"Tanto non sento più nulla", così ripeteva mentre con un coccio di
bottiglia si sventrava. Aveva gli occhi in tralice mentre diceva ancora:
"Quelli solo così li smuovi, solo così". Anni ed anni di reclusione avevano
anestetizzato il suo corpo.
L'idea che non ci fosse altro modo per muovere all'attenzione i carcerieri,
in lui s'era fatta programma. Di quel programma, appreso e replicato, nelle
cicatrici che istoriavano i suoi polsi, gli avambracci, il torace, l'addome,
restava esposta a tutti la memoria.
Quel pomeriggio come tanti altri egli aveva inciso nella carne la semplice
richiesta di un trasferimento. Ci vollero diciassette punti di sutura per
ricucire il
"sollecito" di una traduzione tardiva.
Come non ricordare, qui, gli ospiti dell'asilo londinese di Santa Maria di
Bedlam, cantati da William Shakespeare nel Re Lear?
"Si ficcano ruggendo nelle misere carni delle braccia stecchite e
intirizzite spilli, schegge di legno, chiodi, stecchi di rosmarino; e in
tale orrendo arnese vagano per fattorie disperse e terre magre, per ovili e
mulini, e strappano, ora implorando, ora imprecando, quel poco d'elemosina".
Fachirismo - in psichiatria, tendenza a compiere atti analoghi a quelli
caratteristici dei fachiri. L'appropriazione psichiatrica della parola
faquir non si è fermata però all'analogia. Nel nuovo contesto di discorso,
il fachirismo, infatti, ha perso la sua anima: il
daimon
dell'identificazione. E, da transe identificatoria, si è trasformato in
semplice esibizione desacralizzata di autolesionismo. Il fachirismo dei
reclusi, privato di ogni connessione con l'istituzione arcaica del
sacrificio, viene così rappresentato come un atto demente.
Anche Aldous Huxley, nella sua riflessione sulle modalità
dell'autotrascendenza, colloca questa
"violenza verso l'interno" nel
paragrafo sull'autotrascendenza discendente. L'autotortura sarebbe così un
movimento
"verso uno stato meno che umano, più basso del personale",
un'evasione degradante dall'io verso una condizione di puro tormento fisico.
Eppure, eppure...
La parola
faquir deriva dall'arabo e significa povero. Gli affiliati ad
alcune confraternite mussulmane,
Rifá'yya in Iraq e
Isáwiyya in Algeria e
Marocco, ad esempio, assai note proprio per la spettacolarità impressionante
delle loro transe fachiriche, certo non sono ricchi. Ma non è questo il
punto.
Qualificante del fachirismo, infatti, è piuttosto l'identificazione
dell'adepto con un antenato mitico, un dio, un fondatore eroico della
confraternita. Identificazione nel corso della quale il suo corpo viene
"posseduto" e ripete le gesta mirabolanti che a quel dio, a quell'antenato
mitico, a quel fondatore eroico vengono attribuite.
Così i dervisci
Rifá' yya padroneggeranno il ferro facendosi trafiggere,
nella condizione di transe, con uno spadino in vari punti del corpo senza
perdere sangue. Oppure domineranno il fuoco rotolandosi nella brace e
mettendo in bocca tizzoni ardenti senza riportare ustioni.
Vi sono però altri tipi d'identificazione che danno origine anch'esse a
transe fachiriche. Nello Sri Lanka i
Katugabana miníssu, uomini della
penitenza, delle tribù Tamil, vengono posseduti dal dio Skanda nel corso di
riti di espiazione per antiche colpe. Questi contadini indù, in segno di
devozione e per ottenere il perdono del dio Skanda, non riconosciuto quando
s'incarnò tra loro, si fanno appendere nel vuoto con grandi uncini
conficcati nella pelle della schiena e delle gambe, si trafiggono le labbra
con frecce e spille, camminano su un tappeto di braci roventi. Senza subire
ustioni. Senza versamenti ematici. Senza manifestare dolore.
Nell'Europa dei Lumi spiccano poi le transe fachiriche di identificazione
con il Cristo, delle Convulsionarie di San Medardo alle quali anche Diderot
ha dedicato una qualche attenzione. Nel giorno della Passione queste donne
per rivivere nella loro carne le pene del capostipite si facevano
inchiodare, proprio come accadde a lui, su una grande croce. E si potrebbero
ricordare anche le confraternite dei flagellanti, i cui adepti, in varie
parti d'Italia, ancora in tempi recenti, erano soliti martoriare, sempre nel
giorno della Passione, le loro carni con mazze chiodate ed altri strumenti
di strazio e tortura.
