Rawalpindi, Pakistan. Un giorno che forse era un sabato o forse no, e forse 
  era il 1 marzo o forse no, in una casa che forse era l'abitazione di Ahmad Abdul 
  Qadoos o forse no, un commando di soldati pachistani e statunitensi ha svegliato 
  bruscamente il famigerato terrorista Khalid Sheikh Mohammed. Si aspettavano 
  uno scontro a fuoco e avevano fatto irruzione nella casa correndo e urlando. 
  Invece l'hanno trovato che dormiva. L'hanno tirato giù dal letto, incappucciato 
  e legato. L'hanno fatto salire su una macchina e portato via.
  È stato il più importante arresto della guerra al terrore. Sheikh 
  Mohammed è considerato l'ideatore di due attentati al World Trade Center: 
  quello fallito del 1993 e quello catastroficamente riuscito di otto anni dopo. 
  Si pensa che fosse dietro agli attentati contro le ambasciate americane in Kenya 
  e Tanzania del 1998, e a quello di due anni dopo contro l'Uss Cole della marina 
  degli Stati Uniti, e forse anche dietro l'omicidio del giornalista del Wall 
  Street Journal, Daniel Pearl, avvenuto l'anno scorso.
  Qualcuno sostiene che l'arresto di Sheikh Mohammed sia avvenuto molto prima 
  del 1 marzo, data in cui è stato annunciato dai servizi segreti pachistani 
  dell'Inter-Services Intelligence (Isi). Abdul Qadoos, un uomo pallido e anziano, 
  mi ha detto che Sheikh Mohammed non era in quella casa "né c'era 
  mai stato". Sembra che il video ufficiale dell'arresto sia un falso. Mai 
  dettagli hanno poca importanza: ormai quasi tutti sono convinti che Sheikh Mohammed 
  sia nelle mani degli americani già da qualche tempo. Nelle prime ore 
  della sua prigionia, gli hanno tolto il cappuccio e hanno scattato una fotografia. 
  Si vede un uomo scuro di carnagione, robusto, villoso, con gli occhi velati 
  e grossi baffi neri, sopracciglia spesse, un'ombra scura di barba sul viso tondo, 
  triplo mento, lunghe basette, e capelli lunghi, folti e arruffati. È 
  in piedi di fronte a una parete di colore chiaro con la vernice scrostata, leggermente 
  piegato in avanti, come un uomo che ha le mani legate dietro la schiena. Guarda 
  in basso, a destra della macchina. Sembra intontito e depresso.
  Sheikh Mohammed è un uomo intelligente. C'è un'aria di ansiosa 
  incertezza nell'espressione che ha in quella prima foto dopo l'arresto. È 
  lo sguardo di un uomo che si è svegliato in un incubo. Tutto quello che 
  ha dato senso alla sua vita - il suo ruolo di marito e di padre, la sua leadership, 
  la sua statura morale, i suoi piani, le sue ambizioni - è finito. Nel 
  suo futuro ci sono mesi, forse anni di prigionia e interrogatori, un tribunale 
  militare e quasi sicuramente una condanna a morte. Sembra di vedere il suo cervello 
  che lavora, analizzando la situazione. Come passerà i suoi ultimi mesi 
  o anni? Manterrà un dignitoso silenzio di sfida? O si arrenderà 
  al nemico e tradirà i suoi amici, la sua causa e la sua fede?
Faccia da schiaffi
  In questo periodo si parla tanto della schiacciante tecnologia militare degli 
  Stati Uniti, della professionalità dei soldati americani, delle loro 
  armi sofisticate e dei loro sistemi d'intercettazione; ma l'arma più 
  importante che hanno potrebbe essere l'arte d'interrogare. Per contrastare un 
  nemico che confida sulla clandestinità e sulla sorpresa, lo strumento 
  più utile sono le informazioni, e spesso l'unica fonte di informazioni 
  è il nemico stesso. Gli uomini come Sheikh Mohammed, presi vivi in questa 
  guerra, sono i tipici candidati a subire quest'arte macabra. Intellettuali, 
  raffinati, profondamente religiosi e ben addestrati, rappresentano una sfida 
  perfetta per chi deve interrogarli. Ottenere le informazioni di cui sono in 
  possesso potrebbe permetterci di impedire gravi attacchi terroristici, scoprire 
  la loro organizzazione e salvare migliaia di vite. Loro stessi e la situazione 
  in cui si trovano sono uno degli argomenti più forti a favore dell'uso 
  della tortura.
  La tortura è ripugnante. È un atto di crudeltà, uno strumento 
  di oppressione politica antico e rozzo. Viene usata per terrorizzare le persone 
  o per strappare confessioni a presunti colpevoli. È la classica scorciatoia 
  degli investigatori pigri o incompetenti. Esempi orribili delle conseguenze 
  della tortura sono catalogati e pubblicati ogni anno da Amnesty International, 
  Human Rights Watch e altre organizzazioni che combattono questo tipo di abusi 
  in tutto il mondo. Non si può fare a meno di essere solidali con le loro 
  vittime innocenti e impotenti. Ma i terroristi rappresentano una questione più 
  difficile. Sono casseforti in cui sono riposte informazioni che potrebbero salvare 
  delle vite. Sheikh Mohammed ha i suoi motivi politici e religiosi per progettare 
  omicidi di massa, e c'è chi applaudirebbe l'atteggiamento di sfida che 
  mantiene nonostante sia prigioniero. Ma il suo silenzio lo paghiamo col sangue.
