Cap. IV - Autodeterminazione e socialità: Il superamento possibile
del carcere
di Antonio Chiocchi e Claudio Toffolo, 1995
0. Premessa
1. Carcere, produzione e sistema di controllo
2. Crisi del penitenziario moderno: la segmentazione
delle funzioni di controllo
3. L’utopia trattamentale e la sua
crisi irreversibile
4. Superamento del carcere e delle culture
della pena vigenti
5. Estinzione del carcere: ovvero superamento
delle strutture articolate della forma carcere
0. Premessa
Uno dei punti nodali che ci preme sottolineare, fin da questa premessa,
è che noi, al pari di molti altri, concepiamo il passaggio all'«altro
carcere» come superamento dell'istituzione chiusa: come sottrazione
della struttura segregativa alle logiche chiuse che l'hanno finora regolata;
come rottura del legame univoco che lega l'area della penalità all'area
della carcerizzazione.
Per noi, il passaggio alla sperimentazione di forme aperte di carcerazione
non è inquadrabile nei termini di un periodo di transizione verso la
estinzione futuribile del carcere. Semmai, è estinzione in progress
del carcere, avente già ora una sua corposità e una sua incidenza.
Per noi, l'«altro carcere» è il non carcere: superamento
del carcere attraverso una rete dislocata di rapporti con la società
e la partecipazione a tutti gli effetti alle dinamiche dell'evoluzione sociale
da parte dei soggetti incarcerati; reimmissione dei detenuti nel campo variegato
dei fenomeni e dei processi che vanno maturando nella società.
Reputiamo che ancora per un più o meno lungo periodo storico vi sarà
una convivenza difficile tra queste due forme di carcere. Riteniamo, ancora,
che la questione non si riduca all'antagonismo tra il carcere e l'«altro
carcere », ma che rimandi a nuove forme di governo degli ambienti e
dei sistemi sociali che sappiano privilegiare gli spazi delle libertà.
Ora, questa convivenza non ci pare legittimo inquadrarla linearmente nei contesti
di una "struttura a forbice" che prevede ad un polo la permanenza
del "carcere duro" per un numero decrescente di detenuti e al polo
opposto il "carcere normale" e la "decarcerizzazione"
per un numero crescente di soggetti reclusi .
Il problema, per noi, è quello di muovere oltre il carcere,
proprio partendo dal carcere. Di questo parleremo in seguito.
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1. Carcere, produzione e sistema di controllo
Già a livello di analisi occorre spezzare ogni rapporto organicistico
tra carcere e mercato del lavoro. C'è un tema da verificare; e non
soltanto per la cultura marxista. Tale verifica pone in chiaro che non vi
è una funzionalità lineare del carcere rispetto alla struttura
capitalistica, intesa quest'ultima come un contesto socio-produttivo a matrice
economica. Un approccio di questo genere mette in crisi anche un altro significativo
tempio della cultura di sinistra: quello in cui il diritto — soprattutto
in Marx — viene ridotto a una funzione esclusivamente strutturata in
ragione dell'evolversi dei rapporti sociali di produzione.
Diparte da qui una riproblematizzazione di due quesiti essenziali:
1) quale lo spazio del diritto nel carcere?
2) quale lo spazio del carcere nel diritto?
Da qui, ancora, un quesito conclusivo:
3) quale il posto del carcere specificamente all'interno del "sistema
di controllo sociale"? E qui ci si imbatte in alcune forme di arcaicismi
modernizzanti. Intendiamo riferirci alle categorie di ascendenza foucaltiana
di "codice disciplinatore" e "potere disciplinare" . Il
discorso conosce una intersecazione tra "funzioni disciplinari"
e "strategie disciplinari" che rimanda, a monte, ad una concezione
"diffusiva" del potere.
Ma ci preme affrontare un altro svincolo di percorso che, battendo queste
strade, introduca la questione della "funzione simbolica" del carcere.
