Con quale stato d'animo si ripoliticizza la
«questione carcere», prendendo le
distanze dall'approccio umanitario all'istituzione penitenziaria?
Non si tratta
di assumere una posizione estremista rifiutando ogni lotta su obiettivi parziali
e accontentandosi di proclamare contro tutto e contro tutti, come l'irriducibile
Alexandre Jacob,
«Abbasso le prigioni, tutte le prigioni!». In compenso,
dobbiamo prendere le distanze dalla trappola tesa dallo Stato e dalle anime
buone che, alle nostre critiche e denunce, finiscono sempre per opporre la
solita replica:
«Certo, si può cercare di migliorare i dettagli, ma per il resto
non potete essere contro le prigioni in generale, nella loro essenza, dato che
bisogna comunque punire e vi trovereste in grande difficoltà a dire con che cosa
vorreste sostituirle». A questo efficace ricatto che costringe al balbettio,
paralizzandola, la coscienza umanitaria più agguerrita, Michel Foucault opponeva
una risposta netta che ancor oggi conserva tutta la sua attualità. Ricordando la
posizione del GIP, diceva:
«Ciò che si dice è: basta carceri. E quando di fronte
a questa critica le persone ragionevoli, i legislatori, i tecnocrati, i
governanti domandano: "Ma che volete allora?", la risposta è: "Non sta a noi
dire di che morte dobbiamo morire; non vogliamo più giocare questo gioco della
penalità; non vogliamo più giocare il gioco delle sanzioni penali; non vogliamo
più giocare il gioco della giustizia"».
Quando prendiamo posizione sulle carceri
rimettiamo in gioco le scelte etiche e le decisioni razionali più antiche, più
fondamentali, affrontiamo una visione del mondo. E questa riguarda, fra l'altro,
il valore che diamo alle cose, alla proprietà, soprattutto il valore che
accordiamo in termini di sofferenza umana (quella del ladro che espia dietro le
sbarre) ai nostri beni (quale
«tariffa» ci sembra equa per il furto di una
vettura). Ma anche: è legittimo incarcerare i consumatori di cannabis? Si
possono imporre i trattamenti psichiatrici raddoppiando la pena della reclusione
per alcune categorie di criminali?
Ecco, il carcere rivela quali siano le nostre
posizioni generali sul bene e sul giusto. Ed è anche rivelatore delle nostre
sensibilità politiche nella misura in cui questa istituzione si presenta come un
punto di cristallizzazione dell'insormontabile disputa fra padrone e servo.
Certo, è evidente che se ci si mettesse dalla parte dello Stato e dei guardiani
dell'ordine, si accetterebbe quell'inattaccabile buon senso per il quale il
carcere, in un mondo che ha messo al bando più o meno tutte le altre forme di
punizione, è un male tanto necessario quanto ineliminabile. Ma se, come Foucault
o Benjamin, ci si mette dalla parte dei perdenti, dei senza voce e dei vinti
della storia, allora si percepisce il carcere come la reificazione della regola
di un gioco che ci sconfigge (anche noi che non siamo reclusi) e come lo sbocco
di ogni movimento contestatario (per poco violento che sia) messo in atto per
sottrarci all'ordine vigente. In breve, in tutti i discorsi sul carcere c'è un
sottofondo poco visibile nel quale s'indovina il nome di quello o di quelli di
cui facciamo nostro il punto di vista; che sia quello di Marceau o quello del
marchese de la Chesnaye, le cose sono rimaste più o meno le stesse fin dal tempo
de
La Règle dujeu di Renoir. La stessa cosa vale in letteratura: non potete
stare contemporaneamente con Bertrand Poirot-Delpech. L'ordine di cose che
produce la divisione fra ladri e derubati, «asociali» e poliziotti, disoccupati
a carico dello Stato e baroni Seillières, Tapie e Ghellam, e cosi via, non lo
abbiamo votato.
