GROZNY - La storia l'aveva già raccontata Tolstoj, in quel suo straordinario romanzo breve che rievocava una sua personale esperienza di vita vissuta da militare, nella Cecenia da poco conquistata al grande impero zarista. Titolo originale
Kavkazki Plennik, ovvero
Il prigioniero del Caucaso. Ma oggi, all'inizio del terzo millennio, la Storia con la esse maiuscola si prende l'amara soddisfazione di rovesciare le parti, con il prigioniero che non è più il giovane tenente dell'aristocrazia russa allevato alla corte di San Pietroburgo, ma un emaciato ragazzo ventenne ceceno, accusato dai russi di atti di terrorismo.
Ed ecco dunque la cronaca, che in quel luogo di fantasmi che è Grozny, nel corso di un breve soggiorno nella città più pericolosa del mondo, dove il terrorismo e la guerra civile sono di casa, letteralmente dissotterriamo per caso. Il convoglio, sotto la scorta di truppe del cosiddetto "esercito interno" del ministero degli Interni di Mosca che in Cecenia collabora con l'esercito federale, percorre veloce la capitale distrutta dai bombardamenti aerei e terrestri.
Gli anonimi palazzoni in cemento dell'era sovietica, a destra e a sinistra, sono sbriciolati e appiattiti. Quasi dovunque, il poco che rimaneva dopo le bombe è stato fatto saltare col plastico, per impedire che tra le macerie trovassero rifugio i cecchini. Rimangono in piedi invece ogni tanto le case unifamiliari a un piano. Alcune squarciate. Alcune con il tetto distrutto. Alcune invece riparate alla meno peggio con delle lamiere e con una fiaccola esterna che esce da un buco della conduttura del gas, e assieme ai lenzuoli stesi all'aperto per asciugare, dimostrazione che la casa è abitata.
Ogni tanto, lungo la spettrale Krasnoznàmenskaya Ulitsa, ovvero Via della Bandiera Rossa, si vedono inaspettati segnali di vita. Davanti a un negozio svuotato si legge una rozza scritta a vernice, "Gazo-svarka", saldatura a gas, ed è la prova che qualcuno, con una bombola di acetilene e con un saldatore, si arrangia a rimettere insieme i rottami. Più oltre, approfittando dell'allacciamento abusivo alla rete del gas, qualcuno si è messo in commercio e sotto una finestra sopravvissuta del pianterreno ha tracciato un graffito: "Kofe", caffè.
La guida è il colonnello Boris Podoprigorà dell'Mvd, il corpo paramilitare del ministero degli Interni. "Siamo arrivati - dice senza spiegare - tra poco vedrete una cosa che nessun civile ha mai visto".
Scendiamo, passando attraverso una postazione di sacchetti di sabbia con delle feritoie, poi attraverso una prima pesante porta di ferro seguita da una scalinata che porta nel sottosuolo, alla quale segue più in basso una seconda porta ferrata oltre la quale c'è un lavandino con un bollitore per l'acqua.
La cosa che nessun civile ha mai visto è davanti a noi. Sopra una terza lastra di ferro, completa di lucchetto e massicce cerniere, all'altezza di un paio di metri da terra, si nota un minuscolo finestrino di 20 centimetri per 20 protetto da una grata che proietta verso l'interno la luce accecante di una lampadina. Il cubicolo, anzi i cubicoli perché nella cantina se ne vedono due, è una prigione per due persone e il finestrino con la lampadina puntata è il contatto col mondo.
Guardando in alto, oltre la luce che acceca, si vedono una matita celeste infilata attraverso la grata e un paio di occhi che scrutano incuriositi quello che succede all'esterno. È come per gli occhi delle donne islamiche completamente avvolte dalla testa ai piedi da un nero sudario. Solo un paio di occhi nel buio che non si dimenticano. Forse, è vero, il proprietario degli occhi ha commesso un orrendo delitto ma quelli sono sempre gli occhi di un uomo. Quando facciamo con le dita della mano un piccolissimo gesto, dall'altra parte del finestrino, con un timido movimento la mano del proprietario degli occhi risponde.
Arriva, nella sua uniforme da ufficiale azzurrina, il direttore del carcere e in segno di particolare favore fa aprire la cella numero 2 e permette di guardare all'interno. Nel buio ci sono due cuccette disposte come un letto a castello e poi, accanto a quella più alta, il solito finestrino di 20 per 20 con la lampadina puntata.
Il giovane prigioniero è pallido e ha il fisico macilento di chi non può fare esercizio, ma non mostra segni di lividi o maltrattamenti.
Indossa un paio di ciabatte di plastica, una maglietta biancastra e un paio di pantaloni di tela. "Questo ragazzo - spiega il direttore - è accusato di omicidio plurimo e di atti di terrorismo. Secondo l'imputazione, avrebbe fatto saltare in aria con una bomba un blindato provocando la morte di sette persone".
L'ufficiale con l'uniforme azzurrina che dirige il carcere di massima sicurezza del quartiere di Oktiàbrskaya a Grozny è garantista. "Il procuratore capo della Cecenia, Yuri Ponomariòv - spiega - ha tempo per dimostrare l'accusa solo fino al 26 di dicembre. Dopo quella data, se l'accusa risulta infondata, il prigioniero sarà scarcerato". Ciò è confortante. Ma nella memoria, quando usciamo, rimane lungamente stampato quel paio di occhi che guardano attraverso il finestrino di 20 per 20. Nel buio.