L'indirizzo strutturalista disciplinatore finisce con l'investire l'insieme
delle codificazioni simboliche trasmesse dal carcere con una funzione di modello-progetto:
"modello ideale di società devota e produttiva, partorito dalla
cultura delle classi dominanti" a mo' di ricalco e proiezione del modello
costituito dalla fabbrica .
Quella che a noi interessa rimarcare è che la perdita di "centralità
della fabbrica", all'interno della produzione sociale, si accompagna
con la perdita di "centralità del carcerario", all'interno
del "sistema di controllo". Questa sorta di "perdita parallela"
ridisegna il rapporto carcere/città, già a fronte del processo
di formazione della metropoli moderna, situabile a cavallo tra il XIX e il
XX secolo. Nasce qui l'esigenza di indagare la metropoli oltre il "vizio
assurdo" strutturalista, nei termini di concentrazione e perdita di senso
niente affatto inquadrabile ed esauribile nella concentrazione di agglomerati
spaziali, unità produttive e centri di potere economico-politico, istituzioni
di controllo, ecc.
Si spezza qui la linea di continuismo tra fabbrica e città. C'è
chi questa rottura la interpreta come la "fine della distinzione"
tra istituzione carceraria e concentrazione urbana operaia, fino ad ammettere
che neppure idealmente tra i due momenti si dà più distinzione
alcuna.
Occorre rompere, a parer nostro, questa ascendenza marxista. Ciò è
possibile solo inserendo la medesima istituzione carceraria nel processo di
concentrazione e perdita di senso che costituisce uno dei segni tipici rivelatori
della situazione tardomoderna.
Necessita mettere a fuoco la riorganizzazione di tutto il tempo e lo spazio
storico, di tutte le esistenze individuali fino agli ambiti emotivi e sentimentali
che procede in uno con la nascita della metropoli, costituendone per molti
versi il tratto distintivo. Siamo qui ben oltre gli schemi marxiani contenuti
nella sequenza produzione-circolazione-riproduzione.
Più che all'estensione del tempo e dello spazio della fabbrica a tutta
intera la società, al contrario assistiamo all'eclissarsi dell'autonomia
totalizzante della fabbrica, la quale vede sempre più erodersi spessore
e senso con la definitiva entrata in crisi della legge del valore.
La produzione di plusvalore non è più concepibile nei termini
di "produzione di merci a mezzo di denaro" (Marx); né
in quelli di "produzione di merci a mezzo di merci" (Sraffa). Ciò
perché — prima di tutto — non è più il "lavoro
produttivo" fonte della creazione della ricchezza sociale e perché
— in secondo luogo — ricchezza ora nella metropoli, prima ancora
che produzione di merci, è "produzione di senso".
I luoghi centrali della ricerca debbono, dunque, essere curvati verso altre
direzioni. Bisogna cominciare a rispondere a nuove domande: in che termini
la struttura segregativa gioca un ruolo nella generale concentrazione e perdita
del senso tipica dell'attualità? Come va ristrutturandosi, in questo
nuovo incastro, l'intero sistema del controllo sociale?
La nascita del penitenziario moderno — databile tra il 1700 e il 1800
— è inestricabilmente connessa con il processo di affermazione
del capitalismo. Le sue mutazioni sono, in parte, le mutazioni che il capitalismo
ha conosciuto nella sua evoluzione. Ma l'una cosa non rispecchia l'altra e
ognuna ha origini non riducibili alla sostanza comune delle forme di organizzazione
dello sviluppo capitalistico.
La tensione a cui è sottoposto il penitenziario moderno nella metropoli
non dipende esclusivamente da un processo di frammentazione e segmentazione
dei modi del produrre che indurrebbe una corrispettiva frammentazione e segmentazione
delle istituzioni e delle tecniche di controllo. Il penitenziario e le logiche
meramente custodialistiche saltano in aria, prima di tutto, a fronte del loro
specifico ruolo, della specificità del sistema vivente di relazioni
ed ambienti che debbono ricondurre a norma, a ordine.