Dunque è un abuso intimarci di prendere posizione su ciò che è
funzionale a mantenere quest'ordine e sui mezzi per punire coloro che
quest'ordine infrangono. Prima di porci imperiosamente la domanda:
«Con che cosa
volete sostituire il carcere?», ci dovete porre tutte le domande che la
precedono, cioè quelle che riguardano i tratti fondamentali di quest'ordine (la
cui natura contrattuale si ritrova solo nelle dissertazioni filosofiche degli
studenti dell'ultimo anno di liceo).
Cominciamo dall'inizio: vediamo quali sono
le categorie dominanti nella popolazione penitenziaria, vediamo cosa li porta a
infrangere l'ordine costituito, e approntiamo i mezzi per porvi rimedio; vediamo
anche il modo mediante il quale le convenzioni sociali e giuridiche operano la
separazione fra ciò che è delitto e crimine e ciò che non lo è (di cosa sono
colpevoli i consumatori di cannabis, gli immigrati senza documenti?). Non
dobbiamo rispondere a domande tendenziose che non sono altro che ingiunzioni per
farci ammettere che viviamo nel migliore dei mondi possibili. Ci sono molte
altre questioni di primaria importanza sulle quali il nostro parere di semplici
cittadini non è mai richiesto. Accettare i termini dell'ultimatum -
«Ammettete
che le carceri sono necessarie perché niente potrebbe sostituirle» - vuol dire
accettare di farsi garanti di quest'ordine di cose che produce le dicotomie fra
vincenti e perdenti, inclusi ed esclusi, ricchi e poveri, superimpegnati e
nullafacenti, e di quelle costanti sociali che alimentano il sistema
penitenziario come luogo di ammasso, innanzi tutto, di poveri e di ignoranti. Sul
piano sociale, la civiltà dell'automobile nella quale viviamo è un continuo
incitamento al delitto per i poveri e i marginali. Essa mostra, nel modo più
arrogante e perverso, la separazione fra la minoranza che accede al
«sogno»
feticista glorificato dalla pubblicità e dalla propaganda (
«la bella macchina»)
e tutti gli altri. Giorno dopo giorno, poveri diavoli a carico dello Stato e
disoccupati subiscono pubblicità televisive di auto il cui prezzo unitario
rappresenta anni e anni dei loro guadagni. Se dunque l'automobile condensa tutta
la violenza simbolica della divisione fra coloro che hanno accesso al godimento
dei beni di prestigio e gli altri, chi può stupirsi che tanti delitti e crimini
abbiano a che fare con queste costose macchine e che le carceri accolgano un
così grande numero di colpevoli di reati legati all'automobile?
La domanda
«Che
cosa mettereste al posto della prigione?» tende a fare occupare al cittadino
ordinario il posto proprio allo Stato, tende a fargli adottare sulla società lo
sguardo dell'autorità, della polizia, il punto di vista assoluto dell'ordine, ma
senza concedergli per questo un'oncia di potere effettivo. Essa implica
l'abbandono di ogni prospettiva critica su come quest'ordine è fatto e su ciò
che lo sostiene, ed esorta a un ricondizionamento dello sguardo e
dell'intelligenza il cui effetto è di rendere l'uomo ordinario incapace di
gettare un altro sguardo (che non sia quello della polizia o dello Stato) su chi
infrange l'ordine, sui reati e sui crimini.
E chi infrange l'ordine ha molti
pseudonimi: disoccupato, immigrato clandestino, folle, fumatore di cannabis,
disperato, ecc. Ciò che Hannah Arendt dice sull'irriducibilità degli spazi
pubblici alle condizioni dell'Uno vale anche qui: l'uomo ordinario, in quanto
elemento essenziale della cultura democratica, non deve smettere di avere
presente il crimine anche dal punto di vista di colui che infrange l'ordine,
della sua posizione, delle sue ragioni e dei suoi interessi. Il criminale, come
il folle, il malato, il diverso per razza, per religione o per orientamento
sessuale, non è costituzionalmente meno dotato sul versante dell'umanità, non è
una belva, un mostro, un barbaro metà uomo e metà bestia. Non si attesta sul
versante della pura aberrazione, le sue ragioni devono dunque essere ascoltate,
qualunque cosa abbia commesso, e nessuna forma di punizione potrà violare la sua
essenziale costituzione umana. È piuttosto la prigione che disumanizza. Il
carcere è un test sulle facoltà immaginative dell'
homo humanitarius di oggi. Il
genocidio, i bagni di sangue, le carestie, i disastri epidemici, la disperazione
dei perseguitati e dei rifugiati lo mettono in allarme e lo colmano d'orrore. Ma
la violenza fredda del carcere spesso lo lascia indifferente, dato che non
presenta alcuno dei tratti spettacolari che si associano alle grandi calamità e
ai grandi crimini del nostro tempo. La scarsa visibilità della desolazione
penitenziaria ha come effetto di non intaccare la sensibilità dell'uomo
umanitario. Dal momento che i corpi non sono più direttamente maltrattati,
violentati e squartati, la sensibilità contemporanea può riposare più o meno in
pace. Non sarebbe male se l'uomo ordinario apprendesse a misurare la sua distanza
dallo Stato non meno che dal criminale.
