Questa impostazione non è però da accettare in toto proprio perché la labelling theory non riesce a sostituire le teorie più tradizionali che si preoccupano invece di spiegare, in vario modo, specialmente quando non esclusivamente la devianza primaria. Altrettanto significative appaiono però le critiche relative alla validità della teoria sotto il profilo del suo supporto empirico. Ad esempio, una rassegna di molte ricerche dedicate alla malattia mentale ed alla sua istituzionalizzazione, curata da Walter Gove nel 1970 nella prospettiva della societal reaction, mostra che l'etichettamento non è un meccanismo che scatta immediatamente e sempre nei confronti di chi manifesta i sintomi della malattia. I meccanismi individuati dalla labelling si riscontrano specialmente per i casi estremi degli internati a lungo termine, e, dunque, la teoria troverebbe idonea applicazione solo per una parte di una fenomenologia invece assai varia e complessa. Anche il potere degli apparati di controllo appare tutt'altro che incontrastato o esente da possibilità di negoziazione, oltreché risultare correlato soprattutto con la propensione alla recidività. In sostanza tra le accuse principali si rintracciano quelle di un eccesso di relativismo e quella di un'indebita attribuzione di capacità di causazione all'etichettamento. Ancora: Lemert aveva definito la reazione sociale come « un insieme di processi tramite i quali le società rispondono ai devianti sia informalmente sia attraverso le loro agenzie ufficialmente delegate». Ebbene è stato autorevolemente notato che la nozione di reazione sociale «viene a beneficiare di uno spettro di referenza straordinariamente ampio, che va dalla diceria all'arresto» talché se da un lato ha permesso alla teoria di avere successo, dall'altro lato ne mina la solidità scientifica almeno sino a quando non vengano chiariti con più precisione il suo significato ed il suo ambito di applicazione (Gennaro 1993,pp.167-171). Infine, tra le critiche va citata per la sua rilevanza storica quella espressa nel 1974 dallo stesso Lemert; si tratta di una sorta di bilancio dell'efficacia della teoria effettuato da uno dei suoi inventori. Lemert include tra i lati deboli della labelling: un “estremo soggettivismo”; l'adozione spesso acritica del punto di vista del deviante; un sovradimensionamento dell'autoritarismo dell'establishment e dell'arbitrarietà della reazione sociale; l'uso di un linguaggio suggestivo ma metaforico che rimane prigioniero del deviant argot; ed infine l'evidenziazione del principale punto di debolezza nella derivazione della teoria dal pensiero di Mead che soffrirebbe non poco di ambiguità. L'interazionismo simbolico, con le sue ambiguità terminologiche e concettuali, produrrebbe le smagliature più gravi di cui soffre la labelling theory. Non è il caso in questa sede di andare oltre a ciò che è stato detto anche perché gli elementi sopra riportati sembrano sufficienti a chiarire l'originalità ma pure il relativo spessore di questa teoria che era stata adeguatamente etichettata come a new wave in sociology.


8. Le teorie radicali: devianza, controllo sociale e capitalismo

Negli anni Settanta e negli anni Ottanta la questione devianza viene ricollocata nell'ambito di un importante filone dell'analisi sociologica quello delle teorie conflittuali. Questa collocazione riporta la questione ad un livello macrosociale e rilancia l'interesse per i fenomeni di criminalità. In altre parole l'attenzione si focalizza su fenomeni e su processi che rappresentano la repressione istituzionale mentre restano in secondo piano i comportamenti non conformisti che avevano appassionato fino ad allora i sociologi della devianza.
Come è noto, la sociologia del conflitto presenta due versioni: una versione pluralista ed una versione marxista. La versione pluralista (o liberale, alla Dahrendorf) sottolinea la rilevanza delle dinamiche fra gruppi sociali in competizione per l'autorità. La versione pluralista, inoltre, prescinde sia dal riferimento ad una dimensione strutturale del conflitto sia da una valutazione adeguatamente critica dei reali interessi che vengono soddisfatti dal sistema giuridico. La soluzione dei problemi emersi per effetto del conflitto, d'altronde, viene coerentemente affidata alla mediazione politica ed al suo potere di riformare il quadro normativo. I paladini di questa versione sono i criminologi G.Vold e A.T.Turk. Per loro il crimine si collega direttamente e prevalentemente a situazioni di conflitto intergruppo e alla esigenza di pervenire a degli aggiustamenti reciproci tra i vari interessi di cui i diversi gruppi sono portatori. Il potere di produzione delle norme e della loro applicazione viene esercitato dalle autorità ufficiali; la criminalità è connessa ai conflitti normativi derivanti dalla eterogeneità dei sistemi di norme cui i soggetti fanno riferimento sulla base di una loro specifica caratterizzazione sociologica. Le probabilità di criminalizzazione varierebbero in funzione della forza a disposizione dei gruppi che confliggono; la criminalizzazione diventa spinta a carico dei gruppi attrezzati con minori risorse. Turk trascura la classe sociale come variabile cruciale per l'interpretazione del processo di criminalizzazione a favore di altre variabili quali il sesso, l'età e l'appartenenza etnica. Turk propone, a questo stesso proposito, una interessante distinzione fra processi di criminalizzazione innescati dalle istituzioni di controllo e i processi di stigmatizzazione che invece hanno un teatro sociale vasto. Oggetto del conflitto è qui il rapporto di dominio di alcuni (individui o gruppi) su altri, dunque un rapporto politico.