Il carattere sociale della devianza è storicamente mutato. La fenomenologia
della devianza non è più riducibile ad una serie comportamentale
monocausale e monovalente, specchio antagonistico della normalità.
Le stesse maglie della normalità si vanno oltremodo allargando, riassumendo
progressivamente al loro interno comportamenti un tempo — nel bene e
nel male — codificati e perseguiti come devianti.
Devianza — al positivo — è eccedenza rispetto alla normalità
e, pertanto, uno dei suoi possibili sviluppi da sottoporre a verifiche puntuali;
sviluppo e non negazione o rovesciamento. Ma, ad un tempo, è spostamento
della normalità più avanti e su circonferenze più larghe.
È nostra opinione che la devianza vada ripensata e riconcettualizzata
anche nei termini di ricerca di un nuovo quadro normativo, di un nuovo ordine
che rechi in sé impresso il gusto del "disordine" e delle
aperture. La norma qui, più che statuire i confini che delimitano la
legalità dall'illegalità, si designa come forma viva attenta
a "ricercare le aperture del mondo". Essa diviene qui sensibile
ad accogliere entro il suo seno le modificazioni comportamentali e caratteriali
che intervengono in società e nelle relazioni tra gli uomini. Più
che essere valore in sé — universo chiuso —, è ricerca
di valori, tratto di unione e di rottura tra un contesto socio-normativo obsoleto
e un altro che va faticosamente emergendo. Se è vero che il vecchio
non può essere perduto ma indefessamente riacquistato, è ben
vero che va costantemente rotto, superato. La norma incorpora qui in sé
tanto la dimensione della continuità che quella della discontinuità;
come pure — e non allo stesso modo — la devianza.
La figura del deviante non può essere assimilata a quella di "nemico
della società" o "nemico dello Stato". E questo non
tanto e non solo perché sarebbe stata un prodotto della società.
Piuttosto, per l'essenziale fatto che la società non può essere
nemica di se stessa. Deve essere capace via via di ricondurre entro nuovi
contesti relazionali tutti gli elementi della turbolenza sociale, i fattori
e i soggetti della perturbazione, gli agenti in direzione della rottura dell'ordine.
Se è vero che la turbolenza sociale, per così dire, tira avanti
l'assetto esistente, è pur vero che essa abbisogna costantemente di
nuove strutturazioni normative e, per questa via, di un riancoraggio ad un
assetto sociale riarticolato. Comportamenti devianti non sono assimilabili,
per questo fatto stesso, a condotte criminali, normate da patologie penali.
Non è dato omologare la figura del deviante a quella del criminale,
la devianza alla criminalità. Quest'ultima è infrazione più
o meno organizzata che oppone comportamenti e regole simmetriche alla società
e allo Stato, pur non ponendosi mai l'obiettivo di un loro rivolgimento. A
proposito della criminalità, si potrebbe argomentare di una forma di
simmetria complementare alla società e allo Stato; di una dimensione
tanto "altra" rispetto al quadro normativo dato, quanto marginale
e subordinata che ne costituisce il rovescio miniaturizzato e degradato. Ciononostante
— anche nel caso della criminalità — un intervento esclusivamente
penalistico e afflittivo si rivelerebbe egualmente non giustificato, ugualmente
spuntato e inidoneo al recupero e al "reinserimento risocializzante".
Affermato che deviante e criminale sono due figure diverse, ci preme rilevare
che le procedure di recupero e reinserimento sociale di queste due figure
non possono in ogni caso fare perno sull'intervento repressivo-reclusorio.
È, però, utile ribadire che, trattandosi di due figure non omologhe,
diversificate per ognuna di loro debbono essere le procedure di recupero e
le esperienze di "risocializzazione". Per schematizzare: se diversi
sono stati i passaggi che hanno condotto al carcere, diversi debbono essere
i passaggi che conducono all'uscita dal carcere.