È davvero assodato che ciò che lo
posiziona nel campo del primo debba avere la meglio su ciò che potrebbe
avvicinarlo a quella plebe che, di propria volontà o no, non rispetta le regole
dei gioco? Mossi da un'inclinazione tanto deplorevole quanto sospetta per la
postura virtuosa, i ricercatori che si occupano delle carceri generalmente
tengono a sottolineare che la scelta di quest'oggetto sulfureo non avrebbe nulla
a che fare con la fascinazione per il crimine. Anzi, ci tengono a chiarire che
la posizione che hanno scelto non è né quella di Juliette né quella di Randa.
Del resto i loro studi ne risentono, dal momento che ammettono come dato di
fatto che il carcere è l'orizzonte insuperabile del nostro tempo punitivo e che
solamente gli abusi più rivoltanti devono essere oggetto di riforma. Noi siamo
contro le prigioni esattamente come, trent'anni fa, le élite illuminate erano
contro la pena di morte, cioè non tanto per ragioni morali o religiose, quanto
piuttosto perché la loro stessa esistenza rinfocola costantemente desideri
oscuri: odiare, far soffrire, punire, distruggere coloro ai quali tocca il peso
opprimente d'incarnare il male e il pericolo, desideri che non smettono mai
d'influenzare l'opinione pubblica. Dato che nel caso delle prigioni il gioco con
la morte, il desiderio di morte, non fa che dislocarsi trovando nuove forme di
cristallizzazione, coloro che oggi esigono che il tal criminale sconti
inesorabilmente la sua pena di venti o trent'anni, e che non riveda mai più la
luce del giorno, sono spinti da una passione mortifera non meno terrificante di
quella che fino a qualche tempo fa faceva urlare:
«A morte!». Il sangue non cola
più ai piedi della ghigliottina, ma si è rappreso in quella muta, infinita,
sofferenza evocata da quei rarissimi casi di detenuti che attraverso i loro
scritti ci consegnano un pensiero non poliziesco sull'infrazione dell'ordine
costituito.
Le carceri occupano un posto centrale nei discorsi securitari degli
uomini di Stato d'ogni tendenza, che governano tramite la paura non potendo far
vivere la speranza. Tutte le volte che un uomo politico intona il ritornello che
auspica
«maggiore fermezza...», bisogna intendere: più carcerati. Ridotti ai
loro ultimi argomenti, i difensori della carcerazione ricorreranno a questo
inossidabile tema:
«Ma che cosa ne farete di quei criminali mostruosi delle cui
malefatte parlano le cronache, ovvero serial-killer, violentatori abituali,
pedofili incalliti?». Ma noi non siamo lo Stato; perché dovremmo avere una
risposta per questa domanda quando le nostre opinioni su altre questioni
altrettanto scomode (come sbarazzarci delle centrali nucleari, come liquidare la
televisione spazzatura, come cancellare la monomania automobilistica, ecc.) sono
ritenute del tutto inopportune? Ma, al di là di tutto, ciò che si svela qui è
una vera e propria fantasmagoria: tutto tende ad accreditare l'idea che le
carceri siano fatte per proteggere la società contro individui particolarmente
pericolosi e irrecuperabili. Ebbene, nelle carceri francesi, che ospitano 50.000
persone, se ne contano solo alcune centinaia che rispondono a questo profilo, e
comunque la loro incapacità di ritornare nei ranghi dell'umanità non dovrebbe
mai essere decretata aprioristicamente. Sono i vari Pinochet, Milosevic,
Bousquet e Papon, i vari burocrati del crimine, a essere incorreggibili, molto
più di quei criminali (grandi o piccoli che siano) macchiati di sangue che, come
ci dimostrano esempi recenti, talvolta possono rinascere e ricominciare una
nuova vita anche nelle condizioni più sfavorevoli che ci siano, ossia quelle del
carcere.