  La parola tortura viene dal verbo latino torquere, cioè "torcere". 
  Il dizionario inglese Webster's dà questa definizione: "L'atto d'infliggere 
  un dolore intenso per ottenere informazioni e confessioni o per vendetta". 
  Vi prego di notare l'aggettivo "intenso", che evoca immagini di ruote, 
  pollici schiacciati, scalpelli, marchi a fuoco, pozzi ardenti, strumenti per 
  impalare, scosse elettriche e tutti gli altri diabolici strumenti concepiti 
  dagli esseri umani per mutilare e procurare dolore. Molti generi di crudeltà 
  sono ancora diffusi soprattutto in America Centrale e Meridionale, in Africa 
  e in Medio Oriente. La polizia di Saddam Hussein marchiava a fuoco sulla fronte 
  ladri e disertori, e tagliava la lingua a chi offendeva lo stato. In Sri Lanka 
  i prigionieri vengono appesi a testa in giù e bruciati con ferri roventi. 
  In Cina vengono picchiati con bastoni e tormentati con pungoli per il bestiame. 
  In India la polizia infila spilli nelle unghie e nelle dita dei prigionieri. 
  Le mutilazioni e le violenze fisiche sono legali in Somalia, Iran, Arabia Saudita, 
  Nigeria, Sudan, e in altri paesi che applicano la sharia; ai ladri vengono tagliate 
  le mani e le donne condannate per adulterio rischiano la lapidazione. Vari governi 
  del mondo continuano a usare lo stupro e la mutilazione, e a colpire i familiari, 
  compresi i bambini, per estorcere confessioni o informazioni ai prigionieri. 
  In tutto il mondo le persone civili condannano senza esitazione queste pratiche. 
  Ma ci sono anche dei metodi che, secondo alcuni, non sono vere torture.
Sottili distinzioni
  Le cosiddette "torture leggere" includono la privazione del sonno, 
  l'esposizione al caldo o al freddo, l'uso di droghe per indurre confusione, 
  maltrattamenti (schiaffi, spinte, strattoni), la costrizione a stare in piedi 
  per giorni o a stare seduto in posizioni scomode, e il far leva sulle paure 
  del prigioniero per se stesso e per la sua famiglia. Anche se strazianti per 
  la vittima, queste tecniche generalmente non lasciano segni permanenti e non 
  producono danni fisici duraturi. La Convenzione di Ginevra non fa distinzione: 
  proibisce qualsiasi maltrattamento nei confronti dei prigionieri. Ma alcuni 
  paesi che per altri versi si sono impegnati a rinunciare alla brutalità 
  hanno usato la tortura leggera in circostanze che ritenevano giustificabili. 
  Nel 1987 Israele tentò di codificare una distinzione tra la tortura, 
  proibita, e una "moderata pressione fisica", permessa in casi particolari. 
  Anzi, alcuni ufficiali di polizia, soldati e agenti dei servizi segreti che 
  condannano i metodi "brutali" sono convinti che eliminare tutte le 
  forme di pressione fisica sarebbe un'ingenuità pericolosa. Pochi sono 
  favorevoli all'uso delle pressioni fisiche per estorcere confessioni, soprattutto 
  perché spesso le vittime sono disposte a dire qualsiasi cosa (fino al 
  punto di autoincriminarsi) pur di mettere fine al dolore. Ma molti veterani 
  del mestiere sono convinti che sia giustificato usare questi metodi per estorcere 
  informazioni quando si possono salvare delle vite costringendo un soldato nemico 
  a rivelare la posizione del suo esercito o un terrorista a rivelare i dettagli 
  di un complotto. Dal loro punto di vista, il valore dell'incolumità fisica 
  di un prigioniero va misurato con le vite che si potrebbero salvare costringendolo 
  a parlare. Un metodo che consenta di ottenere informazioni vitali senza infliggere 
  a nessuno danni permanenti è non solo migliore, ma sembra anche moralmente 
  accettabile. Da ora in poi userò la parola "tortura" per indicare 
  i metodi tradizionali più brutali e "coercizione" per indicare 
  la tortura leggera o una moderata pressione fisica.
I prigionieri
  Non si sa esattamente quanti siano i presunti terroristi imprigionati oggi negli 
  Stati Uniti. Circa 680 erano detenuti a Camp X-Ray, la prigione costruita a 
  Guantanamo, sulla punta sudorientale di Cuba. Molti di loro sono considerati 
  soldati semplici del movimento islamico, catturati in Afghanistan durante la 
  disfatta dei taliban. Vengono da quarantadue paesi. Decine di altri detenuti, 
  considerati i loro capi, sono stati o sono ancora detenuti in varie località 
  sparse in tutto il mondo: in Pakistan, Arabia Saudita, Egitto, Sudan, Siria, 
  Giordania, Marocco, Yemen, Singapore, nelle Filippine, in Thailandia e in Iraq, 
  dove l'esercito statunitense ora tiene prigioniere le alte gerarchie dell'ex 
  regime di Saddam Hussein. Alcuni sono detenuti in prigioni note, come quella 
  di Bagram e l'isola di Diego Garcia. Altri figure di maggior rilievo come Sheikh 
  Mohammed, Abu Zubaydah, Abd al Rashim al Nashiri, Ramzi bin al Shibh e Tawfiq 
  bin Attash si trovano in località segrete.