Alcuni critici ritengono che l'adozione di un modello del conflitto siffatto non rappresenta una reale alternativa: la devianza diventa un'espressione funzionale all'adattamento del sistema al modello dell'integrazione. Il processo di criminalizzazione viene ricondotto (e ridotto) all'affermazione dell'autorità da parte di chi ne è istituzionalmente il titolare. Comunque sia, le teorie del conflitto, nella versione pluralista, promuovono la sociologia criminale liberale rispetto alle teorie funzionalistiche nonché rispetto alle teorie della reazione sociale sopra esaminate. L'inquadramento della devianza e del crimine nell'ambito di difficile decodificazione delle relazioni di potere apre le porte, nel bene e nel male, alla fase successiva di affermazione delle teorie criminologiche radicali che propugnano un'altra versione della teoria conflittuale.
Karl Marx non si era mai occupato in forma sistematica né di devianza né di crimine eppure il suo pensiero ed il suo metodo vengono ripresi all'inizio degli anni Settanta da un gruppo di autori accomunati da un orientamento più radicale di quello della labelling theory, che viene denominato da alcuni Radical Criminology. La teoria dell'etichettamento viene politicizzata nel senso che la reazione sociale viene riferita quasi unicamente all'intervento repressivo dello Stato e nel senso che la devianza viene apprezzata in quanto azione politica contestatrice. La devianza viene considerata come "un'azione cripto-politica primitiva". Il 1973 è un anno importante per la definizione di questo nuovo orientamento, perché in questo stesso anno viene pubblicato il libro-manifesto di I. Taylor, P. Walton e J. Young, The New Criminology. Con questo libro la sociologia delle devianza statunitense ottiene un riconoscimento internazionale e si fonde con un omologo approccio di critica del diritto che aveva in Inghilterra le sue punte più avanzate. Da questa fusione nasce la piattaforma programmatica della criminologia critica, che diventa un indiscusso punto di riferimento generale per la sociologia della devianza del tempo.
Il marxismo classico in primis, l'influenza critica di Marcuse e della Nuova Sinistra formano un paradigma eterogeneo che collega devianza e controllo sociale alle caratteristiche strutturali del capitalismo. Gli elementi tipici dell'approccio dei radicals comprendono una visione conflittualista dell'ordine sociale basata sul principio della diseguaglianza e della divisione in classi sociali di matrice nettamente marxiana. La differenza tra le classi comporta lo sfruttamento della classe lavoratrice da parte di una classe dominante che controlla i mezzi di produzione e lo Stato. La devianza di conseguenza non si può concepire genericamente, così come non ha senso definire il crimine in termini meramente giuridici. La devianza è devianza di classe. E' crimine ciò che la classe dominante ha l'interesse a definire tale; ma il crimine è anche la reazione alle condizioni di vita proprie della classe sociale di appartenenza. La classe lavoratrice delinque perché attraverso il crimine trova una via di sopravvivenza a fronte delle sue misere condizioni di vita. D'altronde, il giovane Engels, nel suo saggio-ricerca su La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845), aveva descritto con grande efficacia come la classe operaia urbana ricorresse, saltuariamente e per necessità di sopravvivenza, al crimine e facesse della devianza uno stile di vita conseguente all’abbrutimento in cui era obbligata. Il crimine, dunque, viene riproposto come aspetto endemico della (ineluttabile) lotta di classe. Al punto che si arriva a sostenere in tutta tranquillità che nelle società socialiste ove il conflitto di classe è minore, minore sarà anche il tasso di criminalità. Ci si imbatte qui in uno dei punti deboli delle teorie radicali che conferiscono un alone romantico all'illegalità: la devianza è la vera sfida contro l'ordine capitalistico ed è da concepire come l'atto rivoluzionario per eccellenza.
