Giacomo Casanova
di Daria Galateria
Casanova si presentò ai Piombi in abito di taffettà, merletti a punto d'argento,
camicia a sbuffi e cappello a piuma bianca. Rapidamente, nella cella dove non si
poteva star ritti e che era situata sotto i tetti ricoperti di piombo del
Palazzo Ducale, comprese che si trattava di star in poltrona perfettamente fermo
e completamente nudo, stillando in terra rivoletti di traspirazione. Ma quello
che lo irritava davvero era il libro che gli avevano concesso di leggere, La
città mistica di suor Maria d'Agrada.
Trattavasi di una vergine spagnola
esaltata, che raccontava la vita di Maria in termini stravaganti. A tre anni, la
Madonna spazzava la casa aiutata da novecento domestici, tutti angeli che Dio
aveva messo al suo servizio, guidati dall'arcangelo Michele in persona. Nulla
era inventato, perché la fantasia non arriva a tanto; era un racconto in
perfetta buona fede di un cervello in preda all'eccitazione; e infatti era stato
autorizzato dall'Inquisizione. Quel libro, nello stato di malinconia e
malnutrizione in cui si trovava Casanova, e con la naturale debolezza della
ragione, rischiava di farlo diventare visionario e grafomane come l'autrice.
L'altro argomento che gli ispirava la fantasia di mettersi alla testa del popolo
a massacrar tutti gli aristocratici di Venezia e in particolare gli Inquisitori,
e anzi di farne carneficina personalmente con le sue mani, era che lo
lasciassero senza nessuna informazione sui motivi di quella violenta correzione.
La "pena a cinque anni sotto li piombi" era motivata "principalmente" dal
"disprezzo pubblico della Santa Religione", motivazione vaga e mai comunque
comunicata all'interessato. È vero che Giobatta Manuzzi, col suo mestiere della
riferta, cioè di confidente, seguendo Casanova per malvasie, teatri e caffè,
aveva avuto modo anche di intravedere in casa una piccola traversa bianca, cioè
il grembiulino massonico. Ma se Casanova aveva persuaso con i suoi ragionamenti
ultramontani giovani aristocratici veneziani, c'erano ben altri agenti di
spiriti volterriani in Venezia. E per gusti blasfemi era ben più visibile
l'esilarante e osceno poeta Giorgio Baffo, che pur sedeva in Quarantia. Se
avevano invece voluto punire "lo scostumato che praticava in casa di moltissime
figlie, maritate e donne di altro genere", vero è che le veneziane erano "assae
morbinose", e usavano
per esempio andare a passeggio al levar del sole all'Erbaria con i segni
evidenti dei disordini trascorsi, per favorire le congetture.
C'era poi l'ipotesi del teatro. Dei tre Inquisitori della Serenissima, in
parrucca bianca alla cortesana (due in mantello nero, in toga rossa quello
nominato dal doge), uno era quell'Antonio Condulmer, irascibile patrizio, che
aveva fatto una corte "assidua" ma inutile alla bella Maria Teresa Zorzi, moglie
di un giureconsulto insigne, e autore a tempo perso di fischiatissime commedie a
teatro. Casanova aveva avuto ragione delle grazie della Zorzi senza difficoltà,
ed essendo amico del marito, aveva assoldato una claque che ne sostenesse le
commedie, e fischiasse quelle del suo
avversario Chiari. Ora, Condulmer era proprietario del teatro dove lavorava
Chiari, che in quel fatale 1755 pubblicò un romanzo su un bastardo di bella
presenza di nome Vanesio (e si trattava, evidentemente, di Casanova) che "con
gli avari fa l'alchimista, con le donne il poeta, con i potenti il
politico, con tutti tutto".
C'era infine la pratica di biscazziere e baro, secondo le riferte del
sunnominato confidente Giobatta Manuzzi. Nel 1753 Casanova aveva organizzato una
bisca in proprio, "un casino dove tenevo banco di faraone in società con un
pezzo grosso che mi proteggeva dalle soperchierie degli aristocratici tiranni".
I patrizi infatti al Ridotto pretendevano l'esclusiva del banco (alla lunga,
sempre vincitore); e certo non avevano gradito la concorrenza di Casanova.
Quando il 26 luglio 1755 il Missier Grande, cioè il capo degli sbirri veneziani,
si presentò ad arrestare Casanova, - con quaranta armigeri, dove ne sarebbero
bastati due, in base all'assioma ne Hercule quidem contra duos, neanche Ercole
ce la può fare contro due, come argomenta, sempre pedante, Casanova, citando il
Fedone - il libertino pensò che quella prigionia -allietata dalle pulci e da
topi grossi come conigli - sarebbe in ogni caso finita alla muta, cioè
all'avvicendamento annuale degli Inquisitori.
Ma quando sopraggiunse il primo
ottobre senza che il circospetto, cioè il segretario del Consiglio dei Dieci, si
palesasse affatto, Casanova si dispose a fuggire, "impresa che molti avevano
tentato, ma che nessuno era riuscito a portare a termine". Era un privilegio del
prigioniero, acquistato a prezzo ragionevole dal carceriere, poter passeggiare
mezz'ora al giorno nella soffitta attinente alla cella; e bastava battere bene
gli stivali per scacciarne i topi. Rovistando tra vecchi arnesi accatastati,
Casanova avvistò un promettente, appuntito catenaccio. Intanto gli avevano messo
in cella un gentiluomo che aveva letto un solo libro, il moralista Charron,
allievo di Montaigne e ispiratore di Pascal, e dal suo trattato sulla saggezza
aveva ricavato l'insegnamento che i pregiudizi sono ingannevoli, e si era messo
serenamente a far quattrini. Ora si trovava ai Piombi per non restituire un
debito, e ricco di novemila zecchini, giurava con veemenza di non avere un
soldo. Questo comportava che l'assistenza, da parte del carceriere, si limitava
a fornirgli pane e acqua; ma il prode non demordeva.