  È probabile che i nomi e l'arresto di alcuni terroristi catturati non 
  siano stati rivelati; una persona può essere trattenuta per mesi prima 
  che venga messo in scena il suo "arresto". Una volta che tutti sanno 
  che un sospettato di alto rango è in prigione, il valore delle sue informazioni 
  diminuisce. La sua organizzazione si sparpaglia, modifica piani, travestimenti, 
  coperture, codici, tattiche e metodi di comunicazione. Le migliori opportunità 
  di raccogliere informazioni si hanno nelle prime ore dopo l'arresto, prima che 
  il suo gruppo venga a sapere che è stata aperta una breccia. Mantenere 
  segreto un arresto per giorni o settimane prolunga questa opportunità. 
  Perciò, lo ripeto, non si conosce il numero esatto dei presunti terroristi 
  che sono in prigione. A settembre dello scorso anno, davanti alle commissioni 
  sui servizi segreti del parlamento statunitense, il coordinatore antiterrorismo 
  del dipartimento di stato Cofer Black ha dichiarato che sono circa tremila.
  Tutti questi sospetti vengono interrogati rigorosamente, ma a quelli di grado 
  più alto viene applicato il trattamento coercitivo. E se dobbiamo credere 
  ai rapporti ufficiali e ufficiosi del governo, il metodo usato funziona. In 
  vari rapporti si dice che i terroristi più duri stanno collaborando o, 
  come minimo, stanno dando delle informazioni utili, dettagliate e verificabili. 
  Alla fine di marzo, Time riferiva che Sheikh Mohammed aveva "fornito agli 
  investigatori statunitensi i nomi e la descrizione di una dozzina di personaggi 
  chiave di al Qaeda che si riteneva stessero preparando attacchi terroristici 
  contro l'America e altri paesi occidentali" e aveva "aggiunto alla 
  descrizione dettagli fondamentali".
  Gli Stati Uniti torturano i loro prigionieri? Nella prigione afgana tre detenuti 
  sono morti, e sembra che a Guantanamo diciotto prigionieri abbiamo tentato il 
  suicidio. Uno di loro è sopravvissuto al tentativo di impiccarsi, ma 
  è rimasto in coma e non si riprenderà. Shah Muhammad, un pachistano 
  di vent'anni che è rimasto a Camp X -Ray per diciotto mesi, mi ha raccontato 
  di aver ripetutamente tentato di uccidersi per la disperazione: "Mi stavano 
  facendo impazzire", ha detto.
  In un articolo del dicembre 2002, Dana Priest e Barton Gellman del Washington 
  Post affermavano che a Bagram si usavano "violenze fisiche e psicologiche", 
  e un articolo del New York Times di marzo descriveva i maltrattamenti riservati 
  ai detenuti. Quello stesso mese, Irene Kahn, segretario generale di Amnesty 
  International, ha scritto una lettera di protesta al presidente Bush. A giugno, 
  dietro insistenza di Amnesty e di altre organizzazioni, il presidente Bush ha 
  riaffermato che gli Stati Uniti sono contrari alla tortura: "Invito tutti 
  i governi a unirsi agli Stati Uniti e a tutta la comunità dei paesi rispettosi 
  delle leggi nel proibire, scoprire e condannare qualsiasi atto di tortura. Noi 
  daremo l'esempio". Una risposta leggermente più dettagliata era 
  stata preparata due mesi prima dal massimo legale del Pentagono, William J. 
  Haynes II, in una lettera a Kenneth Roth, direttore di Human Rights Watch (le 
  mie richieste di intervistare qualcuno del Pentagono, della Casa Bianca o del 
  dipartimento di stato sono state respinte). Haynes aveva scritto: "Gli 
  Stati Uniti interrogano i combattenti nemici per ottenere informazioni che potrebbero 
  aiutare la coalizione a vincere la guerra e impedire ulteriori attacchi terroristici 
  contro i cittadini degli Stati Uniti e di altri paesi. Come il presidente ha 
  ribadito recentemente all'Alto commissariato nelle Nazioni Unite per i diritti 
  umani, la politica degli Stati Uniti condanna e vieta la tortura. Quando interroga 
  i combattenti nemici, il personale statunitense è tenuto a seguire questa 
  politica e a rispettare tutte le leggi in vigore che vietano la tortura".
  Le parole scelte da Haynes sono cautamente rivelatrici. Le organizzazioni per 
  la difesa dei diritti umani e l'amministrazione statunitense definiscono i termini 
  in modo diverso. Tuttavia, pochi direbbero che costringere Sheikh Mohammed a 
  parlare non sarebbe nell'interesse generale dell'umanità. Quindi, prima 
  di affrontare i problemi morali e legali sollevati dagli interrogatori, forse 
  la domanda che dovremmo porci è: che cosa funziona?