Per protestare contro le condizioni di reclusione alcuni detenuti francesi
si tagliarono la falange di un dito e la spedirono al Ministero della
Giustizia.
Per scongiurare un trasferimento trangugiò un cucchiaio, un chiodo, due
mezze lamette, un tagliaunghie, frammenti di vetro...
Per esser trasferito altrove si fece un'iniezione d'urina, sangue affetto da
epatite virale, feci, tabacco...
Spinse la sua critica della deprivazione sessuale fino ad infilzarsi il pene
con un coltello, a cucirsi il prepuzio, a tagliarsi i genitali...
Si tratta di episodi più o meno comuni nel mondo della reclusione. Se qui vi
prestiamo attenzione è perché in essi vediamo sempre all'opera uno
sdoppiamento, vale a dire l'aspetto fenomenologico costitutivo della transe.
Sussunto dall'istituzione e ridotto a cosa, il corpo del recluso viene
radicalmente spersonalizzato. Spogliato delle sue "cose", dei segni
costitutivi della sua identità, reso inerte e assimilato all'arredo
ambientale, esso diventa preda dell'istituzione. L'istituzione manipola,
mutila e distrugge l'identità per possedere il corpo e ridurlo a una
condizione di dipendenza assoluta e di passività. Oggetto di quest'enorme
violenza, il corpo che si mette in gioco con l'automutilazione non fa che
affermare un certo grado di libertà: la libertà di manipolare il proprio
corpo per affermare la propria identità.
Spinto al limite questo schema ci mostra un paradosso. In un contesto
relazionale dove non è più possibile alcun mutamento, dove quindi non si può
godere di alcun grado di libertà, il suicidio si afferma come scelta estrema
di libertà e di vita.
"Prima di diventare un morto vivente voglio darmi la
morte!".
Ecco, nel quadro della possessione istituzionale, l'automutilazione, il
suicidio, appaiono sacrifici di libertà paradossali: la libertà di
manipolare il corpo espropriato per rivendicare la propria identità.
Risposte paradossali a un contesto paradossale che attingono alle radici del
sacro e all'istituzione arcaica del sacrificio. E che sono culturalmente
modellate perché nel mondo della reclusione esse si replicano da tempi
immemorabili e questa replicazione si trasmette di bocca in bocca come una
suggestione e un modello. Sarebbe bene tuttavia distinguere tra due varianti
dell'automutilazione sacrificale.
La prima - automutilazione espiatoria, riparatoria - consiste nell'offerta
di sé o di una parte di sé come dono per ottenere un perdono. L'usanza
dell'ablazione del dito, ad esempio, intesa come espiazione per essere
riaccolti, si ritrova in molte culture e in molte parti dei mondo, fin dal
neolitico. Automutilarsi pubblicamente e gettare in pasto alla platea le
parti ablate: questa la grande prova, il rito di riammissione nei flussi
omologati, richiesto ai perturbatori pentiti. L'offerta sacrificale placa
come un oppiaceo le angosce dei destinatari predisponendoli favorevolmente
al perdono. In effetti lo spettacolo offerto da chi, promuovendosi vittima e
carnefice nello stesso tempo, rivolge contro se stesso gli strumenti di
mutilazione manda in visibilio ogni potere. Ai nostri giorni, tra i
sacrifici, è soprattutto la rappresentazione del desiderio rinnegato,
dell'identità politica abiurata, a raggiungere i più alti indici di
gradimento. Nell'iper-realtà dell'immaginario mass mediatico
(dell'allucinario mass mediatico) non c'è dea più delirata della morte. Ed è
appunto per garantirsi la morte vivente di una desolante possessione che
l'identità simbolica viene sacrificata.
La seconda - automutilazione liberatoria - manifesta il rigetto di un corpo
evidentemente risentito come prigioniero. Osserva al riguardo Georges
Bataille che la necessità di gettarsi o gettare fuori di sé stesso qualcosa
di se stesso, in questo caso vuol significare la sua liberazione. Proprio
come un vomito libera uno stomaco oppresso. Rigetto, vomito, eruzione
orribile,
"sgorgo di una forza che può inghiottire e che per questo suscita
ripugnanza", l'automutilazione liberatoria espone nondimeno un elemento di
odio e di disgusto
"verso quell'idea elevata, ufficiale, della vita" diffusa
dal conformismo della buona società.
Contro questa società e le sue istituzioni totali, l'automutilatore si
libera, vomitandole i suoi pezzi sulla faccia!