Dopo che è venuta meno l'evidenza, largamente condivisa negli anni
Sessanta e Settanta, che l'élite illuminata e gli intellettuali progressisti
dovessero schierarsi dalla parte degli operai, degli sfruttati e dei popoli
colonizzati, ha preso corpo una nuova configurazione: possiamo vedere un
pubblico umanitario, composto dalle più disparate categorie, schierarsi a fianco
delle vittime e dello Stato, pensare la sua solidarietà verso le vittime con lo
Stato nei termini propri del pensiero statuale (da telethon all'ingerenza
umanitaria). In questa configurazione non si trova evidentemente più nessuno che
opponga la figura del perdente, del vinto della storia, a quella della vittima.
Quest'ultima s'impone come passe-partout per negare l'attualità di questa
divisione e come tramite della sua depoliticizzazione. La vittima, in
opposizione al perdente o al vinto della storia, è quella figura, buona per
tutti gli usi, attraverso la quale si realizza la sacra unità antipolitica dello
Stato con l'opinione umanitaria. Ora, per definizione, il detenuto è un perdente
(anzi è colui che ha sempre perso in anticipo nel suo scontro senza speranza con
la regola del gioco), non una vittima. Di fronte al tribunale dell'opinione
pubblica, è colui che viene opposto costantemente alla vittima, da compatire
perché ne subisce i misfatti. Non si troverà dunque più nessuno che oserà dire
che gli intellettuali e le élite illuminate debbano schierarsi a fianco di
questo pulviscolo d'umanità plebea, composta da perdenti e vinti, che popola le
carceri, piuttosto che a fianco dello Stato che imprigiona e dell'opinione
pubblica che reclama sempre più rigore e pene per questi perturbatori
dell'ordine.
Perché oggi l'uomo dei sondaggi è animato da tanta ostinazione e
tanto astio nell'insistere sulla insostituibilità dell'istituzione penitenziaria
quali che siano i suoi limiti? Il fatto è che il carcere gioca un ruolo decisivo
nel produrre effetti d'alterità fra l'uomo ordinario e il criminale. Laddove
ognuno sperimenta più o meno distintamente la propria prossimità con il
criminale (il ladro, lo stupratore, l'assassino), il carcere, separando
violentemente un mondo aperto da un sub-mondo chiuso, produce la falsa evidenza
di una differenza essenziale fra due specie umane: quella delle persone oneste e
virtuose (che non conoscono il carcere) e quella dei criminali (di cui
circoscrive, marca e definisce l'appartenenza al mondo penitenziario). Ora, nel
suo intimo, l'uomo medio non ignora nulla dell'artificio insito in questa
separazione. In quanto essere vivente costituito e attraversato dal desiderio,
sa bene di essere esposto, proprio per la sua più intima natura, a commettere
eccessi e gesti irragionevoli che lo spingono al crimine. Chi non è mai stato
colto dall'impulso primitivo di godere di un altro senza curarsi del suo
consenso, di impadronirsi di un bene che non gli appartiene, d'infierire sul
nemico,
inimicus o
hostis poco importa? La caratteristica del piccolo uomo
contemporaneo, che rivolge la propria attenzione alla sua costituzione affettiva
in quanto soggetto/oggetto del desiderio e civilizzato, è quella di rivelare
l'estrema labilità della linea di separazione fra la sua esistenza impunita
(piuttosto che onesta e virtuosa) e quella del criminale.