Gli orgasmi delle scimmie
  La ricerca di un metodo infallibile per condurre gli interrogatori è 
  stata lunga, sgradevole e generalmente infruttuosa. Gli scienziati nazisti facevano 
  esperimenti sui detenuti dei campi di concentramento, sottoponendoli a temperature 
  estremamente calde o estremamente fredde, somministrando loro droghe e procurandogli 
  acute sofferenze nel tentativo di vedere quale combinazione di orrori potesse 
  servire a ottenere collaborazione. Questi tentativi produssero una lunga lista 
  di morti e mutilati, ma nessun sistema affidabile per far parlare le persone.
  Nel 1953 John Lilly, del National Institute of Mental Health statunitense, scoprì 
  che inserendo degli elettrodi nel cervello delle scimmie, poteva stimolare dolore, 
  rabbia, paura e piacere. Ne inserì uno nel cervello di una scimmia maschio 
  e diede alla scimmia un interruttore che avrebbe fatto scattare immediatamente 
  l'erezione e l'orgasmo (la scimmia girava l'interruttore in media ogni tre minuti, 
  confermando così lo stereotipo del suo sesso). L'idea di manipolare il 
  cervello dall'interno attirò subito l'interesse della Cia, che immaginava 
  di poter aggirare in questo modo le difese degli informatori più riluttanti. 
  Ma Lilly abbandonò la ricerca dopo aver osservato che l'introduzione 
  degli elettrodi danneggiava il cervello.
  Questi e altri esperimenti sono riportati in dettaglio nel libro di John Marks, 
  The search for the Manchurian candidate: the Cia and mind control (Alla ricerca 
  del candidato della Manciuria: la Cia e il controllo della mente) del 1979, 
  e nel libro di George Andrews, Mkultra: the Cia top secret program in human 
  experimentation and behavior modification (Il programma segreto della Cia per 
  la sperimentazione sugli esseri umani e la modificazione dei comportamenti) 
  del 2001. Andrews riassume varie informazioni scoperte durante un'inchiesta 
  del congresso sugli eccessi della Cia. Il libro di Marks è più 
  sensazionalistico: tende a interpretare l'interesse dell'agenzia per le scienze 
  comportamentali, l'ipnosi e le droghe che alterano il funzionamento della mente 
  come un progetto per la creazione di agenti segreti simili a zombie, anche se 
  sembra che il vero scopo fosse trovare un metodo per costringere le persone 
  a parlare.
  L'lsd aveva creato molte speranze. Scoperto per caso in un laboratorio farmaceutico 
  svizzero nel 1943, l'lsd produce potenti effetti di alterazione mentale anche 
  a piccolissime dosi. È più potente della mescalina,che aveva i 
  suoi sostenitori, e poteva facilmente essere somministrato senza che la vittima 
  se ne accorgesse, mettendolo di nascosto nel cibo o nelle bevande. La speranza 
  era che, trovandosi in uno stato mentale così artificialmente disinibito, 
  un informatore avrebbe perso di vista i propri obiettivi e il proprio senso 
  di lealtà. Varie università importanti avviarono studi sull'lsd. 
  La maggior parte degli esperimenti causarono solo scandalo e imbarazzo. Gli 
  effetti della droga erano troppo imprevedibili perché potesse essere 
  utilizzata negli interrogatori. Tendeva ad amplificare il tipo di sentimenti 
  che inibiscono la collaborazione. Paura e ansia si trasformavano in allucinazioni 
  e fantasie terrificanti, che rendevano ancora più difficile strappare 
  segreti e aggiungevano un tocco di irrealtà a qualsiasi informazione 
  venisse rivelata. Furono condotti esperimenti anche con l'eroina e con i funghi 
  psichedelici, ma nessuna delle due sostanze costringeva gli uomini a liberarsi 
  dei propri segreti in modo affidabile. Anzi, sembrava che le droghe potenziassero 
  la capacità di mentire di alcune persone. Inizialmente, la scopolamina 
  diede qualche speranza, ma spesso induceva allucinazioni.
  I barbiturici erano promettenti e venivano già usati con buoni risultati 
  dagli psichiatri in appoggio alla terapia. Alcuni ricercatori sostenevano che 
  i trattamenti con l'elettroshock facevano esplodere, per così dire, le 
  informazioni nella mente dei soggetti. Droghe come la marijuana, l'alcol e il 
  pentotal possono ridurre le inibizioni, ma non cancellano le convinzioni profonde. 
  E più la droga è potente, meno affidabile è la testimonianza. 
  Secondo le mie fonti dei servizi segreti, oggi si usano alcune droghe negli 
  interrogatori più critici, e le preferite sono le metanfetamine temperate 
  da barbiturici e cannabis. Ma non sono più efficaci di una persona abile 
  a condurre un interrogatorio.
Il manuale Kubark
  Risultati migliori sembrava si potessero ottenere con le privazioni sensoriali 
  e l'isolamento. In molte persone, gravi privazioni sensoriali inducono rapidamente 
  la depressione; questi effetti sono documentati nel famigerato manuale della 
  Cia sugli interrogatori del 1963, il Kubark manual, che resta la raccolta più 
  completa e dettagliata mai pubblicata sui metodi coercitivi usati negli interrogatori 
  - considerando la riluttanza ufficiale a discutere certe questioni o a metterle 
  per iscritto.
