Capitolo XI
Il carcere e la città
È precisamente qui che il tema tanto in voga dell'inserimento della prigione
nella città trova il suo limite: questa magra utopia si scontra con l'ostacolo
dell'immobilità programmata dell'istituzione penitenziaria e con la costanza dei
discorsi securitari, il cui effetto è di preservare all'infinito la condizione
di «mondo a parte» del carcere, il suo statuto d'eccezione.
Lo sforzo di quella
parte illuminata della società che persevera nel tentativo di fare evolvere la
condizione penitenziaria si scontra con l'opposizione di principio a ogni
progetto di riforma proveniente dal bunker dei sindacati degli operatori
penitenziari. In un gioco abbastanza perverso, l'argomento dell'immobilismo da
parte del personale penitenziario serve a fondare la perpetuazione del
realismo securitario a spese della fantasticheria su quella «banalizzazione»
della prigione che ne renderebbe possibile il suo inserimento nella città.
Del
resto, sottolinea Claude Lucas, è difficile supporre che il progetto
d'inserimento dell'istituzione penitenziaria potrebbe avere successo «quando si
sa che la maggioranza della sua popolazione [i detenuti] non realizzerà mai il
proprio». Il carcere, che lui chiama «la città dei rifiuti», non può che restare
assolutamente eterogeneo alla città degli uomini. La questione dell'inserimento
del carcere nella città è un falso problema: nella migliore delle ipotesi una
generosa illusione, nella peggiore uno slogan demagogico.
Opponiamogli la sola
prospettiva storica che abbia valore: scarcerare la società.
Nella primavera
2001, la guardasigilli, forse per la prima volta nella storia delle carceri
francesi, ha consultato direttamente (cioè senza passare attraverso i sindacati)
il personale penitenziario sulla supposta «crisi» dell'istituzione. Le risposte
pubblicate si discostano un pò dal tono ossessivamente securitario dei
sindacati numericamente più importanti: il tema della «città» ricorre
insistentemente («la prigione deve poter funzionare come una città che riproduce
tutti gli spazi e i poli di attività della vita all'esterno se si vogliono
preparare i detenuti a una socialità normale»; «l'istituzione penitenziaria deve
iscriversi nella città e non esserne esclusa da una localizzazione geografica di
difficile accesso»). Tutti i temi dell'approccio illuminato, riformatore e
perfino filantropico del carcere del XIX secolo ritornano in forze: esso deve
essere «un luogo neutro di rinnovamento dell'individuo», deve giocare un ruolo
«socializzante» per i detenuti, bisogna che la detenzione sia «un tempo utile»,
«la punizione non deve essere un'umiliazione», i detenuti hanno diritti, e così
via.
Sul versante delle buone intenzioni, come su quello dei discorsi e delle
pratiche securitarie, la storia del carcere è un balbettio che non ha fine:
tutti denunciano il sovraffollamento e all'unisono domandano «celle singole»,
ossia il ritorno al punto di partenza proposto da Tocqueville.
Qualche mese prima
di questa consultazione del personale penitenziario, Jean-Louis Daurnas,
direttore del centro di detenzione di Caen e noto rappresentante della frazione
più audace dell'amministrazione penitenziaria, nel corso di un convegno sul
carcere ha lanciato un appello a favore della «prigione repubblicana»,
conferendo a questo motivo ormai più che secolare una tonalità quasi utopica e
visionaria. La storia del carcere sembra condannata a parafrasarsi
all'infinito.
La nuova generazione di guardie carcerarie aspira a vedere il proprio statuto
progressivamente allineato a quello degli operatori sociali, volendo al contempo
disfarsi di quello tradizionale del secondino: seguire i detenuti con «pene
alternative», lavorare in ambiente aperto, vedersi affidare il compito di
animare piccoli gruppi come avviene in alcuni centri di giovani detenuti, ecco
ciò che potrebbe interessarli e valorizzarli invece del ruolo di portachiavi
al quale sono spesso ridotti. Alcuni non esitano a criticare le pene di lunga
durata e reclamano attenzioni particolari per i carcerati indigenti o una migliore
presa in carico dei disturbi psichiatrici. Queste prese di posizione, senza
arrivare fino alla «vera e propria rivoluzione culturale» euforicamente
descritta da una rivista, sono interessanti perché mostrano che anche le categorie
subalterne dell'amministrazione penitenziaria sono sensibili allo scandalo delle
carceri. Ma basta che accadano alcuni incidenti - che un sorvegliante sia ferito
e altri siano presi in ostaggio durante un tentativo d'evasione fallito (come
è accaduto a Fresnes qualche settimana dopo questa consultazione) - e i riflessi
securitari riprendono il sopravvento: colloqui bloccati, liberazioni dei detenuti
interrotte, picchetti sindacali agli ingressi delle carceri, proteste contro
il supposto lassismo ministeriale. Nella loro assoluta mancanza di consequenzialità,
gli stessi media che un anno prima si rifacevano a Véronique Vasseur per denunciare
l'abominio carcerario, si accodano ora agli attivisti del bunker: più mezzi
di repressione, più sicurezza, più considerazione per le guardie. E vengono
presto dimenticati i discorsi sensibili al vicolo cieco delle lunghe pene (uno
dei due sequestratori scontava una pena di trent'anni per rapina a mano armata)
sull'onda del grande brivido suscitato dalla «Fresnes story» - desperados
etichettati come «molto pericolosi» e armati di grossi calibri, elicotteri
che sorvolano il cortile del carcere, spari, guardie piene d'abnegazione che
arrivano a dialogare con i forsennati, fallimento del tentativo. E in questo
caso non è il medico indignato dalle condizioni di detenzione di 50.000 carcerati,
ma la guardasigilli, in ammirazione davanti alle due guardie prese in ostaggio,
che enuncia la morale della storia: «C'è stata molta paura, coraggio, umanità.