Dopo Nietzsche, Freud,
Elias, anche se non li ha letti, egli non ignora più quel
«superbo barbaro» in
lui che ha dovuto soffocare e rinchiudere a tripla mandata per diventare un
essere civilizzato (il vicino, il padre, il lavoratore) accettabile. In questo
senso, non c'è nessuno di questi piccoli uomini (e donne) che non sappia di
essere fratello (o sorella) di sangue del criminale. Non c'è nessuno che non
abbia cognizione, foss'anche confusa, di questo fatto iscritto nel cuore stesso
dell'esperienza storica del XX secolo: il divenire criminale collettivo, nei
regimi totalitari, dell'uomo medio (i normali) in quanto massa. La frontiera fra
il crimine e la sua assenza è messa in pericolo precisamente nell'istante in
cui, in quanto normali, essi sono soggetti dei regimi totalitari chiamati a
partecipare al crimine di massa. Questa fragilità della separazione fra il
civilizzato e il selvaggio, l'innocente e il colpevole, il criminale e il giusto
o il virtuoso, è iscritta nella trama stessa delle società post-totalitarie. I
movimenti di imbarbarimento che hanno accompagnato le esperienze totalitarie
dimostrano quanto sia sottile l'involucro civilizzato che protegge e allontana
l'uomo occidentale del XX secolo dalla sua selvatichezza, inculcandogli costumi
sempre più pacificati, ispirandogli un'avversione sempre più spiccata per le
condotte violente. Ora, è precisamente perché sappiamo non solo che
«gli
assassini sono fra noi», ma anche che noi, uomini qualunque (ormai sottratti
alla nostra natura violenta), non siamo che illusoriamente immunizzati contro le
nostre potenzialità criminali, che siamo indotti a rendere eterno il rito
attraverso il quale ci separiamo violentemente e simbolicamente dalla nostra
parte selvaggia, proiettando nello spazio penitenziario questo
«altro», questo
intermediario, questo doppio: il criminale.
Il processo di conversione di questa
parte essenziale di noi stessi in un altro assoluto è ciò che rende
indispensabile la perpetuazione del carcere, affinché possa perpetuarsi anche la
menzogna della nostra innocenza come esseri civili e pacificati: rito arcaico
d'autopurificazione (ammesso che ne sia mai esistito uno) attraverso il quale
ritorna, proprio là dove pensavamo di averla espulsa, la nostra atavica parte
selvaggia, a scapito della nostra innocenza animale.
In un famoso passo di
Tristi
tropici, Claude Lévi-Strauss scrive che non essendoci società perfette tutte
«comportano per natura un'impurità incompatibile con le norme che esse
proclamano, che concretamente si traduce in una certa dose di ingiustizia, di
insensibilità e di crudeltà». Questa dose egli la chiama anche il
«residuo
d'iniquità» proprio di ogni società: nel mondo occidentale moderno il sistema
punitivo fondato sull'esclusione sociale (il carcere) è la cristallizzazione di
questo
«rifiuto della società», il marchio stesso dell'infrazione alle norme.
Opponendo due modelli di società, quelle che chiama antropoemiche (dal greco
emein, vomitare) e quelle designate come antropofagiche, Lévi-Strauss scrive:
«[Le nostre società] hanno scelto la soluzione consistente nell'espulsione di
questi esseri terribili [delinquenti, criminali] tenendoli temporaneamente o
definitivamente isolati, senza contatti con l'umanità, in istituzioni destinate
a quest'uso. Alla maggior parte delle società che noi chiamiamo primitive,
questo costume ispirerebbe un orrore profondo; ai loro occhi potremmo essere
marchiati dalla stessa barbarie che noi saremmo tentati di attribuirgli a causa
dei loro costumi simmetrici». Per
«costumi simmetrici» Lévi-Strauss qui intende
la tortura come viene praticata nelle società primitive o anche il fatto di
mangiare il corpo del nemico. E ribadendo il concetto, aggiunge che sarebbe
«un'assurdità credere che noi abbiamo compiuto un grande progresso spirituale
perché, anziché mangiarci qualcuno dei nostri simili, preferiamo mutilarli
fisicamente e moralmente» attraverso la reclusione e la rottura dei legami
sociali. Invitandoci a riflettere dal punto di vista del selvaggio o del
primitivo su questo
«residuo d'iniquità» rappresentato dal nostro arcipelago
penitenziario, Lévi-Strauss sottolinea il carattere relativo - culturale - di
quello che consideriamo, con sempre maggiore insistenza, come il criterio stesso
della condizione civile: la disgiunzione della sanzione o della punizione dalla
violenza viva esercitata direttamente sui corpi, di cui la forma estrema è la
tortura; la proibizione assoluta di ogni forma di banchetto riparatore o di
vendetta che includa il corpo del nemico o del criminale. Bisogna passare
attraverso quest'inversione dello sguardo per comprendere come possa essere
relegato nella zona d'ombra della nostra condizione civilizzata l'orrore di un
sistema punitivo fondato sullo sradicamento dell'individuo dal tessuto
comunitario, sulla distruzione del legame sociale e sulla solitudine affettiva.