  Scovato nel 1997 grazie al Freedom of Information Act (Legge statunitense sulla 
  trasparenza dell'amministrazione) dai giornalisti del Baltimore Sun Gary Cohn, 
  Ginger Thompson e Mark Matthews, il Kubark manual rivela quello che pensava 
  la Cia dei metodi più duri impiegati dai militari e dai servizi segreti. 
  Molte delle pratiche e delle teorie che espone si ritrovano immutate nell'Human 
  resource exploitation training manual (Manuale di addestramento allo sfruttamento 
  delle risorse umane) del 1983, noto come Honduras manual, che la Cia aveva cercato 
  di ammorbidire con una affrettata revisione prima della pubblicazione. Il manuale 
  era stato reso pubblico allo stesso tempo da Cohn e Thompson. Se esiste una 
  Bibbia degli interrogatori, è sicuramente il Kubark manual. 
  Una cosa che appariva chiara da tutti gli esperimenti era che, qualunque droga 
  o metodo venisse usato, i risultati variavano da persona a persona. Era importante, 
  quindi, provare a definire certi tipi di personalità e scoprire quali 
  metodi funzionavano meglio con ciascun tipo. Ma la divisione in gruppi era di 
  un'approssimazione ridicola - il Kubark manual elencava il tipo "ordinato 
  e ostinato", quello "avido ed esigente" e quello "ansioso 
  ed egocentrico" - e i metodi prescritti per interrogarli variavano molto 
  poco e a volte erano sciocchezze (il consiglio per chi doveva interrogare un 
  tipo ordinato e ostinato era di farlo in una stanza particolarmente ordinata).
  Erano categorie inutili. Ogni persona e ogni situazione sono diverse; alcune 
  persone all'inizio della giornata sono avide ed esigenti e alla fine sono ordinate 
  e ostinate. A quanto sembra l'unica cosa che fa regolarmente funzionare un interrogatorio 
  è la persona che lo conduce. E alcune persone sono più brave di 
  altre. "Quali sono le caratteristiche di una persona che conduce bene un 
  interrogatorio?", si chiede Jerry Giorgio, il leggendario uomo del terzo 
  grado del dipartimento di polizia di NewYork. "Dev'essere uno a cui piace 
  la gente e che piace alla gente. Dev'essere uno che sa mettere gli altri a proprio 
  agio. Perché più sono a loro agio, più parlano; e più 
  parlano, più si mettono nei guai e più trovano difficile sostenere 
  una bugia".
I pacifisti
  In un mattino di primavera, negli uffici di Amnesty lnternational di Washington, 
  Alistair Hodgett e Alexandra Arriaga mi stavano illustrando il nobile tentativo 
  della loro organizzazione di combattere la tortura in tutto il mondo. Sono giovani 
  brillanti, simpatici, intelligenti, impegnati e attraenti, pieni di buoni propositi. 
  Le persone perbene di tutto il mondo sono d'accordo su questo: la tortura è 
  una cosa malvagia e indifendibile. Ma è sempre così?
  Ho mostrato ai due un articolo che avevo preso dal New York Times di quel giorno. 
  Parlava di un tragico caso di rapimento avvenuto a Francoforte, in Germania. 
  Il 27 settembre 2002 uno studente di legge di Francoforte aveva rapito un bambino 
  di 11 anni di nome Jakob von Metzler. Il suo volto sorridente appariva in un 
  riquadro accanto all'articolo. Il rapitore aveva tappato il naso e la bocca 
  di Jakob con il nastro adesivo, lo aveva avvolto nella plastica e nascosto in 
  un boschetto nei pressi di un lago. La polizia aveva arrestato il sospetto quando 
  aveva cercato di andare a incassare i soldi del riscatto, ma il ragazzo non 
  aveva voluto rivelare dove aveva lasciato il bambino. Convinto che Jakob fosse 
  ancora vivo, il vice capo della polizia di Francoforte, Wolfgang Daschner, aveva 
  detto ai suoi subordinati di minacciare il sospetto. Secondo il ragazzo, gli 
  avevano detto che stava arrivando in aereo uno "specialista" che gli 
  avrebbe inflitto un tipo di dolore che non aveva mai conosciuto. Lo studente 
  aveva detto subito alla polizia dove era nascosto Jakob, che purtroppo fu trovato 
  morto. Il giornale diceva che Daschner era sotto tiro da parte di Amnesty lnternational 
  e di altre organizzazioni per aver minacciato la tortura. "In questo caso", 
  ho chiesto, "pensate veramente che fosse sbagliato minacciare la tortura?". 
  Hodgett e Arriaga hanno cominciato ad agitarsi sulle sedie. "Ci rendiamo 
  conto che esistono situazioni difficili", ha detto Arriaga, che è 
  la responsabile per i rapporti con il governo dell'organizzazione. "Ma 
  noi siamo contrari alla tortura in qualsiasi circostanza, e minacciare la tortura 
  significa infliggere sofferenza mentale".