Ma sarebbe riduttivo pensare che il marxismo ortodosso sia il solo filone che fa da framework al programma teorico di Taylor, Walton e Young. La nuova criminologia, infatti, ambisce a stabilire delle connessioni fra l'interazionismo, altri approcci interessati alla dimensione soggettiva e la teoria marxiana che guarda invece alla struttura della società. Questa “nuova” teoria della devianza e della criminalità, più specificatamente, vuol riportare le cause dell'azione deviante alle trasformazioni della società industriale avanzata e prospetta un'economia politica del crimine che rappresenterà, poi, al tempo stesso il suo limite. Diversamente dai sostenitori della social reaction si tratta di vedere la devianza come una soluzione consapevole (e libera) dei problemi posti da una società densa di contraddizioni. La dimensione politica di questo discorso viene chiaramente esplicitata perché lo scopo della New Criminology è quello di trasformare la società e di garantire il massimo di autonomia ai suoi membri. Si tratta di contribuire all'organizzazione di una società « nella quale il fatto che esista una diversità umana - sia essa personale, organica o sociale- non sia passibile di criminalizzazione da parte del potere» (Ibid., p.443).
I criminologi radicali sostengono che l'interesse dimostrato dagli altri studiosi e dagli opinion maker per il crimine degli emarginati è frutto di una scelta ideologica e di una manipolazione rivolte ad oscurare i crimini più importanti, quelli commessi dai proprietari dei mezzi di produzione e dai potenti. Questa impostazione tutta sbilanciata verso un'economia politica della criminalità cerca di ricostruire il senso del diritto penale come se fosse unicamente espressione dell'ideologia capitalista. Anche il criminologo tradizionale viene percepito come un tecnocrate al servizio degli interessi della classe dominante. Ne consegue che il criminologo radical abbandonerà il piano unicamente descrittivo del suo lavoro di studioso perché deve impedire che i potenti usino lo studio del crimine in una chiave prescrittiva e politica a fini unicamente repressivi. Viene ribadito che il capitalismo è criminogeno perché alimenta la diseguaglianza sociale, il degrado nel lavoro e la disoccupazione. Il criminologo arriva allora a prospettare soprattutto delle soluzioni di tipo politico espresse con particolare energia ma del tutto inconsistenti sul piano analitico. Un buon esempio viene offerto da asserzioni come questa di T.Platt per cui i veri crimini da combattere sono « l'imperialismo, il razzismo, il capitalismo, il sessismo e gli altri sistemi di sfruttamento che danno il loro contributo alle miserie umane e che privano la gente delle loro potenzialità umane ». La criminologia diventa un progetto politico che non si preoccupa di rendere empiricamente verificabili le sue principali asserzioni. Seguendo questo approccio ci si dovrebbero aspettare alti tassi di devianza per i membri della working class; i dati empirici smentiscono, invece, l'ipotesi senza ombra di dubbio: la classe operaia non è mai stata né diventa la punta di diamante di un movimento fatto da criminali politicizzati. All'opposto la ricerca empirica dimostra che nell'ambito della working class allignano atteggiamenti conservatori e fin reazionari di accettazione della gerarchia, di xenofobia, di favore per la pena di morte et similia. In generale comunque non sono stati dimostrati legami diretti ed univoci tra devianza e capitalismo; inoltre, la crisi della congiuntura culturale che alimentava politicamente la New Criminology in Europa e negli Usa ha creato tra le file di questo gruppo serio disorientamento ed attualmente i radicals stanno riconsiderando un po' tutto l'impianto del loro discorso sul crimine.


9. Dal realismo di sinistra al discorso di Foucault

Il panorama attuale si caratterizza per la decisa inclinazione alla coesistenza dei differenti paradigmi esaminati. La sociologia della devianza e del crimine prosegue il suo cammino in maniera sincretica; parti degli approcci esaminati vengono combinate fra di loro nello sforzo di aprire nuove e più adeguate possibilità euristiche. Questa frenesia della sintesi combinatoria denuncia, tuttavia, la mancanza di idee originali e non porta a grandi risultati. D'altronde ogni teoria nasce come espressione di una data congiuntura per fare fronte a bisogni specifici della comunità scientifica e del quadro societario nel quale opera. Confondere un approccio con un altro significa perdere le rispettive specificità e proporre una teoria integrata non vuol dire certo eliminare i punti deboli di ogni teoria. Come probabile effetto di questa incertezza gli anni Ottanta vedono una decisa affermazione della criminologia realista negli Usa e della criminologia amministrativa in Inghilterra. Due etichette che riguardano un analogo atteggiamento di diffidenza verso la spiegazione sociologica della devianza e una domanda per l'implementazione di una politica penale intransigente ove le misure operative di polizia devono rappresentare un deterrente con il massimo grado di efficacia. La criminologia realista (o amministrativa) rappresenta il trionfo del pragmatismo. I governi conservatori dello stesso decennio optano - in sintonia con questo approccio - per una maggiore articolazione delle tecniche di prevenzione e di controllo. Naturalmente gli esponenti della criminologia radicale cercano di reagire e di trovare un percorso che presenti delle alternative al conservatorismo pragmatico. Questa nuova via viene denominata realismo di sinistra o realismo radicale ed il suo programma si articola in parte riprendendo vecchie idee, in parte proponendone di nuove, comunque sia nell'alveo di un'impostazione realista.
