Capitolo II
Una questione politica: la plebe
Quando, a partire dal 1971, Foucault comincia a occuparsi di carcere, situa la
sua azione su un piano immediatamente politico, strategico. Si tratta, dice, di
fare del carcere un «bersaglio», di costituire un fronte d'attacco esponendo
alla piena visibilità, come oggetto di contesa, questa istituzione considerata
come «una delle regioni nascoste del nostro sistema sociale, una delle caselle
nere della nostra vita». Questa azione si dispiega allora su un doppio registro:
quello della pratica - con la creazione del Groupe d'information sur les prisons
(GIP) e il fermento attorno alle carceri - e quello di un lavoro di conoscenza,
di delucidazione teorica che prende la forma di una genealogia dell'istituzione
moderna del carcere nel quadro più generale di un lavoro sulle società di
disciplina. Due attività che si presentano tanto rigorosamente distinte quanto
strettamente imbricate - si vedano le ultime righe di Sorvegliare e Punire, che
si conclude bruscamente con l'evocazione del «rumore sordo e prolungato della
battaglia» (le rivolte nelle carceri all'inizio degli anni Settanta), il cui
fracasso è chiamato a sostituire la severa musica dell'analisi teorica.
Comunque, che il carcere sia considerato come posta in gioco storico-filosofica,
o come teatro di uno scontro politico immediato, è sempre il potere a essere in
questione: «Infatti, non m'interessa il detenuto come persona. Mi interessano le
tattiche e le strategie di potere che soggiacciono a questa istituzione
paradossale, sempre criticata e sempre in procinto di rinascere, che è la
prigione». Puntualizzazione tanto più importante dato che l'insistenza di Foucault
sul tema dell'intollerabilità del sistema penitenziario, sulla necessità di una
presa di parola (e di scrittura) da parte degli stessi detenuti, potrebbe
indurre a pensare che il suo approccio allo scandalo penitenziario sia prima di
tutto morale, fondato sull'argomento della sofferenza dei detenuti. Ma non è
questo il caso: l'indignazione e la collera che attraversano gli innumerevoli
articoli, interviste, prefazioni, ecc. che Foucault dedica nel corso di più di
un decennio alla questione delle prigioni si dispiegano in un orizzonte storico
e politico. Non è in quanto vittima che il detenuto è percepito, ma in quanto
soggetto e attore di una storia politica disconosciuta e inaudibile: «Bisognava
fare entrare la prigione nell'attualità, non sotto forma di problema morale, o
di problema di gestione generale, ma come un luogo dove si svolge la storia, il
quotidiano, la vita, avvenimenti dello stesso ordine di uno sciopero in
un'officina, di un movimento di rivendicazione in un quartiere, di una protesta
in una grande periferia». Questa storia vietata (più che «rimossa») è quella del
delinquente, figura moderna per antonomasia e del tutto diversa dal brigante
Ancien Régime; è la storia del plebeo marginalizzato che non si è integrato nel
processo di mobilitazione della forza lavoro attuato dalla produzione
capitalista. Nel XIX secolo il proletariato è stato indotto a separarsi dai
propri strati marginali, intraprendendo la via della rinuncia alla ribellione
aperta e all'azione violenta in cambio dei diritti e delle garanzie che gli
prometteva la borghesia. Il movimento operaio è stato spinto così a convalidare
un sistema di moralità «venuto fuori dalla classe dirigente e ad accettare, in
fin dei conti, la distinzione borghese tra vizio e virtù». Un processo che
conduce all'aneddoto raccontato da Jean Genet: quello del militante comunista
che, rifiutando di farsi incatenare all'autore di Notre-dame des Fleurs durante
un trasferimento dalla prigione di Fresnes al Palazzo di giustizia, prorompe:
«Ah no, non con un ladro!».
La produzione di questa plebe non integrabile, di
questo rifiuto dell'ordine produttivo e morale, costituisce una delle maggiori
poste in gioco per i dispositivi di potere nelle società moderne: permette di
rinnovare costantemente le operazioni di divisione del popolo (proletariato
contro lumpenproletariat, lavoratori onesti contro mascalzoni e teppisti, oneste
casalinghe contro donne di strada ... ). E offre una giustificazione permanente
alla perpetuazione dell'ordine poliziesco e penitenziario enfatizzando i
misfatti dei delinquenti ed evocando la minaccia, che rappresentano le classi
pericolose. La persistenza di questa plebe induce Foucault a formulare
un'ipotesi che riguarda i fondamenti stessi dei regimi politici moderni: «A
nostro avviso ciò significa che c'è sempre un gruppo umano, i cui limiti
variano, alla mercé degli altri. Nel XIX secolo queste erano le classi
pericolose, oggi è ancora la stessa cosa».