C'è chi mangia talmente tanto da sformare il proprio corpo per negarlo, per
nasconderlo ed eclissarlo dietro la grossezza. C'è chi se lo taglia tutto o
se ne amputa dei pezzi perché arriva al punto di odiarselo. C'è chi se lo
decora con decine di tatuaggi, perché così com'è non può più vederselo.
Come una bestia masturbava la sua vita, carezzando nei pensieri alienati
l'immagine sbiadita di pelli vellutate, carnose labbra, inebrianti profumi.
E annusava nel sonno incantato il ricordo di lei e della sua dolce ferita.
Poi una sera esplose in quella cella siciliana e impazzito se la prese col
suo sesso, sul quale la sua mano sapiente aveva tatuato una piccola
farfalla. Guardò con disprezzo il pezzo di carne rattrappito e mormorò:
"Amico sono trent'anni che mi stai sulle palle, ormai servi solo per
pisciare".
Con orrore vidi balenare la lama di un coltello. E fu così che Pasqualino
detto Spara-spara, ergastolano novello, pugnalò il suo cazzo in quella sera
amara.
C'è molta animazione. Una festa in una sala cinematografica. Un gruppo rock
suona la colonna sonora di un film che deve ancora cominciare. D'un tratto
mi ritrovo simultaneamente spettatore e personaggio principale del film che
inizia. Mi scopro sul ciglio di una voragine di fuoco. Sono nudo e vedo il
mio sesso gonfiarsi ed allungarsi. Non è un'erezione: è proprio una
ipertrofizzazione. Si gonfia. Si gonfia. Assume le dimensioni di una gamba.
E continua a gonfiarsi. Sono in preda al terrore ed urlo disperatamente:
"Perdio fate qualcosa! Questa cosa non diventerà mai più il mio cazzo!". Poi
c'è una fusione totale sesso-gambe-voragine-fuoco. Bagliori bianchi e
giallastri. E tutto deflagra in un'esplosione strapotente.
Quando, con sollievo, tutto si acquieta, ritrovo i genitali e le gambe. Il
materiale dell'esplosione si è raffreddato in sassi e pietre che riempiono
il locale della festa. Gruppi di persone con bacinelle metalliche si
affrettano a raccoglierli come fossero cose preziose.
Si cucì le labbra con un fil di ferro, guardò per l'ultima volta la
fotografia di sua moglie e di suo figlio, salì sullo sgabello della cella,
infilò la testa nel cappio e si lasciò penzolare. Scontava otto anni per un
furto di pellicce. Di più, salvo una descrizione denigratoria del suo volto
e del suo aspetto, non sappiamo. Nella scheda datata febbraio 1929 e
intitolata
"Caratteri individuali dei criminali - caratteri biologici e
funzionali - caso di analgesia", Cesare Lombroso non fornisce altri
particolari. il contesto relazionale entro il quale Carlo Conti maturò il
proposito di cucirsi le labbra e di appendersi per il collo a una fune -
atti di comunicazione simbolica piuttosto evidenti - a lui non interessa.
Cosa voleva dire Conti Carlo, nato a Novara, capo tecnico, cucendosi con del
filo di ferro la bocca? Quale messaggio lasciava a se stesso, ai suoi e
all'istituzione, attuando il proposito di togliersi la vita?
Domande che resteranno senza risposte poiché lo sguardo che colse i suoi
gesti era già saturo di domande e di risposte. Lombroso, infatti, vide in
essi soltanto una controprova alle sue teorie sul fachirismo e
sull'analgesia.
"La insensibilità al dolore ricorda assai bene quella dei popoli selvaggi
che possono sopportare, per le iniziazioni della pubertà, torture non
tollerabili dall'uomo bianco. Tutti i viaggiatori sanno, come la sensibilità
dolorifica nei negri e nei selvaggi d'America è così torpida, che si videro
i primi segarsi, ridendo, la mano per isfuggire il lavoro, e i secondi
lasciarsi bruciare a lento fuoco, cantando allegramente le lodi della
propria tribù".
Il dolore, in altri termini, si afferma con l'evoluzione e perciò non deve
stupire se coloro che si trovano ai gradini più bassi della scala
evolutiva - selvaggi, negri, delinquenti, pazzi, donne - non ne provano
affatto. Anzi, proprio questo non provare dolore va considerato una prova
della loro natura inferiore.
L'epistemologia del Lombroso tradisce una punteggiatura elementare degli
eventi secondo la quale i comportamenti sociali non consueti, meglio ancora
non omologati, si spiegano sulla base di gerarchie evolutive e vizi
biologici. Agli scienziati positivisti come lui tocca dunque individuare
queste gerarchie e questi vizi per risalire da questi ai tipi criminali che
vi sono connessi. Così, se per spiegare il gesto di cucirsi le labbra,
l'Autore de "L'uomo delinquente", avanza la teoria dell'insensibilità al
dolore, per dar conto del tentativo di suicidio egli sostiene un'analoga
"insensibilità all'istinto di conservazione".