Il realismo di sinistra (così detto perché ostile ad una criminologia realista conservatrice) pretende di inquadrare l'azione criminale nella sua interezza sia ad un livello macro sia ad un livello micro, di esaminare tutti lati del quadrato, aggressore, vittima, Stato e società, nonché di valutare adeguatamente le cause dell'azione criminale e della reazione sociale conseguente. Ciò significa, in concreto: a) affrontare di nuovo il problema dell'eziologia del crimine. La matrice capitalista dell'azione deviante è considerata accanto ad altri problemi sociali e soprattutto tra gli effetti dipendenti dalla deprivazione relativa tipica di aree subculturali specifiche; b) costruire una seria vittimologia capace di considerare anche chi è stato danneggiato dal crimine al fine di evitare l'enfatizzazione della questione criminale oggetto di campagne di allarme sociale politicamente interessate; c) prevenire l'effetto distorcente dei mezzi di comunicazione di massa che gonfiano la questione criminale al di là della sua effettiva consistenza e, soprattutto, alterano la corretta percezione del fenomeno e delle sue caratteristiche costitutive; d) attuare una strategia di democratizzazione degli istituti che trattano la questione criminale evitando l'errore di una politica abolizionista, che per l'appunto non è realista. Gli obiettivi prioritari dei fautori di questo approccio sono quelli di ridefinire le strategie di intervento della polizia alla luce di un severo controllo democratico e di promuovere dei meccanismi alternativi a quelli adottati dal sistema di giustizia penale formale incoraggiando la mediazione e l'intervento della comunità. I lati deboli dell'approccio realista sono piuttosto trasparenti. Ci si limita qui a considerare la questione eziologica che i realisti affrontano in maniera semplicistica affidandosi unicamente a due categorie: il discontent e la deprivazione relativa senza illuminare la relazione tra questi concetti, le situazioni cui sono socialmente connesse e l'insorgere della devianza. E' evidente che scontento e deprivazione relativa sono presenti in molti casi ma non sempre producono devianza. Anche la proposta insistente di responsabilizzare la polizia che ambisce a diminuire le chance di vitimizzazione dei poveri si trasforma in un'enfatizzazione gratuita della deterrenza.
Stimolati da questo approccio i fautori della criminologia critica hanno ulteriormente articolato il loro punto di vista sulla devianza e sul crimine. In particolare, pur mantenendo un interesse spiccato per la costruzione sociale della criminalità e per gli effetti concreti che ne discendono, il tema dei mass-media e di come il loro intervento manipoli la opinione pubblica acquista una centralità che non aveva mai avuto in precedenza. L'enfasi posta eccessivamente a carico della violenza criminale ha la funzione di nascondere altre forme di violenza assai più devastanti. Inoltre i mass-media attivano un meccanismo di definizione pubblica del criminale come capro espiatorio. Il criminale è presentato come il diverso contro il quale bisogna organizzare una convergenza generalizzata: la società non funziona perché il diverso ne blocca gli ingranaggi più delicati. In questo modo si evita di prendere coscienza del fatto che oltre alla diversità tra il deviante e l'uomo della strada sussistono anche non pochi caratteri comuni. L'interazionismo aveva già definito la criminalità come il frutto di valutazioni maturate nell'ambito del generale processo di comunicazione sociale. La costruzione sociale della criminalità ha oggi una dimensione di marcata artificialità che richiede secondo i sostenitori di questa nuova fase della criminologia critica una comunicazione libera del potere nel senso propugnato da Habermas.
La ricerca di nuovi paradigmi idonei ad interpretare la devianza, il crimine e le correlate tecniche di controllo sociale in una società complessa non può trascurare l'apporto di Michel Foucault. Anche se non è un sociologo stricto sensu, la sua riflessione è straordinariamente ricca di prospettive e permette di intraprendere nuovi ed utili percorsi. E' giocoforza in questa sede condensare l'analisi su pochi punti specifici ma cruciali. La relazione tra sapere e potere trova una specificazione importante nella formazione della criminologia come scienza che si accompagna alle dinamiche materiali di esclusione. Foucault non si impegna nella validazione di questa o di quell'altra teoria sull'eziologia del crimine ma piuttosto in una ricostruzione genealogica che approderebbe alla spiegazione del perché quella data teoria ha funzionato ed è stata recepita come produttrice di verità. Seguendo questo punto di vista si rendono problematiche le discipline ed i concetti che le costituiscono nel senso che “gli effetti di verità” sono generati sociologicamente in corrispondenza alle esigenze del potere che è ovviamente interessato a produrre una data verità. Viene così sottolineato come le scienze sociali - dalla statistica alla criminologia - siano nate nell'ambito di speciali istituzioni di potere. Le categorie conoscitive vengono elaborate mentre si provvede alla costruzione delle scienze sociali con l'intento di gestire gli individui trasformandoli in soggetti, dalla soggettività depotenziata, per disciplinarli con una metodologia adeguata alle esigenze della società che sono esigenze di normalizzazione.