In maniera ancora più radicale,
proseguendo sulla scia della Storia della follia nell'età classica, Foucault
scrive: «Attraverso quale sistema d'esclusione, eliminando chi, creando quale
divisione, attraverso quale gioco di negazione e di rifiuto la società può
cominciare a funzionare?». Il carcere gioca dunque un triplo ruolo nelle società
moderne: essere il luogo di ammasso degli «eliminati», isolare il delinquente per
definire i suoi misfatti e i suoi crimini come ciò che giustifica l'esistenza
della polizia, costituire un laboratorio per le pratiche disciplinari. La posta
in gioco del carcere è dunque inseparabile da quella della produzione della
plebe e della sua separazione dal corpo popolare. I contorni di questa plebe
sono variabili, ma la persistenza di questo «resto» è necessaria alla produzione
dell'ordine. È in questo senso che il carcere deve essere considerato come
un'istituzione fondamentalmente politica e non può essere percepito solamente
dal punto di vista delle regolarità e irregolarità sociologiche. Se l'esistenza
della plebe è il risultato di separazioni irrevocabili connesse con le logiche
dell'ordine, la posta in gioco politica si palesa nel momento in cui prende
corpo una soggettività o una parola plebea.
L'operazione di rifiuto o di
eliminazione di questo resto inassimilabile del popolo presuppone che non ne
possa sortire alcuna forma di razionalità, di riflessività, di discorso
articolato: folli, devianti e criminali di ogni tipo sono votati dalle logiche
dell'ordine a un rigoroso mutismo, e quando rimane una fragile traccia della
loro esistenza, sarà solamente quella che l'autorità o l'istituzione avrà
registrato per assicurarsi una presa su questi corpi ribelli. La plebe, in
questo senso, non sembra mai essersi completamente sbarazzata di una condizione
quasi animale, e il suo elemento resta, da questo punto di vista, il grido
piuttosto che la parola, in ogni caso mai il discorso articolato in
ragionamento. Se la regola del silenzio si impone nella prigione del XIX secolo,
è evidentemente per ragioni disciplinari, ma anche perché, nella
rappresentazione che ne hanno i teorici dell'ordine, i criminali detenuti non
sono veramente esseri parlanti.
Foucault mostra, a proposito di Lacenaire, come
si costituisce questa figura di criminale divenuta oggetto degli sguardi
convergenti del giudice, dello scienziato, del medico (poi, più tardi, dello
psichiatra, dello psicologo, dell'educatore, ...). La parola o lo scritto di un
tale individuo, anche se istruito, non saranno tollerati se non a condizione che
egli si limiti a esercitarsi nel ricordo del suo misfatto; ma essi sono senza
scampo colpiti dall'interdizione qualora il colpevole dell'infrazione volesse
pensare il suo crimine, problematizzare «dal punto di vista di chi ha commesso
l'infrazione, il senso politico dell'infrazione». L'istituzione non potrebbe
sopportare una riflessione sull'infrazione che venisse dalla plebe indocile e
deviante, non potrebbe sopportare una forma qualsiasi di «riflessione sulla
legge» fondata «sul rifiuto attivo della legge». In altri termini, la plebe
delinquente diventa intollerabile per l'ordine non appena esce dal ruolo muto o
quanto meno estraneo alla ragione che le è assegnato - allora produce
perturbazioni che rendono necessaria la presenza poliziesca, l'azione repressiva
della giustizia e l'istituzione penitenziaria.
Tuttavia, dice Foucault, il
carcere diventa dopo il maggio 1968 una questione politica (quando invece,
tradizionalmente, «i movimenti politici non sono stati associati ai movimenti
delle carceri»), perché si è prodotto un guasto nella ripartizione fra plebe e
proletariato organizzato. Militanti politici colpiti dalla repressione hanno
scoperto l'universo penitenziario, si sono avvicinati ai detenuti comuni e hanno
provocato l'apparizione fuori dal carcere di uno spazio pubblico nel quale in
primo piano è posto all'attenzione proprio l'ordine penitenziario. Nelle carceri
esplodono rivolte la cui caratteristica, afferma Foucault, è di «mettere in
questione lo statuto del plebeo marginale nella società capitalista».