Agli interrogatori si avviava mettendosi le scarpe di Casanova, perché le sue
erano piene di monete; ma da un ultimo incontro rientrò piangendo; lo avevano
minacciato di tortura, e si era determinato a pagare. Rimasto solo, Casanova si
svagò a limare contro una pietra il proficuo catenaccio; quando venne il momento
di tentare di perforare il pavimento, era sopraggiunto l'inverno, e le mani
erano troppo intirizzite per qualsiasi movimento. Il buio durava diciannove ore;
se c'era nebbia, non si poteva leggere neppure nelle ore di lucore. Casanova
decise di costruirsi una lampada; fingendo mal
di denti, chiese al secondino una pietra pomice, anzi, una pietra focaia poteva
andar bene lo stesso; immersa nell'aceto, la avrebbe applicata sul dente per
lenire il dolore. Dal medico, protestando un eritema, ottenne un unguento di
fiori di zolfo. Ricordò infine di aver chiesto al sarto di rinforzare la giacca
di taffettà con la stoppa; e si inginocchiò letteralmente a pregare che gli
avesse obbedito. Strappò la fodera; la stoppa c'era. Alla luce e al calore di
quella improvvisata lanterna, cominciò il lavoro, perforando il pavimento sotto
il letto. Trovando sotto tre strati di legno una lastra di pavimento
"veneziano", si ricordò che in Tito Livio Annibale si era aperto un varco
frantumando le rocce rese friabili dall'aceto; passaggio che lo aveva sempre
incuriosito, e lasciato a fantasticare sulla quantità di aceto che Annibale
doveva aver avuto con sé.
Provò anche Casanova con l'aceto dell'insalata, e comprese in effetti, sotto la
sferza di quel prepotente aroma, che non doveva rompere i pezzetti di marmo, ma
ridurre in polvere il cemento che li univa. Il braccio destro di Casanova era
anchilosato, il catenaccio aveva raggiunto una politura e una brillantezza
eccezionali, e il buco una buona dimensione, quando, il giorno prima della fuga,
si presentò il carceriere, forse insospettito, ad annunciare che si cambiava
cella.
Il catenaccio, dissimulato sotto un pentolone di bollenti maccheroni, fu
trasferito a sua volta, e ricominciò il suo lavoro, stavolta applicandosi al
tetto. Il 31 ottobre, Casanova si tagliò la barba di otto pollici che lo rendeva
venerando, passò quattro ore a ridurre a strisce lenzuola, asciugamani e le
fodere dei materassi, e col fagotto del suo abito di taffettà e l'intralcio di
un frate compagno di fuga l'avventura ebbe inizio.
Sollevarono la lastra di piombo, e trascinandosi "sul sedere" sul piombo,
scivolosissimo, tra abbaini e grondaie, sdrucciolando penzoloni dal tetto,
arrivarono a una porta di ferro; era aperta. Era una sala grande e sconosciuta;
Casanova si accasciò, e dormì. Il monaco riuscì a scuoterlo solo tre ore dopo;
si rivestirono, e vagando per il Palazzo, arrivarono alla Scala dei Giganti.
Casanova aprì una finestra, si mostrò col suo cappello piumato a degli
sfaccendati che cominciavano a girare per il cortile del Palazzo Ducale, e
chiamarono il custode, persuasi che avesse rinchiuso per errore dei visitatori.
Il custode aprì la porta, e rimase basito all'aspetto stravolto dei due
sconosciuti, che però intanto erano già volati per le scale, sulla piazza, e su
una gondola, giù per la Giudecca, e verso Mestre. Casanova si volse indietro a
guardare le sue prigioni, il Palazzo dorato dall'alba, e si scoprì a
singhiozzare "come un bambino portato a scuola"; poi, nello stupore dei
gondolieri, si trovò che rideva di cuore.
"La fuga prodigiosa" di Casanova dai Piombi non era in realtà un'impresa
intentata.
L'evasione riuscì perfino nel gennaio del 1672 anche al vecchio conte Asquini
che si era rifiutato di unirsi a Casanova, ma gli aveva prestato degli zecchini
per la fuga.
Eccezionale fu però il suo racconto, con cui rintronò tutta l'Europa, e rafforzò
in modo definitivo la sua fama di uomo fuori del comune, nemico vittorioso delle
autocrazie e simbolo della rivolta dell'uomo ingegnoso contro tutti i regimi
tirannici. Solo alla fine della vita, mesto bibliotecario nel castello del conte
di Waldstein in Boemia, trasformò la sua avventura, con la stesura de La storia
della mia fuga dai piombi, e dei relativi capitoli delle memorie, in uno dei
capolavori della letteratura d'azione di tutti i tempi.
Fonte: tratto da "Scritti galeotti, letterati in carcere" di Daria Galateria, Edizioni RaiEri, 2000.
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