La reclusione è anzitutto un'azione: l'azione di chiudere via qualcuno, inglobarlo, costringerlo in un sistema chiuso. Questo sistema può essere una prigione, un manicomio, un brefotrofio, un collegio, un monastero, o la stanza di una qualunque abitazione. Comunque sia, come ogni sistema chiuso, esso offende le radici più profonde della vita. Le offende e le recide.
"Un essere vivente ha bisogno in ogni momento, per vivere, di qualcosa di estraneo a sé con cui interagire. La vita è aperta. Un essere umano totalmente isolato muore immediatamente".
Erving Goffman chiama istituzioni totali questi sistemi chiusi, soggetti ad un potere inglobante, in cui vi sia impedimento allo scambio sociale e all'uscita verso il mondo esterno. Totali, appunto, perché il loro carattere inglobante è continuo, permanente, non poroso, soggetto ad un potere.
Naturalmente anche tra le diverse categorie di istituzioni totali Goffman ne distingue cinque fondamentali - possono essere individuate precise differenze. Un istituto per ciechi o per vecchi non è proprio la stessa cosa di una fureria militare, e un'abazia, forse, non è proprio un manicomio. Tuttavia, pur variando le forme fenomeniche del luogo di reclusione, l'azione sociale che vogliamo indicare con il verbo recludere, presenta una sua precisa costanza. Costanza che attiene all'esercizio di un potere.
L'idea di un potere irreclusivo, peraltro, almeno nelle formazioni sociali generate dal seme stanziale della civiltà mediterranea, non ha cittadinanza entro le mura del senso. Da quando a Sumer, 4 mila anni prima di Cristo - ma forse anche prima - un popolo si stancò di pascolare e, rinunciando al nomadismo, si recluse entro spesse mura - divenne cioè carceriere di se stesso e dunque carcerato - ogni irreclusione appare una minaccia. È forse un caso se, proprio da allora, la dicotomia tra fermo ed infermo prese ad accentuarsi di valori e su questa accentuazione concrebbero le metafore della salute e della malattia?
Nelle microdimensioni molecolari delle reti interpersonali, come nelle macrodimensioni istituzionali delle formazioni sociali complesse, potere è, dunque, in questa prospettiva, sinonimo di esercizio reclusivo. Esercizio che si agglutina, prima ancora che intorno a quelle
"funzioni di interdizione" di cui ha scritto Foucault, intorno ai saperi, ai linguaggi e ai verbi della prescrizione.
Si può dire, allora, che, almeno in tendenza, ogni formazione sociale stanziale è, per suo programma genetico, un'istituzione totale? Non proprio. Ad una simile generalizzazione, infatti, sfuggirebbe l'essenziale, e cioè la differenza specifica tra l'azione del recludere e quella dell'omologare. Per quanto entrambe queste azioni consistano nell'erigere muri perimetrali, muri innalzati con pietre di scrittura, la prima sopravviene soltanto quando la seconda fallisce i suoi scopi.
Intenderemo allora con omologazione quell'azione sociale basilare consistente nel far incorporare un sistema di prescrizioni autorizzanti, nel far battere i cuori in comune (
com cordis), nel mettere l'uniforme alla lingua e ai linguaggi, vale a dire uniformarli, entro un luogo comune definito da una perimetrazione normativa.
Le istituzioni totali, invece, costituiranno un dispositivo di frontiera, luoghi di emergenza in cui trattare - spegnere, normalizzare, reintegrare - i turbini negentropici delle deomologazioni non autorizzate.
Bisogna dire ancora che omologazione e difficoltà a vivere tendono ad implicarsi, come pure quel desiderio di evasione e di fuga, a tutti noto, che talvolta si fa più forte e potente di qualunque ragione, di qualsiasi legge, di qualsivoglia condizionamento o minaccia: per non
"scoppiare", per non lasciar spegnere anzitempo il fuoco della vita, per ritrovare Altrove, oltre il gioco spettacolare dei ruoli, il ritmo felice di una pulsazione autonoma e liberata. Ma, appunto, ogni sottrazione ai vincoli societari fissati dai programmi omologanti, quando ciò non sia garantito da specifici e riconosciuti rituali abreativi, minaccia l'ordine simbolico su cui si fondano le sicurezze relazionali. E ciò attiva l'attenzione dei Custodi dell'omologazione, vale a dire dei gestori delle istituzioni totali.