La tesi di Sorvegliare e punire è che «le scienze dell'uomo non siano separabili da quei rapporti di potere che le rendono possibili »; anche le pratiche di punizione emergono all'interno di un rapporto di forza che viene ulteriormente consolidato dalla definizione delle stesse pratiche. La classificazione del deviante tramite la ricerca scientifica prima e le misure di controllo dopo presentano la devianza come una questione sociale da governare. Come si sa, Foucault riduce il potere ad un reticolo di punti in costante movimento; vale a dire che il potere è esteso e comprensivo di ogni relazione sociale. Questa concezione del potere, come potere diffuso in forma capillare, si riflette sul modo di concepire la fenomenologia deviante per lo meno in due modi: a) la marginalizzazione di alcune categorie sociali viene a dipendere non solo dalle istituzioni deputate al controllo sociale ma anche dalle reti relazionali che le circondano; b) la diffusione capillare del potere conferma la perdita di centralità dei sistemi di controllo sociale e di disciplina del deviante. La società moderna, in quanto società che tende alla normalizzazione, si fonda sul sapere disciplinare e su un discorso che è quello della norma intesa, però, in un senso che travalica i confini ristretti della regola giuridica. Il codice della normalità si collega ad un orizzonte teorico dominato dalle scienze sociali. Le tecniche giuridiche per la prevenzione ed il controllo perdono spazio a vantaggio di una articolazione complessa di strumenti disciplinari adottati nei confronti dell' universo deviante che, a sua volta, si complessifica. La conseguenza di questa degiuridificazione del controllo sociale è il lassismo dell'intervento istituzionale, surrogato tuttavia da strategie di controllo pervasive dell'intera sfera di vita del deviante con la perdita di quel garantismo di cui beneficiava in un regime esclusivamente giuridico.
Un altro topos classico riguarda la prigione, cioè il luogo dove da sempre si gestiscono le manifestazioni criminali che Foucault chiama gli “illegalismi”. La prigione ha una funzione latente, assai più significativa di quella manifesta che è volta a punire e a riabilitare. Questa funzione latente si evidenzia riflettendo sul dibattito che costantemente, da due secoli a questa parte, ne critica l'organizzazione e i metodi che la governano. Nel capitolo di Sorvegliare e punire dedicato agli “Illegalismi” ed alla delinquenza Foucault rileva gli elementi costitutivi del sistema carcerario: «il sistema carcerario unisce in una medesima configurazione dei discorsi e delle architetture, dei regolamenti correttivi e delle proposizioni scientifiche, degli effetti sociali reali e delle utopie invincibili, dei programmi per correggere i delinquenti e dei meccanismi che solidificano la delinquenza. Il preteso scacco non fa allora parte del funzionamento della prigione?» (pp.289-290). La gestione della pena non avrebbe una banale funzione di repressione ma assolverebbe ad una più complessa funzione di gestione economica degli illegalismi e di produzione controllata della delinquenza e di una sua riproduzione, politicamente orientata. La prigione fallisce solo in apparenza; lo scopo principale viene perseguito ed è quello di alimentare « una forma particolare di illegalismo, che essa permette di separare, di porre in piena luce e di organizzare come un ambiente relativamente chiuso, ma penetrabile. Essa contribuisce ad organizzare un illegalismo vistoso, definito, irriducibile...; essa disegna, isola e sottolinea una forma di illegalismo che sembra riassumere simbolicamente tutte le altre, ma che permette di lasciare nell'ombra quelle che si vogliono o che si devono tollerare» (p.304). L'amministrazione della giustizia e l'azione della polizia concorrono con la prigione nella gestione degli illegalismi. Si salda con il ruolo svolto da queste istituzioni il ruolo svolto dai mass-media mirato alla rappresentazione della delinquenza. In particolare la cronaca nera dei giornali determina una data percezione della delinquenza presso l'opinione pubblica. Secondo Foucault la funzione della stampa converge con quella della prigione nell'oscurare il senso sociale della delinquenza che, come gli altri illegalismi, affonda le sue radici nella condizione di esclusione e di povertà. L'importante è che non maturi nella coscienza degli strati popolari l'idea che sussiste una saldatura tra gli illegalismi di natura criminale e gli illegalismi di matrice politica animati da senso dell’eguaglianza.