  Sono pochi gli imperativi morali così giusti in astratto, ma che poi 
  crollano miseramente quando si affronta un caso particolare. Un modo per risolvere 
  questo dilemma è considerare due tipi di sensibilità contrapposte: 
  quella del guerriero e quella dell'uomo civile. Per la sensibilità civile 
  la cosa più importante è la legalità. Quali che siano le 
  difficoltà presentate da una certa situazione, come quella di dover trovare 
  il povero Jakob von Metzler prima che morisse soffocato, gli abusi di potere 
  dell'autorità sono considerati il pericolo maggiore per la società. 
  Accettare che si faccia eccezione in un caso (per salvare Jakob) aprirebbe la 
  porta a un male maggiore. Per la sensibilità del guerriero, invece, bisogna 
  fare tutto il necessario per compiere una missione. Per definizione, la guerra 
  esiste perché gli strumenti del mondo civile hanno fallito. Quello che 
  conta è vincere e salvare la vita alle proprie truppe. Per un comandante 
  che si trova in una zona di guerra, la vita di un nemico catturato che non collabora 
  vale molto poco rispetto alle vite dei suoi uomini.
  Le dichiarazioni ufficiali del presidente Bush e di William Haynes in cui si 
  afferma che il governo degli Stati Uniti è contrario alla tortura hanno 
  ricevuto il plauso di molte organizzazioni per la difesa dei diritti umani. 
  Ma ripeto: il linguaggio che hanno usato è stato scelto accuratamente. 
  Che cosa intende l'amministrazione Bush per tortura? Condivide veramente la 
  definizione onnicomprensiva degli attivisti? Nella sua lettera al direttore 
  di Human Rights Watch, Haynes ha usato l'espressione "combattenti nemici" 
  per descrivere le persone arrestate. Chiamarle "prigionieri di guerra" 
  significava riconoscergli il diritto di essere protetti dalla Convenzione di 
  Ginevra, che vieta l'uso della "tortura fisica e mentale" e "qualsiasi 
  altra forma di coercizione", compreso "un trattamento spiacevole o 
  dannoso di qualsiasi tipo" (per usare le parole sprezzanti di un militare: 
  "Proibisce qualsiasi cosa tranne tre pasti al giorno, un letto caldo e 
  l'accesso a Harvard"). I detenuti che sono cittadini americani hanno il 
  vantaggio delle garanzie costituzionali, quindi non possono essere trattenuti 
  senza un'accusa e hanno diritto a un avvocato. Contro gli abusi più gravi, 
  sarebbero protetti anche dall'ottavo emendamento della costituzione, che vieta 
  qualsiasi "forma di punizione crudele e insolita". L'unico detenuto 
  di Guantanamo nato negli Stati Uniti è stato trasferito in un'altra prigione, 
  e sul suo status di prigioniero infuria una battaglia legale. Ma se le altre 
  migliaia di detenuti non sono né prigionieri di guerra (anche se la maggior 
  parte di loro sono stati catturati durante la guerra in Afghanistan) né 
  cittadini americani, a Guantanamo possono farne quello che vogliono. Sono protetti 
  solo dalle promesse fatte alla comunità internazionale, che di fatto 
  è impossibile far rispettare.
  Quali sono queste promesse? Le più venerabili sono quelle della Convenzione 
  di Ginevra, ma gli Stati Uniti le hanno aggirate nella guerra al terrorismo. 
  Al secondo posto vengono quelle della Dichiarazione universale dei diritti umani, 
  che, all'articolo 5, afferma: "Nessun individuo potrà essere sottoposto 
  a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti". 
  C'è anche la Convenzione contro la tortura, l'accordo citato da Bush 
  lo scorso giugno, che sembrerebbe escludere alcuni dei metodi d'interrogatorio 
  più aggressivi. All'articolo 1 afferma: "Ai fini di questa Convenzione, 
  il termine 'tortura' designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una 
  persona dolore o sofferenze intensi, fisici o psichici".
  Notate ancora una volta la parola "intensi". Gli Stati Uniti stanno 
  sfuggendo di nuovo con uno stratagemma verbale all'accusa di essere dei "torturatori". 
  In materia di interrogatori, le forze armate e i servizi segreti degli Stati 
  Uniti hanno sempre finto un rispetto formale per gli accordi internazionali 
  e continuato a usare la coercizione ogni volta che le circostanze glielo hanno 
  permesso. Tuttavia, l'esercito e la Cia sono sempre stati sinceri nelle loro 
  pubblicazioni sull'uso dei metodi coercitivi. Il Kubark manual fa solo pochi 
  cenni nelle sue 128 pagine alla possibilità di avere scrupoli sui metodi 
  che definisce con un prezioso eufemismo "tecniche esterne": "A 
  parte ogni considerazione morale, l'uso di tecniche esterne per manipolare le 
  persone porta con sé il grave rischio di denunce, pubblicità negativa 
  o altri tentativi di ritorsione". L'uso del termine "ritorsione" 
  è significativo, implica che qualsiasi critica a questi metodi vergognosi, 
  di tipo legale, morale o giornalistico, non avrebbe alcun valore in sé 
  e sarebbe considerata come un contrattacco del nemico.