Da quando abbiamo rinunciato a martoriare i corpi, a far colare il sangue, a
punire crudelmente (
cruor = sangue), ci consideriamo finalmente a posto con le
regole di civiltà, dimenticando, come diceva Beccaria, che ci sono molti
castighi peggiori della morte, mediante i quali
«i mali dell'infelice [il
recluso], anziché finire, non fanno che ricominciare». Caratteristico del
carcere è dunque di renderci indefinitamente insensibili alla sofferenza e
all'infelicità inflitte attraverso la reclusione, l'isolamento, nella forma di
un'antropoemia inflessibile ma
«pulita».
Assegnare il ruolo del barbaro a questi
gruppi, popoli, Paesi, dove si continuano a combattere guerre sporche con la
loro coda di crudeltà, dove resta in vigore la pena di morte, ha come finalità
non solo di produrre divisioni convenienti e generatrici di coesione interna
appunto nella separazione fra
«loro» e
«noi», ma anche di sottrarre alla vista i
punti più deboli del nostro sistema di autovalorizzazione (in primo luogo i
nostri dispositivi punitivi). Incitandoci a gettare sui nostri luoghi di
reclusione lo sguardo dell'antropofago, per il quale il legame comunitario è
tutto e l'espulsione dal gruppo è l'infelicità suprema, Lévi-Strauss ci invita a
ritrovare, di fronte all'orrore penitenziario, la nostra piena capacità di
stupirci inorridendo. Con la reiterata ingiunzione a spiegare con che cosa
intendiamo rimpiazzare le prigioni (mentre noi ne contestiamo il principio e
l'esistenza stessa), è l'ideale di una società di polizia a emergere nella sua
piena trasparenza: una società dove tutti e ciascuno sono chiamati ad assumere,
su questioni fra loro molto eterogenee come la proprietà, la sicurezza, il
crimine, la devianza, la delinquenza e il furto, esclusivamente il punto di
vista del poliziotto, secondo il mandato affidatogli dallo Stato di proteggere
il proprietario. Si tratta allora di opporre al punto di vista unico della
protezione dei beni la constatazione che il sistema penale e penitenziario
costituisce la più patente trasgressione del processo di civilizzazione dei
costumi. Si tratta, per esempio, di esigere dal filosofo quanto Rousseau
rammentava ancora nell'
Emilio, e cioè che il
«problema» fondamentale è la
felicità dell'individuo; mentre oggi si chiede anche a lui di ragionare come un
poliziotto non appena la sua riflessione si imbatte nei temi della proprietà
(ovvero della difesa della proprietà) e della sicurezza (diventata ai nostri
giorni una specie di ricettacolo, luogo d'ammasso ideologico). Qui c'è,
evidentemente, una sorta di omogeneizzazione e di egemonizzazione dei discorsi
assolutamente insopportabile: chi si sognerebbe di domandare al poliziotto, il
cui mestiere in effetti è di reprimere il crimine, di provare a sottrarsi
radicalmente alla sua posizione per affrontare il problema anche dal punto di
vista della felicità pubblica e privata? Rifiutarsi di ridurre la questione
carcere al punto di vista della polizia è dunque il più elementare dei diritti
del cittadino avvertito. E suo diritto proclamarsi rigorosamente e
definitivamente intollerante di fronte all'orrore penitenziario senza per questo
dover proporre mezzi alternativi alla reclusione concepita come privazione del
legame sociale: indicare che cosa deve sostituire una pratica o un'istituzione
incompatibile con le nostre norme di civiltà è una questione che nemmeno si
pone. Chi si chiede con che cosa rimpiazzare la tortura dei sospetti, la pratica
di sgozzare i condannati o gli abusi della polizia?