In breve, la ricerca storica di Foucault propone una chiave di lettura ed un ulteriore approfondimento dei problemi della devianza adeguata alla complessità del presente lungo queste tematiche: a)l'intreccio tra la disciplina criminologica e le relazioni di potere vede il sapere disponibile a conferire legittimazione alla gestione della devianza secondo una logica di rafforzamento reciproco; b) l'effetto-verità attribuito ad alcune teorie sulla devianza, il feticismo verso i dati quantitativi e il riduzionismo interessato dei mass-media convergono nella formazione di un dato tipo di politiche di controllo; c) la diffusività di un potere capillare oggettiva la condizione del deviante e lo marginalizza anche presso ambienti sociali che dovrebbero partecipare della sua esclusione, invece di inasprirla paradossalmente.


10. Le teorie dell'azione razionale

Fino agli anni Settanta, fra i teorici della devianza, solo Matza, con il concetto di deriva, aveva messo l'accento sulla volontarietà della decisione di compiere un atto deviante. A partire da questo periodo la riflessione sociologica sulla devianza affronta il tema della responsabilità individuale. Contemporaneamente si risveglia anche fra gli economisti l'interesse per il tema della criminalità, che viene affrontato in base all'assunto comportamentista proprio della disciplina, per il quale la decisione di compiere un reato va analizzata come di natura strettamente razionale, e, quindi, in termini di opportunità, costi e benefici. In questa ottica, il genere di considerazioni e di valutazioni che motivano un individuo a compiere un atto deviante non differiscono da quelle che indirizzano qualsiasi tipo di scelta. Un soggetto intraprende la carriera deviante quando la remunerazione del reato è maggiore di quella derivante dal lavoro legale, tenendo conto della probabilità di cattura e di condanna e della severità della pena (G.S. Becker 1968).
Le teorie sociologiche dell'azione razionale, sviluppatesi negli ultimi venti anni, propongono una lettura della devianza, che prescinde dalla distinzione fra normalità e patologia. Questa corrente recupera la teoria classica, che guarda al reato e attribuisce al soggetto deviante il libero arbitrio e la responsabilità delle decisioni, e si distacca dalla teoria positivista, che concentra l'attenzione sul deviante, trascurando l'atto, le modalità, le condizioni e le opportunità, e tende a definire il deviante come ricettore passivo di pressioni esterne. Per spiegare la devianza vengono accolti due presupposti: a) la devianza deve essere considerata un'azione; b) in quanto azione deve essere compiuta in modo tale da renderne riconoscibile il carattere deviante sia da parte di chi la realizza che da parte di chi la subisce, la osserva o la reprime. L'assunto di base di questo approccio è che, dal punto di vista dell'attore, l'atto deviante risponde a criteri di razionalità. La devianza in quanto attività pratica richiede da parte di chi la realizza una determinata competenza. La devianza viene definita come un'azione metodicamente organizzata che l'individuo può esplicitare dandone una descrizione intelligibile: il deviante sa quello che fa e sa come farlo. La razionalità si esprime sia sul piano dell'azione, attraverso la congruenza fra fini e mezzi della devianza, sia su quello cognitivo, attraverso la coerenza fra credenza, azione e rappresentazione dell'azione.
Le principali teorie che hanno adottato uno dei due schemi di analisi della devianza basato sull'assunto della razionalità dell'individuo sono la teoria degli stili di vita, la teoria delle attività di routine e la teoria cognitiva. La teoria delle attività di routine (Cohen e Felson 1979) si propone di individuare i fattori che influiscono sulla decisione di commettere un atto deviante. Questo approccio, che ha conosciuto un notevole successo negli anni Ottanta, si riallaccia ad altre impostazioni che hanno ricevuto nuovo impulso dagli studi di questo periodo, la vittimologia, che studia le vittime e le condizioni di vita e la teoria ecologica. Nella teoria delle attività di routine il livello di devianza in una società dipende dalle modalità dell'interazione sociale nella vita quotidiana, che si strutturano nelle attività quali il lavoro, l'uso del tempo libero, la disponibilità e la cura dell'alloggio, l'allevare figli, gli acquisti, ecc. Sono le attività di routine a mettere in contatto aggressori e vittime. Perché si compia l'atto criminale sono necessari più elementi: aggressori motivati, obiettivi o vittime designati (un bene da prendere, una persona da assalire) e assenza di guardiani (i poliziotti, ma anche tutti coloro, parenti, amici passanti, la cui presenza agisce come deterrente). L'incontro fra questi elementi avviene durante lo svolgimento e grazie alle attività di routine. Le differenze e i cambiamenti delle routine determinano le diverse probabilità rispettivamente di compiere e di essere vittime di atti criminali. Certi soggetti o certi luoghi sono più esposti alla criminalità rispetto ad altri a causa delle modalità di interazione sociale e degli schemi di routine. Per la comprensione del comportamento deviante occorre, dunque, considerare non solo la prospettiva del deviante - le sue caratteristiche così come le sue motivazioni -, ma anche gli altri elementi del contesto in cui l'atto avviene: la presenza di qualcosa o di qualcuno cui l'atto deviante si indirizza e l'assenza di controlli o di fattori di contesto inibenti la devianza. Se manca uno solo dei tre elementi indicati il reato non può avvenire. Il fuoco dell'analisi in questo approccio alla devianza è nell'atto, piuttosto che nell'attore. La semplice disponibilità a compiere l'atto deviante da parte del soggetto non è sufficiente per determinare l'effettivo accadimento del reato.