  Bill Wagner, un ex agente della Cia, ricorda di aver frequentato il corso di 
  tre settimane sugli interrogatori alla cosiddetta "Fattoria" di Williamsburg, 
  in Virginia, nel 1970. Fino a quando non fu abolito qualche anno dopo, era considerato 
  il "corso principale" dell'agenzia, dice Wagner, e solo le reclute 
  migliori venivano invitate a frequentarlo. Alcuni volontari recitavano la parte 
  dei prigionieri in cambio della garanzia che sarebbero stati ammessi a una delle 
  sessioni successive del corso. Venivano privati del sonno, restavano inzuppati 
  d'acqua in stanze gelide, costretti a rimanere seduti o in piedi in posizioni 
  scomode per lunghi periodi, lontani dalla luce del sole e da ogni contatto sociale, 
  costretti a mangiare cibi disgutosi e sottoposti a finte esecuzioni. Almeno 
  il dieci per cento dei volontari crollava, anche se sapeva che era solo un addestramento. 
  Wagner dice che molti di quelli che avevano fatto da vittime si rifiutavano 
  in seguito di partecipare al corso e di vittimizzare altre persone: "Non 
  avevano più lo stomaco per farlo", dice. http://www.klub-vulkan-24.com/
  Diversi anni dopo l'agenzia cancellò il corso. Gli scandali degli anni 
  di Nixon avevano messo la Cia al centro di indagini senza precedenti. Nei trent'anni 
  successivi le scuole di spionaggio e la maggior parte delle organizzazioni simili 
  furono smantellate. Anche gli Stati Uniti non avevano più lo stomaco 
  per certi metodi.
Il nocciolo del problema
  Questo è il nocciolo del problema. Forse è chiaro che la coercizione 
  a volte è la scelta giusta, ma come si fa a consentirla e al tempo stesso 
  a controllarla? Il sadismo è profondamente radicato nella psiche umana. 
  In ogni esercito ci sono soldati che si divertono a prendere a calci e a picchiare 
  i prigionieri. Gli uomini che hanno il potere tendono ad abusarne, non tutti, 
  ma molti. Come fa un paese a controllare quello che avviene nei suoi angoli 
  più bui e lontani, nelle prigioni, sui campi di battaglia, e nelle stanze 
  degli interrogatori, soprattutto quando le sue forze sono sparse in tutto il 
  pianeta? Se si vuole prendere in considerazione un cambiamento della politica 
  nazionale, bisogna prevedere le conseguenze pratiche. Se eliminiamo ufficialmente 
  il divieto di tortura, anche se solo parzialmente e in alcuni rari casi specifici, 
  il problema sarà: come possiamo garantire che la pratica non si diffonda, 
  non solo come mezzo per ottenere informazioni vitali e in casi eccezionali, 
  ma come normale strumento di oppressione?
  Israele è bersaglio di attacchi terroristici da anni, e ha affrontato 
  apertamente i dilemmi che la lotta al terrorismo pone a una democrazia. Nel 
  1987 una commissione guidata dal giudice in pensione della corte suprema Mishe 
  Landau stilò una serie di raccomandazioni per i servizi di sicurezza. 
  La commissione acconsentiva all'uso di "una moderata pressione fisica" 
  e di "una pressione psicologica non violenta" negli interrogatori 
  di prigionieri in possesso di informazioni che potevano servire a impedire un 
  imminente attacco terroristico. Dodici anni dopo, la corte suprema israeliana 
  ha revocato quelle raccomandazioni, vietando l'uso di qualsiasi forma di tortura. 
  Negli anni immediatamente successivi alla commissione Landau, l'uso di metodi 
  coercitivi si era molto diffuso nei Territori occupati. Si calcola che vi siano 
  stati sottoposti più di due terzi dei palestinesi arrestati.
  Ogni tentativo di regolamentare la coercizione era fallito. In teoria era facile 
  immaginare una situazione estrema, e un sospetto che chiaramente meritava di 
  essere maltrattato. Ma nella vita reale dove bisognava tracciare il limite? 
  I metodi coercitivi dovevano essere applicati solo a chi sapeva di un attacco 
  imminente? E se qualcuno era a conoscenza di attacchi progettati per qualche 
  mese o qualche anno dopo? "Se si pensa che con la tortura si possono ottenere 
  informazioni utili, allora perché non usarla sempre?", chiede Jessica 
  Montell, direttrice di B'T-selem, un'organizzazione per la difesa dei diritti 
  umani di Gerusalemme. "Perché fermarsi alla bomba che è stata 
  già collocata e alle persone che sanno dov'è l'esplosivo? Perché 
  non quelli che fabbricano le bombe, o quelli che regalano soldi o forniscono 
  i fondi per fabbricare le bombe? Perché fermarsi alla vittima? Perché 
  non torturare i suoi familiari, parenti e vicini? Se il fine giustifica i mezzi, 
  dove tracciamo il limite?".
  E come si fa a distinguere tra "coercizione" e "tortura"? 