Una volta respinta
l'ingiunzione volta a neutralizzare ogni sforzo di riflessione attorno ai temi
della sicurezza e del sistema penitenziario, si apre una lunga sequela di
domande, tutte infinitamente complesse. Esse concernono in particolare la
nozione di responsabilità (quale significato riparatore ha rinchiudere in
carcere un criminale psicotico?), la questione del contratto sociale (un ladro o
un delinquente può essere descritto, e lo si sente spesso, come
«colui che ha
infranto il contratto sociale»?), il problema della sicurezza (in che senso essa
è un
«diritto»?), il discorso su una proporzionalità fra delitti e pene (quale
durata di sospensione dall'appartenenza comunitaria e quale intensità di
sofferenza costituiscono l'equo
«equivalente» per il furto di un telefono
cellulare?). Nei tempi di abbrutimento securitario senza precedenti che viviamo,
queste domande sono rimosse con una sollecitudine che altro non è se non la
manifestazione, cambiata di segno, della loro urgenza. La nozione stessa di
crimine è legata a uno stato della società, a delle convenzioni sociali, a
«finzioni» coesive. Quando vediamo, come hanno riferito i giornali durante
l'estate 2001, che i furti senza violenza dei telefoni cellulari contribuiscono
per circa due terzi all'aumento del numero di reati rilevato dalle più recenti
statistiche di polizia (mentre il numero degli omicidi continua a diminuire), si
coglie immediatamente che la questione demagogica dell'
insicurezza-che-cresce
nasconde una realtà contraddittoria. Ciò che le società contemporanee
percepiscono come il problema maggiore - ossia la sicurezza (minacciata) e la
criminalità (crescente) - ci appare essenzialmente come un prolungamento
meccanico delle modalità di presentazione, diffusione e ripartizione delle
merci. Viviamo in effetti in una società sdoppiata e schizofrenica.
Da una parte
essa esalta tutte le forme del consumo e tende sempre più a sostituire alle
figure tradizionali legate al lavoro (l'operaio, l'impiegato, il padrone) o
alla politica (il cittadino, il militante) quella del consumatore
universale.
Dall'altra parte, essa istituisce e riproduce delle modalità di
ripartizione così ineguali che l'accesso al godimento di un certo numero di
oggetti o di beni diventa la posta in gioco di una lotta selvaggia e
incontrollabile fra coloro che
«li hanno» e coloro che si trovano invece nella
condizione di un bambino nel reparto giocattoli di un grande magazzino, che si
muove fra tutte quelle meraviglie senza avere il diritto di toccarne nessuna.
