A marzo il governo birmano ha liberato due intellettuali dal carcere. “Scrivevamo su muri con sassi e pezzi di ferro. Oppure componevamo a mente”, dicono. Sono almeno 1500 i prigionieri politici nel Myanmar (ex Birmania), guidato da un regime tra i più feroci al mondo.
Il vento muoveva le foglie, sua sorella gli parlava, ma Kyaw San, birmano, poco più che trentenne, sentiva a malapena. Sette anni di prigione fatti di botte, freddo e fame l’avevano indebolito e i colpi alla nuca, ricevuti durante gli interrogatori, gli avevano provocato una semi sordità. La luce del sole, già forte agli inizi di marzo in Birmania - o Myanmar come fu rinominato il Paese nell’89 dalla giunta - lo accecava. Aveva passato mesi in celle senza finestre, potendo uscire nel cortile del carcere solo due volte al giorno. Finalmente, il 1° marzo scorso, abbandonò quell’inferno. Non aveva smesso di sperarlo neanche per un momento. “Non ha mai perso il suo spirito combattivo e il suo umorismo”, dicono i compagni liberati prima di lui. Qualche ora dopo, il segretario generale dell’Onu per il Myanmar, Rizali Ismail, avrebbe incontrato il premier birmano Kyn Nyunt per chiedere il rispetto dei diritti civili nell’ex Birmania. A qualche centinaio di chilometri, quello stesso giorno, veniva rilasciato un amico e collega di San, Aung Zin Min: più grande di lui (58 anni), ma con la stessa corporatura esile e un’uguale sofferenza nel cuore.
San e Min furono arrestati da alcuni agenti dei servizi segreti militari (MIS) nel 1996, anno di disperate manifestazioni studentesche contro il regime. I militari al potere li attaccarono per le loro opinioni. San faceva il poeta e il giornalista per una rivista culturale. Aveva anche un nome d’arte,: Cho Seint. Min, invece, si divideva tra l’impiego di contabile e quello di collaboratore per il magazine New Style. Nel febbraio 1997 un tribunale speciale, composto da due ufficiali e un agente dei servizi d’intelligence, li condannò a sette anni di carcere, citando l’articolo 5 di una legge d’urgenza del 1950: “Sette anni è la pena massima per chiunque oltraggia i valori morali o mette a rischio la sicurezza e la ricostruzione dell’Unione birmana”. Questo, secondo i militari, avrebbero fatto Cho Seint e Min scrivendo alcuni articoli favorevoli alle rivolte degli studenti.
I due uomini, poi, vennero divisi e mandati in carceri isolate a nord della capitale Yangon. Cho Seint, gli occhi neri e i tratti sottili, racconta di essere stato interrogato e torturato per settimane, prima del processo: “Mi hanno fatto spogliare e picchiato per due mesi”. Un anziano giornalista, detenuto nello stesso luogo di Cho Seint, aggiunge: “Gli agenti del MIS mi portavano in una stanza buia a qualsiasi ora del giorno e della notte. Una volta erano le cinque del mattino. Un’altra, poco prima dei pasti. Mi hanno costretto a rimanere per decine di ore senza mangiare e senza lavarmi”. Gli fa eco un altro ex reporter: “Ogni volta che venivano a prendermi, iniziavo a tremare. Quando minacciavano di uccidermi, credevo di morire per la paura”.
Nonostante le fitte al ventre e la dissenteria acuta, Cho Seint, nel giugno ’98, partecipò a uno sciopero della fame. Insieme ad altri prigionieri riuscì così ad ottenere qualche razione in più d’acqua e il permesso di lasciare la cella due volte al giorno. Non fu mai visitato per la sua malattia fino all’arrivo, quello stesso anno, dei rappresentanti della Croce Rossa internazionale (CICR). I membri dell’organizzazione umanitaria erano assenti dal Myanmar da tre anni. Grazie alle pressioni della CICR, da allora il ragazzo ricevette la visita dei famigliari ogni due settimane. Cho Seint aveva dai dieci ai venti minuti per salutarli. Su una cassetta le guardie registravano le loro conversazioni. Anche Min si ammalò. Durante la prigionia, soffriva di terribili emicranie, dissenteria acuta e dolori articolari, soprattutto d’estate quando le temperature salivano oltre i 40 gradi. L’alimentazione e le condizioni sanitarie nelle prigioni birmane sono molto al di sotto delle regole internazionali stabilite dalle Nazioni Unite. I detenuti ricevono quotidianamente due ciotole di una poltiglia annacquata di riso e pesce molto salati. L’assistenza medica è praticamente inesistente. “All’infermeria del carcere avevano solo del paracetamolo. Ho visto dare un’aspirina a chi era in punto di morte”, dice un ex carcerato. Gran parte dei prigionieri soffrono di disturbi cardiaci e ipertensione. Secondo l’Associazione d’assistenza ai prigionieri politici birmani (AAPPB), con sede a Mae Sot (nord della Thailandia), un numero imprecisato di questi sarebbero morti di Aids: “Avevano contratto il virus dalle siringhe usate nell’ospedale del carcere”.
Una volta Min passò alla moglie, venuta a trovarlo, dei frammenti di plastica con incisi alcuni versi. Una guardia se ne accorse e lo privò di ogni visita per un mese. Per i due amici era impossibile dimenticare di essere poeti: “ In prigione non era concesso tenere penne, matite e fogli. Perciò– spiega Cho Seint – componevamo a mente. Poi recitavamo le poesie ai nostri compagni. Era l’unico modo per tramandarle. Alcuni poeti scrivevano anche sui muri con pietre appuntite o pezzi di ferro. Purtroppo, le guardie intervenivano subito, facendo cancellare ogni scritta”. Solo nel 1999, le autorità hanno concesso ai detenuti di leggere testi religiosi. Ma resta il divieto di scrivere, ascoltare la radio o discutere di “temi sensibili”.
Cho Seint non riesce a immaginare il suo futuro da uomo libero: “Se non mi permetteranno di scrivere – dice – comporrò solo per me stesso”. Poi ricorda il giorno del processo farsa. La sala del tribunale non era grande circa 30 metri quadrati. Appesi alle pareti c’erano una bandiera dell’Unione Birmana e un ritratto degli eroi dell’indipendenza. Il giudice e tre ufficiali esaminarono il caso di Cho e quello di Min uno alla volta. Poi annunciarono i capi d’accusa. I due condannati sentirono gambe e braccia diventare pesanti come marmo. “Abbattuti per la gravità della pena, non abbiamo reagito. Ci siamo fatti riportare in silenzio nelle nostre celle”, dichiarano. Per una tragica ironia della sorte, il giovane Cho Seint è stato giudicato colpevole davanti alle icone di coloro che, insieme al nonno Thakin Kotaw Hmime, liberarono la Birmania dagli inglesi nel lontano ‘47.
Sono almeno 1500 i prigionieri politici nelle carceri birmane. Tra questi il più anziano è il giornalista Win Tin, 74 anni. Fu arrestato nel 1990 al tempo della rivolta del partito democratico birmano di Aung San Suu Kyi, Nobel per la Pace nel ’91 tuttora agli arresti domiciliari.