"Questa frequenza del suicidio tra i delinquenti nelle prime epoche della
reclusione, anche prima della condanna o per leggiere condanne, dipende da
una tendenza speciale; e prima di tutto da quella insensibilità, da quella
mancanza dell'istinto di conservazione, di cui... addussimo tante prove".
Insensibilità al dolore, insensibilità all'istinto di conservazione,
insensibilità morale: sul filo di questa catena causale il cerchio si
chiude. Essendo un essere gerarchicamente inferiore nella scala evolutiva,
il delinquente non sentirà il dolore; la sua insensibilità al dolore e per
estensione all'istinto di sopravvivenza e ai valori morali, d'altra parte,
riveleranno e proveranno la sua tipologia criminale. Prigioniero di un
paradigma il cui fondamento scientifico poggia sulle sabbie mobili del
pregiudizio borghese e dei luoghi comuni correnti tra la fine dell'Ottocento
e il primo Novecento, Lombroso non sa leggere la sofferenza di chi gli sta
di fronte.
Ma questa insensibilità culturale, nell'ultimo secolo non ha
fatto scandalo e ancor oggi si trascina come un'eredità crudele.
Da molti anni all'ergastolo aveva conosciuto ogni sfumatura della
reclusione. Era prigioniero in un carcere di massima sicurezza quando prese
ago e filo e si cucì i genitali e la bocca. Con questo gesto
"fece vedere"
ciò che l'istituzione abilmente occulta: il corpo recluso non ha alcuna
possibilità comunicativa; la relazione sessuale gli è preclusa; il
linguaggio verbale è ridotto a
"brusio solitario".
Egli svelò che il corpo segregato è, in realtà, già cucito, ma l'ago che lo
punge e il filo che lo insacca sono resi invisibili. Quel giorno la sua mano
ruppe il silenzio e "illustrò" sulla propria pelle la danza dolorosa
dell'ago. Sì, un'illustrazione: la scelta di un linguaggio analogico per
superare il brusio indistinto delle parole e dare, anche ad un cieco, la
possibilità di vedere il gioco brutale della reclusione.
Ma mentre l'ago danzava, una domanda lo sorprese:
"non sarò mica un po'
masochista? Sarebbe abbastanza normale in fondo. In questi anni di prigionia
ho agito lotte e vita, ho espresso la mia parte di bisogno e di percorso di
liberazione in un contesto collettivo, sociale. Ho coltivato il mio corpo e
la mia mente ha prodotto, creato, composto. Io non sono cucito alle mura del
carcere... Forse è proprio masochismo! E se invece il masochismo fosse
proprio il non guardare, il non vedere, non avere il coraggio e la lucidità
sufficienti per rendersi conto della realtà? Ho forse paura di lasciare
danzare quell'ago? Troppa paura per guardare la mia immagine compiuta, alla
fine della danza? (...) Un punto al labbro superiore, un punto al labbro
inferiore, altri tre punti alle labbra; un punto per ogni palpebra; uno per
ogni narice; punti alle orecchie... fa male quel balletto, fa male alla mia
psiche ma voglio andare fino in fondo. Un punto al pettorale, un altro al
ventre... L'ago e il filo nero mi appaiono ora come la bava lubrica di un
ragno che mi avvolge. Un punto sulla cappella del cazzo, un punto sulla
pelle del cazzo;altri due punti sul cazzo; un punto sui testicoli; quattro
punti al buco del culo... BASTA!"
La sua mano cuciva, non trascurando però di scucire la nominazione
psichiatrica che già tendeva agguati al suo gesto prima ancora che si
compisse: sarò io masochista o lo è chi non guarda, non vede?
Lo psichiatra Krafft-Ebing si ispirò ai costumi erotici descritti da Masoch
nei suoi romanzi per dare il nome all'omonima
"perversione sessuale" che
insorge quando
"il soggetto, per ottenere la soddisfazione sessuale ha
bisogno di subire sofferenza, maltrattamenti, umiliazioni". Reik spostò il
masochismo dalla sfera sessuale a quella politica riferendosi alla devozione
che le masse dimostrano per il dittatore, la quale deriva dalla
"fusione di
rinuncia al proprio potere e di gioia di delegarlo".
Ma a che serve interrogarsi sulla danza dell'ago a partire dalle nominazioni
di Krafft-Ebing e di Reik?