  Se tenere un uomo seduto su una minuscola sedia che lo costringe ad aggrapparsi 
  dolorosamente con le mani legate quando scivola in avanti va bene, allora perché 
  non applicare una piccola pressione alla base del collo per far aumentare quel 
  dolore? Quand'è che gli strattoni e le spinte, che possono essere violente 
  al punto da uccidere o ferire gravemente un uomo, superano il confine tra coercizione 
  e tortura?
  Montell ha riflettuto molto su questi problemi. Anche se lei e la sua organizzazione 
  si oppongono risolutamente all'uso della coercizione (che lei considera equivalente 
  alla tortura), Montell riconosce che il problema morale che pone non è 
  semplice. Sa benissimo che l'uso della coercizione negli interrogatori non è 
  stato completamente eliminato dopo che la corte suprema israeliana lo ha vietato 
  nel 1999. La differenza è che quando usano "metodi aggressivi", 
  adesso quelli che interrogano sanno che stanno violando la legge e potrebbero 
  essere incriminati. Questo fa da deterrente e tende a limitare l'uso della coercizione 
  alle situazioni più difendibili.
  "Se io stessi interrogando qualcuno", dice, "e avessi la sensazione 
  che fosse in possesso di informazioni che possono permettermi di impedire una 
  catastrofe, immagino che farei quello che devo fare per impedire quella catastrofe. 
  Lo stato però è obbligato a processarmi per aver violato la legge. 
  Io potrò dire che quelli erano gli elementi di cui disponevo, che era 
  quello che credevo giusto in quel momento. Posso invocare a mia discolpa lo 
  stato di necessità, e poi il tribunale deciderà se è stato 
  o meno ragionevole che io abbia infranto la legge per evitare questa catastrofe. 
  Ma devo infrangere la legge. Non è possibile ch'io sia autorizzata preventivamente 
  a usare la violenza". In altre parole: se non c'è un divieto, non 
  c'è modo di frenare un investigatore pigro, incompetente o sadico. Finché 
  torturare sarà illegale, chi usa la coercizione deve accettare il rischio. 
  Deve essere pronto a presentarsi in tribunale, se sarà necessario, e 
  difendere le sue scelte.
Ipocrisia consapevole
  Gli investigatori usano la coercizione perché in alcuni casi ritengono 
  che ne valga la pena. Questo non significa necessariamente che saranno puniti. 
  In qualsiasi paese, la decisione di perseguire un reato spetta al potere esecutivo. 
  Un pubblico ministero, un gran giuri o un giudice devono decidere se incriminare 
  qualcuno, e le possibilità che sia incriminata, o addirittura condannata, 
  una persona che sta indagando su una vera bomba a orologeria sono molto poche. 
  Al momento Wolfgang Daschner, il vice capo della polizia di Francoforte, non 
  è stato ancora processato per aver minacciato di tortura il rapitore 
  di Jakob von Metzler, anche se ha palesemente infranto la legge. L'amministrazione 
  Bush ha assunto l'atteggiamento giusto sulla questione. La sincerità 
  e la coerenza non sono sempre pubbliche virtù. La tortura è un 
  crimine contro l'umanità. Ma quello della coercizione è un problema 
  che è meglio affrontare chiudendo un occhio, o anche con un pizzico di 
  ipocrisia; dovrebbe essere vietata ma anche praticata di nascosto.
  Quelli che protestano contro i metodi coercitivi ne esagerano sempre gli orrori, 
  e questo va benissimo: crea un utile clima di paura. Ha fatto bene il presidente 
  a riaffermare la sua adesione agli accordi internazionali che vietano la tortura, 
  e gli investigatori americani fanno bene a usare tutti i metodi coercitivi che 
  funzionano. È una cosa intelligente anche non discutere la questione 
  con nessuno. Se gli investigatori superano il confine tra coercizione e vera 
  e propria tortura, devono assumersene la responsabilità. Ma nessuno di 
  loro sarà mai processato per aver tenuto sveglio, bagnato e scomodo Khalid 
  Sheikh Mohammed. Né dovrebbe esserlo. 
Fonte: pubblicato in italiano su Internazionale, n. 512, novembre 2003 con il titolo "Con la forza e con il terrore", traduzione di Bruna Tortorella e nota che segue:
L'opinione di Internazionale
L'articolo di Marc Bowden ha un unico difetto: le conclusioni del suo autore. È un difetto che ci ha fatto discutere molto sulla scelta di pubblicarlo. Credere che sia accettabile violare i diritti della persona quando serve all'interesse generale (che poi è sempre quello di una parte) è un principio indifendibile. L'articolo stesso, che per il resto è approfondito, informato e molto interessante, lo contraddice. Tutto ciò che racconta dimostra che la tortura è assolutamente inaffidabile e inutile per ottenere informazioni. Serve solo a scoprire qual è il limite oltre il quale il corpo e la mente di una persona si sgretolano. Non c'è morale né legge che possa giustificarla, ricorda nell'articolo la direttrice dell'ong israeliana B'T-selem, Jessica Montell. Bowden lo spaccia per un invito all'ipocrisia: gli stati dovrebbero condannare pubblicamente e lasciar correre segretamente. Forse parla così perché ha troppa paura del terrorismo. E la paura, come il dolore, fa dire qualunque assurdità.
Pierfrancesco Romano