Fanno la
loro apparizione nuovi plebei la cui violenza ha significato politico. Senza
dubbio non è casuale che i movimenti di rivolta e le sommosse che dagli anni
Settanta infiammano periodicamente le carceri riattivano in modo naturale la
forma immemore della jacquerie, della rivolta dei pezzenti, dell'incendio del
castello, una sorta di festa selvaggia senza domani, ma esplosiva e gioiosa;
impietosamente repressa, è tuttavia per i detenuti un'indimenticabile sagra. In
queste circostanze le rivendicazioni sono meno importanti dell'azione stessa,
quella dei prigionieri che spezzano le catene, degli schiavi che si ribellano.
Ricordando uno di questi avvenimenti, un'ex carcerata ritrova spontaneamente la
vena del testo che Elias Canetti consacra alla rivolta popolare: «Nessun
pensiero politico coerente per guidarci, solo le ondate straripanti della
rivolta primitiva ci trascinano».
Del resto in quel momento i detenuti comuni
pubblicano libri che non rientrano nel genere tradizionale - «Ricordi di un
ladro» o «Memorie di un detenuto» - ma che sono invece una presa di scrittura di
colui che ha commesso un'infrazione o di un criminale che analizza e denuncia
l'ordine sociale come disordine istituito (Serge Livrozet, Jacques Mesrine,
Roger Knobelspiess negli anni Settanta, poi, più recentemente, Claude Lucas,
Louis Perego, Philippe Maurice). È nella breccia aperta in questo
scombussolamento delle ripartizioni tradizionali fra il criminale e i suoi
giudici, l'infrazione e la legge, il lavoratore e il ladro, le discipline e i
disordini, che si costituisce una nuova visibilità quella della prigione come
«macchina di morte» che fa scandalo nel presente e che provoca l'apertura di uno
spazio di lotta e di contestazione - e «che l'intollerabile imposto con la forza
e con il silenzio smette di essere accettato». Appaiono allora autori di un
racconto plebeo del carcere la cui condizione è paradossale: la loro presa di
scrittura testimonia il silenzio al quale resta condannata la schiacciante
maggioranza dei detenuti. Da questo punto di vista, essi occupano la posizione
ambigua del «testimone del testimone» di cui in un altro contesto parla Giorgio
Agamben. Scrivendo, essi si dissociano dalla condizione ordinaria del detenuto e
testimoniano la capacità di sottrarsi alle regole del mondo penitenziario (ne
escono appunto attraverso la scrittura).
Sfuggono dunque al peggio della
condizione penitenziaria, non ne toccano quel fondo che, in quanto esperienza,
si sottrae a ogni possibilità di comunicazione. Ma in quanto testimoni del
proscritto senza possibilità di parola, diventato dunque inaudibile, essi
giocano il ruolo del passeur, indispensabile nella produzione di un salutare
disordine rispetto al carcere. Ciò di cui parla Foucault è dunque la
politicizzazione della questione del carcere, politicizzazione resa possibile
dall'irruzione nel campo del discorso di un collettivo costantemente privato
della parola (i detenuti) e dalla costituzione di uno spazio pubblico che
riguarda un'istituzione tradizionalmente sottratta allo sguardo e alla
contestazione.
Questa politicizzazione prende la forma dell'attivazione di un
conflitto fra lo Stato, le forze di repressione e un fronte che raccoglie sia
«la frazione di classe operaia che ha costantemente a che fare con la polizia»
(e dunque con la prigione), sia quelli per i quali la prigione è diventata
«fisicamente, politicamente, insopportabile». Se la politica qui passa
certamente attraverso la mobilitazione delle emozioni, se sono proprio la
collera e l'indignazione che innescano azioni - e corpi - militanti, non è però
nel registro del lamento umanitario che va a dispiegarsi questa lotta: è una
resistenza che ha l'ambizione di nuocere a dispositivi di potere destinati a
mettere a tacere per sempre i vinti e i muti della storia: «Cerco semplicemente
di vedere, di fare apparire e di trasformare in un discorso leggibile da tutti,
ciò che ci può essere di più insopportabile per le classi più svantaggiate
nell'attuale sistema di giustizia».
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