Alla fine i due ostaggi erano liberi. Non restava che il RAID [le "teste di
cuoio" della polizia transalpina, N.d.R.] e il detenuto armato. Solo. Aveva
detto addio a sua madre. C'era la convinzione che volesse farla finita, ma come?
Ebbene, sono stati i due ostaggi che avevano passato alcune ore con lui che
al telefono hanno trovato le parole per evitare il peggio. Formidabile, no?».
Lo scandalo delle carceri ridotto a un'emozionante, drammatica, trasmissione
televisiva: formidabile in effetti. Non meno dell'ergastolo ormai promesso ai
due infelici candidati che nel linguaggio ministeriale si designa come il peggio
evitato. Quando si discute del carcere i media dimostrano tutta la loro incoerenza
mettendo l'accento talvolta sulla drammaturgia oscura e affascinante di cui
esso è il luogo (dove c'è il baluginio del crimine e della violenza, l'orrore
dei castighi, il vento della rivolta o dell'evasione ... ), talaltra su ciò
per cui il nostro animo sensibile si adombra (miseria, derelizione, abbandono,
crudeltà, indifferenza...).
È la stessa stampa che enfatizza la vicenda degli ostaggi di Fresnes
con il suo epilogo morale (la legge e l'ordine hanno la meglio) e che accoglie
con favore l'implacabile libro requisitoria della sociologa Anne-Marie Marchetti
contro il sistema delle lunghe pene come sostituto della pena di morte. Questo
libro analizza l'allungamento costante delle pene negli ultimi decenni («I
detenuti che scontano una pena di cinque anni e più rappresentavano il 37,8%
dei condannati al 19 luglio 1999 contro il 24% al luglio 1975») come dispositivo
d'ordine e non solamente come tendenza. Mostrando per esempio che il nuovo codice
penale del 1994, «in alcuni ambiti tendenzialmente più repressivo del precedente»,
favoriva l'allungamento delle pene; ricordando che la sinistra di governo aveva
«contribuito a fare entrare nel nuovo codice penale un tempo di detenzione
di sicurezza pari a trent'anni»; sottolineando che l'abolizione della pena
di morte aveva «ulteriormente spinto alla produzione di un arsenale legislativo
che ha segnato un arretramento rispetto al movimento progressista e umanista
che l'aveva suscitata»; e insistendo su questo punto chiave: le pene di
lunga durata hanno la funzione di rassicurare un'opinione pubblica sensibile
alle questioni della sicurezza e sono la chiave di volta dell'arsenale destinato
a governare «securitariamente».
Le «pene di lunga durata» (detenuti condannati a dieci o più anni) sono
il nodo essenziale di questa politica destinata a rassicurare comminando ad
alcune categorie di infrattori pene terribili e devastanti. Inteso come dispositivo
dì terrore e d'esclusione, il sistema delle pene di lunga durata contribuisce
anche a rinforzare il nuovo regime «vittimista» della politica: pene
irriducibili saranno comminate dai tribunali, con la benedizione dell'istituzione
politica, in nome delle vittime reali dei reati e, perfino, in nome di tutte
le vittime virtuali.
«La preminenza accordata negli ultimi decenni
alla voce delle vittime spinge al 'sempre di più' nella reclusione e la
legittima», scrive Anne-Marie Marchetti. Questa tendenza la si ritrova
naturalmente nelle parole della guardasigilli «liberale» dopo il tentativo
d'evasione di Fresnes, nel maggio 2001: «Gli agenti di custodia condividono,
come me, l'inquietudine delle vittime e delle loro famiglie. 'Non fateli
uscire', mi ha detto il padre di una vittima di Guy Georges. È vero, ci sono dei
casi per i quali la società non è pronta a parlare di reinserimento e per i
quali, trent'anni dopo, si avranno sempre dei dubbi». Il potere qui si allinea
senza tentennamenti a quella frazione dell'opinione pubblica che pensa di
parlare a nome delle vittime per reclamare una sempre maggiore repressione e
pene annientanti contro coloro che incarnano il Male. E non si interroga sui
motivi che mobilitano i fautori di queste passioni vittimiste.
In effetti,
legittimando questa morte bianca che è l'ergastolo (spesso inframmezzato da
periodi decennali di isolamento), si cerca di perpetuare la figura arcaica della
vendetta del sovrano, quella che, sostituita alla pena di morte, minaccia il
criminale con una «pena di espulsione sociale» (Anne-Marie Marchetti) senza
ritorno. Tale dispositivo, aggiunge la sociologa, ci incita a «riflettere sul
paradosso di un Paese dove si hanno sempre più libertà pubbliche, dove si è
sempre più sensibili alle altrui sofferenze, ma dove le Corti d'Assise sono
sempre più repressive». Il movimento d'inversione della norma culturale, che si
realizza quando si entra nella sfera del crimine e della sua repressione, non
sembra risparmiare nessuno. Non si tratta solo di giudici e giurati, di uomini
politici che praticano senza vergogna la demagogia securitaria; si pensi per
esempio agli esperti che davanti ai tribunali sempre più spesso dichiarano i
malati mentali responsabili dei loro atti, contribuendo così all'aggravamento
delle pene e all'allungamento della durata della detenzione. La «scienza» stessa
è dunque implicata nella costituzione di un'eccezione alle norme civilizzatrici
sul carcere.
Torna su
Torna indietro