Così, per farla breve, mentre l'omologazione viene generalmente presentata e rappresentata come disagio necessario al consolidamento e alla continuità della formazione sociale operante, all'azione deomologante non viene affatto riconosciuta la sua funzione dinamica di cura necessaria a questo disagio, di condizione del suo oltrepassamento; non viene riconosciuta cioè la sua funzione divergente e positiva. E da ciò consegue la sua repressione.
Per quel che ci riguarda, gli internati negli ospedali psichiatrici, i detenuti nelle Case Circondariali, gli istituzionalizzati in genere, condividono la medesima esperienza umana. Esperienza tragica per eccellenza. Perché quando ad un corpo vengono sottratte le stimolazioni relazionali sociali ed ambientali indispensabili al suo volo, esso viene toccato nel cuore stesso della sua umanità e, dunque, irreversibilmente mutilato e ferito.
"Istituzionalizzazione non significa soltanto privazione di libertà e di esperienze relazionali, ma anche e piuttosto sottomissione forzata a programmi metodici di distruzione psicologica. Uno di questi metodi è l'occhio-che-ti-guarda-continuamente; ovvero la sorveglianza continua, che priva l'individuo di ogni possibile autonomia. Un altro è la privazione della possibilità di disporre, oltre che di se stessi, anche dei propri oggetti personali. Infine la privazione della possibilità di comunicare con gli altri a proprio piacimento. Si viene, in una parola, espropriati di tutto".
Deprivazione, tuttavia, non sembra la parola più adatta per rappresentare compiutamente la condizione di istituzionalizzazione. Essa può facilmente, e falsamente, rimandare al carcere come dispositivo immateriale; come se il carcere fosse un contenitore vuoto e non invece un 'pieno cattivo' di prescrizioni inglobanti.
Migliore ci sembra la parola torsione, un nome di azione che non si limita a indicare una sottrazione ma allude esplicitamente ad una trasformazione. Trasformazione qualitativa ed irreversibile - come una metamorfosi.
Perché è appunto una torsione dolorosa, ristrutturativa e metamorfica dell'intera unità psicofisiologica, del corpo-in-relazione nel suo insieme, che l'istituzionalizzazione persegue. In questo senso non appare adeguata l'idea foucaultiana secondo la quale, in epoca moderna, l'istituzione totale esercita la sua violenza più sulla psiche che sul corpo. La torsione dell'azione reclusiva, sia essa risocializzante o terapeutica, mira infatti a spezzare nel recluso, sia esso detenuto o ricoverato, ogni autonoma attività: a farne un uomo-agito, dunque un non-uomo. Non importa che questa passivizzazione venga attuata ricorrendo all'isolamento, alla limitazione del movimento, all'espropriazione della possibilità di decidere, al controllo ossessivo, piuttosto che agli psicofarmaci, al letto di contenzione, al coma insulinico o all'elettrochoc. Ciò che in ogni caso ne risulta, infatti, è un soggetto irreversibilmente alterato nella sua esperienza relazionale e nelle sue discipline di gestione del corpo.
Dalla stessa radice etimologica di torsione deriva anche la parola tortura. Chiediamoci allora: qual è la soglia che separa la torsione dalla tortura? C'è tra le due una discontinuità qualitativa?
Non sembra. La differenza appare più che altro quantitativa: la tortura è il torcimento doloroso del corpo recluso, concentrato nel tempo e intensificato su punti nevralgici. Una torsione estrema che tecnicamente si spinge fino al punto di
"non farti morire". Ma un lungo internamento in carcere o in manicomio, non ha forse esiti analoghi a quelli di un giorno di tortura?
Riflettendo sul lungo internamento manicomiale, Sebastiano Tafuri ha scritto queste terribili parole:
"Sono esattamente 40 anni che tortura e umiliazione mi tengono prigioniero".
Per concludere, alcune ricerche sottolineano, quale esito della torsione, quell'apatia, passività, mancanza d'iniziativa, regressione, dipendenza, incapacità di sopravvivere fuori dall'istituzione, quella sindrome da internamento, già rilevata da Goffman, Wing-Brown, Barton e molti altri anche in ltalia.
Per quanto attiene al carcere, è stata coniata la categoria specifica di sindrome da prisonizzazione.