Una parte determinante delle pratiche illegali contemporanee ha luogo in questo
spazio dove la massa è sollecitata costantemente (con tutti i mezzi più
raffinati della seduzione e dell'incitamento) a consumare beni e a godere di
oggetti ai quali la sua posizione economica e la sua disponibilità di denaro le
impediscono di avere accesso. Viviamo in una società nella quale non sono più
l'indigenza e la fame che spingono al crimine, ma dove è il non accesso al
consumo che costituisce, in questo mondo-vetrina, una forma molto rigida non
solo di marginalizzazione o, come si dice, di esclusione, ma quasi di morte
sociale. Le odierne classi pericolose si ricostituiscono dunque in una
configurazione dove non sono più (come nel XIX secolo di Louis Chevalier)
formate da affamati che lottano per la loro sopravvivenza biologica e muoiono
sulle barricate reclamando il pane. Esse sono invece formate da frustrati del
consumo che sperimentano una sorta di
«condivisione occulta», compensatrice,
destinata a farli partecipare, come gli altri, al godimento dei beni che
esercitano maggiore seduzione. Lungi dunque dal pensare che il ladro appaia qui
come colui che si oppone violentemente alla norma sociale, esso si manifesta
piuttosto come una sorta di conformista sociale pronto a tutto, o quasi, per
occupare, come gli altri, la posizione del consumatore medio. Il conflitto, tutto
sommato mediocre e monotono, che oppone il capitalista seduttore, desideroso di
vendere a ogni costo ciò che la maggioranza non può comprare, a coloro che vanno
in bestia per il fatto di non poter toccare le merci-feticcio se non
«con gli
occhi», non mette direttamente in gioco il cittadino attivo o il filosofo. Per
loro, i ladri - che sono la maggioranza della popolazione penitenziaria - non
sono evidentemente né amici né fratelli, ma ancora maggiore è la loro avversione
per quei demagoghi e quegli
«esperti» oscurantisti che desiderano trapiantagli
l'occhio del poliziotto piuttosto che lasciargli esercitare la loro facoltà di
giudizio.
Oggi l'ideale di una società di polizia non s'incarna nel piccolo uomo
indottrinato, fanatico, reso cieco dal potere dittatoriale, ma molto più
semplicemente nel cittadino che concepisce l'ordine sociale esclusivamente dal
punto di vista del proprietario d'automobile e che, dunque, considera ogni
oltraggio contro questo vitello d'oro come passibile del castigo supremo
(amministrato dal poliziotto che, perdendo i nervi, ammazza il ladro cavandosela
con una condanna a sei mesi con la condizionale). A questa fuga in avanti
nell'immaginario securitario, il cittadino illuminato e il filosofo oppongono
una prescrizione inoffensiva: vivete in modo da non avere molto da temere dal
ladro e vedrete che sarete sollevati dalla maggior parte dei vostri timori
securitari. E ogni volta che sarete in procinto di soccombere al richiamo delle
sirene (più repressione, più sorveglianza e carceri!) domandatevi quanto vale
nella moneta della sofferenza umana, e in termini di sradicamento dalla vita
comune, la perdita di un telefono cellulare, di un'automobile, di una
telecamera, ecc. Cosa ci possiamo attendere da una società che sempre più tende
ad adottare sugli affari umani il punto di vista del poliziotto, che tende a
liquidare la condizione stessa della pluralità (degli interessi, dei punti di
vista, delle opinioni) quando è in gioco l'ordine sociale (come se ci fosse
qualcosa che, da vicino o da lontano, non la riguardasse)?
Strano paradosso
quello di una società sempre più portata ad abolire le linee di frattura e le
forme di divisione tradizionali, attraversata da forme di fluidità (economica,
sociale, culturale e ideologica) sempre più marcata, e che simultaneamente
sembra sempre più indotta a indurire il decreto di espulsione e d'esclusione
contro gli
«altri» (ladri, delinquenti ... ), che essa sradica dall'umano
consesso inviandoli in carcere. In
Tristi
tropici, Claude Lévi-Strauss racconta
le pratiche di
«polizia» e di giustizia degli indiani delle pianure
nordamericane:
«Se un indigeno contravveniva alle leggi della tribù, veniva
punito con la distruzione di tutti i suoi beni: tenda e cavalli. Ma nello stesso
tempo, la polizia contrattava un debito nei confronti del punito: alla polizia
stessa toccava organizzare la riparazione collettiva del danno del quale il
colpevole, per essere punito, era stato la vittima. La riparazione a sua volta
faceva del punito il debitore del gruppo, al quale doveva dimostrare
riconoscenza mediante regali offerti a tutta la collettività (compresa la stessa
polizia), che lo aiutava a procurarseli in modo da invertire nuovamente i
rapporti; e così di seguito fino a che, al termine di tutta una serie di regali
e contro-regali, il disordine precedente fosse progressivamente eliminato e
l'ordine iniziale restaurato».
Lo Stato di diritto e la classe media planetaria,
i due maggiori attori della civiltà contemporanea, non avrebbero molto da
apprendere da questi usi
«primitivi» della polizia e della
giustizia?