La teoria degli stili di vita utilizza il concetto di rischio per spiegare la vittimizzazione. L'attenzione si appunta non sugli autori dei reati ma sulle vittime degli atti criminali. La probabilità di rimanere vittima di un reato è legata allo stile di vita adottato dall'individuo. Ma lo stile di vita, che comprende sia le attività di lavoro che quelle del tempo libero, dipende dal ruolo sociale, dalla posizione nella struttura sociale e dalla componente razionale delle scelte di comportamento. Le esperienze di vittimizzazione sono, dunque, prevedibili, sulla base delle variazioni degli stili di vita indotti dalla collocazione sociale degli individui.
Vari approcci confluiscono nella categoria delle teorie cognitive. Walters e White (1989) affermano il ruolo della cognition nel determinare le forme di attività degli individui. I fattori ambientali e sociali modellano solo indirettamente il comportamento individuale, ponendo dei vincoli. La devianza non è determinata dai condizionamenti esterni al soggetto, bensì dall'irrazionalità e dall'inadeguatezza degli schemi mentali adottati dal deviante. Alla base del comportamento deviante vi sarebbe il mancato sviluppo della cognition.
Altre ricerche sulla delinquenza e sul consumo di droghe hanno adottato lo schema della razionalità cognitiva, respingendo la tesi dell'irresponsabilità del deviante e attribuendo al soggetto l'intenzionalità nel compiere l'azione e la capacità di riconcettualizzare la propria esperienza di devianza. La questione dell'abbandono della devianza, ad esempio dell'uscita dalla tossicomania, viene riformulata in termini di mobilitazione delle capacità razionali del soggetto, il quale riconosce la differenza fra la propria condizione e lo stato di normalità, in quanto dotato di riflessività e partecipe in qualche misura del sistema normativo vigente.
Le teorie razionali recuperano la prospettiva teorica della scuola classica, che analizza la devianza a livello micro e fa discendere il comportamento deviante dalla decisione libera e autonoma dell'individuo. In alcune versioni l'attenzione alla natura individuale della scelta deviante si coniuga con la considerazione del contesto in cui la devianza ha luogo.


11. Genere e devianza

La constatazione empirica del fortissimo squilibrio numerico fra donne e uomini devianti ha introdotto , nel corso degli ultimi decenni, negli studi criminologici la prospettiva di genere, a lungo trascurata, ed ha di conseguenza incoraggiato una teoria della criminalità femminile.
Le teorie della criminalità femminile elaborate negli anni Settanta leggono i mutamenti nella propensione delle donne alla devianza all'interno del processo generale di cambiamento della condizione femminile. Secondo un primo approccio l'inserimento della donna nella società ne comporta la maschilizzazione, che, tra l'altro, si traduce nel più frequente coinvolgimento in attività criminali. Una variante di quest'approccio fa riferimento alle opportunità di commettere un atto deviante: la partecipazione alla vita sociale e al mondo del lavoro, favorendo le occasioni di devianza, dovrebbe portare ad una crescita del tasso di criminalità femminile. Tuttavia né l'una né l'altra teoria hanno trovato dei validi riscontri empirici.
Rispetto alle teorie sulla criminalità femminile, gli approcci alla devianza che fanno uso del concetto di genere si propongono di spiegare sia il comportamento maschile che quello femminile. Hagan (1989) sostiene che per spiegare il fenomeno della delinquenza occorre guardare al modo in cui la struttura di classe della famiglia modella la riproduzione sociale delle relazioni di genere, che a sua volta condiziona la distribuzione sociale della delinquenza (teoria del controllo del potere). Le modalità attraverso le quali i genitori assolvono i compiti di assistenza, di protezione e di socializzazione dei bambini ai ruoli della vita adulta, producendo differenze di genere relative all'accesso a determinati tipi di attività con margini di libertà o contenuti di rischio elevati, si traducono in una più forte esposizione degli uomini alla devianza e in una maggiore protezione delle donne dalla stessa. Il divario di genere nel comportamento deviante si allarga in presenza di strutture familiari patriarcali e si restringe quando si diffonde il modello egualitario di famiglia.