Con essa Clemmer ha voluto indicare l'effetto globale dell'esperienza carceraria sull'individuo.
Sommer e Osmond, successivamente, hanno sottolineato tre effetti fondamentali della prisonizzazione: l'erosione dell'individualità; la discultura (la perdita dei valori che il soggetto aveva prima dell'internamento); e l'estraniamento (l'incapacità di adeguarsi al nuovo contesto dopo la scarcerazione).
Gli stessi autori hanno inoltre indicato nell'isolamento (la carenza d'interazione con l'interno e con l'esterno) e nella privazione di stimoli dovuta alla povertà dell'ambiente carcerario, ulteriori vettori di stress che alimentano la sindrome di prisonizzazione.
Altre ricerche, infine, hanno messo in relazione la prisonizzazione con il deterioramento mentale.
Queste ricerche, tuttavia, nulla sanno dirci di coloro che nel tempo della reclusione coltivano l'abitudine ad opporre quel
"rifiuto interiore a diventare quello che la struttura vuole" di cui ha scritto Primo Levi. Ma saranno proprio costoro che, con la loro esperienza singolare, s'inoltreranno per le vie d'una esplorazione inconsueta di quelle potenzialità del proprio corpo mai attinte nei flussi ordinari dell'omologazione. Potenzialità che, del resto, sono virtualità sociali non attuate.
Ad essi è dedicato il nostro lavoro.
Se internare ed istituzionalizzare sono sinonimi di recludere, non si può dire, invece, che vi sia equivalenza tra questi ed il verbo segregare. L'azione del segregare, infatti, generalmente anticipa quella del recludere, dell'internare, dell'istituzionalizzare, e comunque l'accompagna, la prolunga, l'estende.
Il dizionario Devoto-Oli definisce così il verbo segregare:
"trasferire in luogo isolato al fine di escludere dai rapporti e dalle comunicazioni". Esso precisa inoltre che la condizione di forzato isolamento, dovuta all'azione del soggetto segregatore, può manifestarsi anche nell'aggravamento di una pena detentiva consistente in un isolamento del detenuto, accompagnato da misure afflittive e restrittive. La segregazione cellulare, come pure nei manicomi la segregazione nei reparti o padiglioni degli agitati, consisterebbe dunque in un plus di reclusione, in un ulteriore limitazione delle possibilità di relazione, movimento e comunicazione.
In realtà, il rapporto segregativo prende avvio molto prima che qualche atto di reclusione, internamento, istituzionalizzazione venga effettivamente compiuto. C'è una segregazione che scatta
"a piede libero" anzitutto nei luoghi del linguaggio.
"Se si deve parlare di segregazione psichiatrica, questa avviene anche prima dell'internamento vero e proprio, nel senso che quando si dice che una persona non ragiona bene, che ha un difetto nel cervello, già la si squalifica completamente. Qualsiasi cosa dica è inutile che abbia la libertà di dirla perché nessuno la sta a sentire".
Così è pure per la segregazione razziale, etnica, politica, sessuale...
La parola segregante agisce come un muro invisibile: reclude in un
"luogo comune" del discorso; esclude il denigrato - denigrato: annerito, oscurato, reso opaco - dal gioco delle relazioni trasparenti; invisibilizza, squalifica. La parola segregante, come il lupo cattivo di Cappuccetto Rosso, si maschera da nonnina buona per giungere al fondo del suo inganno linguistico.
"Se chiamiamo la segregazione ospedalizzazione, questo termine richiama qualcosa di positivo, mentre il termine reclusione richiama qualcosa di negativo".
Mascheramento, invisibilizzazione, squalifica, segregazione, reclusione, sono anelli di una spirale inesorabilmente crudele alla cui attivazione, in questa civiltà, tutti, in qualche significativa misura, cooperiamo. Spirale distruttiva ed autodistruttiva, perché dall'azione del recludere non può certo generarsi libertà.
Libertà, guarigione, creazione e vita si generano e rigenerano soltanto negli insieme aperti. Perciò non resta che concludere con le belle parole di Gaston Bachelard:
"... aprire tutte le prigioni dell'essere affinché l'umanità abbia tutti gli avveniri possibili ...
Tutte le prigioni del Sé-relazionale, del corpo-in-relazione e, ovviamente, tutte le istituzioni totali."
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