La mano del prigioniero che cuce non compie un gesto autoerotico, non
esprime un particolare costume sessuale. È invece, mano che traccia segni,
mano che illustra. Al pari non è politica la sua danza; non nel senso di
cercare rappresentanze, né tantomeno di godere nel delegare il proprio
potere. Al contrario il suo gesto rompe una condizione di passività.
Non più con le mani in mano - anch'esse cucite e passivizzate - ma con le
mani in lotta sul piano sociale della comunicazione.
Oltre ad essere impropria, la parola "masochismo" maschera e occulta. Essa
ci porterebbe a dire che il prigioniero che si è cucito lo ha fatto per
godere sessualmente e non perché gli è stata impedita la comunicazione
erotica ed ogni altro tipo di comunicazione. Masochismo è parola che oscura
la brutalità del contesto e brutalizza la ragione sociale del gesto. In
questo senso la mano che la prima volta la scrisse fu guidata dalla stessa
mente che, giorno dopo giorno, cuce con ago invisibile, ad ogni detenuto,
come ad ogni manicomializzato,
"un punto al ventre, un punto all'inferriata,
un punto al petto, un punto al cancello...".
Darwin riporta il caso dell'oca di Audubon la quale, privata delle penne
remiganti, si mise in viaggio a piedi. Passa poi a descrivere le sofferenze
di un uccello che, chiuso in gabbia nella stagione della migrazione,
sbatteva le ali contro le sbarre e si feriva il petto a sangue.
Quando il concerto giunse al culmine, nello sfrenamento generale, afferrò un
coltello e si staccò la falange di un dito. Poi, con un gesto di rivolta, lo
gettò ai suoi fans. I punks, appunto. Per i quali mutilarsi, sfregiarsi,
infilarsi aghi e spilloni sul volto o in altri parti del corpo, tatuarsi,
costituisce una modalità di spettacolarizzazione dei fantasmi rimossi di
questa società.
- Voi ci avete reso così e noi riflettiamo la vostra proiezione!
- Guardateci! Guardatevi!
Corpi rifiutati e del rifiuto - rifiuto totale - essi mutilano, alterano,
tatuano se stessi, per rifiutare e mostrare rifiuto. Presenze estreme della
frattalità sociale, i punks si rivolgono al frattale di chi li osserva per
tentare, su questa estrema frontiera, l'innesto di un linguaggio divergente.
Oltre la prescrizione. Oltre la stessa scrittura.
In lutto per la morte del senso dominante nei circuiti della comunicazione
omologata, se riciclano nel tatuaggio segni e simboli dei codici religiosi o
politici lo fanno all'unico scopo di celebrarne, con ironia, il funerale.
Esponendo le ragioni che sono all'origine di una loro ampia ricerca sul
simbolo della svastica, i redattori della rivista punk
"Decoder" hanno
scritto:
"La prima e più immediata di queste ragioni è nata dall'aver visto
la diffusione sempre più crescente dell'uso della svastica da parte di
soggetti sociali che nazisti sicuramente non sono. Anzi, se solo si pensi un
attimo ai punks ci si accorgerà che l'uso che essi fanno e che hanno fatto
di questo simbolo, ha indubbiamente connotazioni talmente ironiche e di
ribaltamento simbolico, che, seduta stante, allontana da essi qualsivoglia
sospetto di connubio con ideologie nostalgiche o reazionarie".
Sovvertendo antichissime tradizioni, l'automutilazione, lo sfregio, il
tatuaggio dei punks mette in scena un gioco paradossale. Nella "città
totale", condotti alle soglie dell'estraneazione, essi restituiscono i loro
corpi estraniati - sabotati.
Non più una richiesta di riammissione.
Non più un'esibizione di appartenenza.
Ora le loro scrizioni - le lettere mancanti del corpo mutilato come pure le
lettere intossicate dei loro tatuaggi - si dispongono ad un gioco spietato:
costringere la scrittura omologante a divorare se stessa.
Un pasto cannibalico e glaciale in cui, ai significanti del potere che non
riescono più a sfamarsi con i corpi conquistati ai loro significati, altro
non resta che inghiottire ciò che essi stessi, per primi, hanno vomitato.
Nella "città totale": si tagliarono il petto e il viso con lamette.
Li avevano sgomberati con la forza dal loro centro sociale.
Un giornale scrisse:
"A Milano un gruppo di giovani occupa uno stabile del Comune. Intervengono
le forze dell'ordine e i ragazzi per protesta si feriscono con le lamette".
E loro rilanciarono:
"Se non smettete... ci faremo a pezzi".
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