All'interno della produzione scientifica sulla devianza nella prospettiva di genere un ampio spazio non possono non occupare le teorie femministe, che si sono diversificate seguendo vari indirizzi analoghi a quelli della criminologia tradizionale (femminismo liberale, radicale, marxista e socialista).


12. Le prospettive teoriche più recenti

Negli anni ottanta diversi studiosi hanno concentrato i loro sforzi nella direzione dell'integrazione delle diverse teorie. Se si considerano i singoli approcci come pertinenti a distinti ambiti di spiegazione, la composizione delle singole teorie in un complesso coerente può determinare un significativo avanzamento disciplinare (Short 1989). Su posizioni estremamente critiche rispetto a questi progetti si colloca, invece, Hirschi (1979), che reputa quella dell'integrazione una prospettiva sterile, perché le teorie non sarebbero effettivamente conciliabili, e ritiene che si debba piuttosto puntare a costruire nuove teorie.
Fra i modelli teorici che seguono la strada dell'integrazione i più recenti sono la teoria delle subculture degli adolescenti e la teoria della vergogna differenziale. La prima cerca di spiegare la delinquenza delle classi medie, che sembra smentire il paradigma interpretativo delle teorie del controllo sociale, secondo il quale la delinquenza deriva da una insufficiente socializzazione, utilizzando i concetti di conflitto, subcultura e rete dei pari (Schwendinger e Schwendinger 1985). L'ipotesi esplicativa avanzata dagli autori mette in luce il ruolo del capitalismo nel generare atteggiamenti di tipo individualistico e competitivo negli adolescenti, che sono in tal modo orientati a privilegiare in ogni caso i propri bisogni. Secondo gli autori fra gli adolescenti sono distinguibili tre subculture stratificate per classe ("persone in vista", "intermedi", "ragazzi di strada"), che esprimono forme diverse di criminalità. Allargando la definizione di delinquenza ai reati tipici degli adolescenti delle classi superiori, emerge una somiglianza fra le violenze delle bande di strada e i comportamenti devianti adottati nelle classi elevate.
La teoria della vergogna differenziale è stata elaborata da Braithwaite (1989), come sviluppo della teoria dell'etichettamento, per superare l'impasse teorico posto dalla necessità di spiegare in che modo l'individuo viene orientato verso la devianza. Perché si determini un comportamento criminale, è in primo luogo necessario che le opportunità legittime siano sostituite da quelle illegittime. Ciò avviene nell'ambito di una subcultura che induce nell'individuo l'apprendimento differenziale e la trasmissione di valori conformi alla subcultura e in contrasto con l'ordinamento dominante. Braithwaite spiega l'influenza esercitata dalla subcultura con la capacità che essa ha di produrre negli individui sentimenti di vergogna analogamente a quanto fa l'ordine morale vigente.
Una direzione di analisi interessante è stata aperta dalla teoria soggettiva, di impostazione fenomenologica, che esplora le motivazioni e gli intenti dei devianti con l'ausilio di metodologie di tipo qualitativo (Katz 1988). In questo approccio vengono messi in discussione alcuni assunti sia della criminologia positivista sia della teoria classica e delle teorie dell'azione razionale. Riguardo alla prima, viene messa in discussione la relazione fra le caratteristiche sociali e l'ingresso nella devianza: molte delle persone che per i loro tratti sono potenzialmente dei criminali non giungono alla devianza e, viceversa, compiono atti devianti soggetti privi delle caratteristiche ritenute predisponenti. Riguardo al secondo gruppo di teorie, la prospettiva fenomenologica reinterpreta la situazione deviante dal punto di vista del soggetto. Viene affermato il presupposto che la razionalità del deviante non può essere assimilata a priori a quella della vittima o dell'osservatore ma deve essere tenuta distinta. Inoltre nell'impostazione scelta da Katz le motivazioni che spingono l'individuo alla devianza non sono riducibili ai benefici di natura materiale, economica o finanziaria; certi eventi e situazioni tipicamente devianti esercitano un particolare fascino seduttivo sull'individuo, in quanto gli offrono un'occasione di divertimento, di eccitazione o di piacere, gli permettono di sottrarsi a vincoli e restrizioni o di superare un'umiliazione, mettono a sua disposizione un'identità nuova. Allontanandosi dalla vita normale e assumendo il carattere dell'imprevedibilità e della caoticità, il deviante diventa estraneo alle vittime e si attribuisce una prospettiva di superiorità morale sulla vittima designata. Tendenzialmente il reo si costruisce un proprio mondo. Questa ricostruzione del significato e delle condizioni della devianza dal punto di vista del soggetto, per la metodologia adottata, non è generalizzabile al complesso o comunque a gruppi o categorie individuate di devianti.

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