Bisogna partire da qui, se non si vuole che entrambi i fenomeni abbiano il
carcere come risposta unica e indifferenziata. Approntare altre risposte istituzionali,
che non passino per la istituzione carceraria, diventa possibile, ove i vari
soggetti non vengano tipicizzati sotto un sovraccarico simbolico e afflittivo
che li rende eguali, quando eguali non sono. Il superamento della risposta
reclusoria, la rottura dell'internamento segregativo come risposta totalizzante,
è possibile proprio tenendo in conto la specificità, l'assoluta
alterità delle esperienze da ricondurre al recupero e reimmettere nei
canali liberi della "risocializzazione". Il carcere eguale per tutti,
come universo segregativo differenziante e differenziatore, è esattamente
il carcere da cui mai nessuno uscirà: negatore per eccellenza di qualsivoglia
esperimento di "risocializzazione" apprezzabile che, in queste condizioni,
non va mai oltre una casistica individualizzata e, comunque, di ben scarsa
entità qualitativa e quantitativa. Forme altre di carcerazione, sottratte
al mero custodialismo e aperte alla società, cominciano ad essere praticabili
proprio risalendo alle origini e alle matrici che sono alla base dei singoli
e specifici fenomeni di devianza e criminalità; praticabili solo se
si riescono ad operare distinzioni dentro questi fenomeni complessi. Solo
così è possibile sperare di ricondurre e riequilibrare questi
fenomeni alla complessità sociale che li connota e che, in forma diversa
e più o meno pervertita, alimentano.
Affermare e valorizzare le differenze non vuole dire differenziazione; al
contrario, è sorgente di autodeterminazione, ricerca di autonomie,
combinazione tra differenti entro contesti pluralistici che divengono il fondamento
necessario per ulteriori passaggi di arricchimento, sia per quanto riguarda
le autonomie che i gradi di combinazione e cooperazione di volta in volta
agglutinati.
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2. Crisi del penitenziario moderno: la segmentazione
delle funzioni di controllo
All'incrociarsi di tutti questi fenomeni, il penitenziario moderno entra in
crisi fin nelle sue strutturazioni e progettazioni architettoniche. Viene
fatto di osservare che tale crisi procede su due rette d'azione tra di loro
contrapposte:
1) da un lato, il penitenziario conosce una "progressiva dissoluzione
nelle pratiche di controllo diffuso";
2) dall'altro, si va accentuando la sua "funzione meramente deterrente".
Il "massimo di sicurezza" qui richiesto al secondo punto è
anche "massimo di estraneità" dal tessuto sociale circostante
e dallo spazio urbano; il "minimo di sicurezza" richiesto al primo
punto è "minimo di estraneità" dal tessuto sociale
e dallo spazio urbano. La persistenza di questo fenomeno è indubbia:
l'osservatore coglie qui un fatto reale, disvelandone le dinamiche nascoste.
Rivela giustamente Pavarini: "Il carcere perde, definitivamente, una
propria fisionomia per "segmentarsi" in momenti di un "continuum"
disciplinare altamente strutturato: una specie di cono rovesciato, la cui
base coincide ormai definitivamente con l'insieme dei rapporti di controllo
metropolitano e il cui vertice è rappresentato dall'istituzione per
eccellenza "chiusa" e "totale": il penitenziario "che
deve fare paura"".
Il problema nasce proprio qui. Si tratta di lavorare tanto per la ricollocazione
dello spazio urbano, quanto per la ricollocazione del carcere in una progressione
temporale e spaziale che coniughi la sua "disutilità" con
la sua "estinzione".
Prima di insistere su questo tema specifico, seguiamo dappresso il processo
che ha condotto alla formazione di questo "cono rovesciato" con
tutti gli annessi e connessi.
È, ormai, generalmente accertato che questa fase si origini a cavallo
tra gli anni '60 e '70 e apra l'approntamento di nuove "strategie di
controllo sociale «diffuso»". Il che consente di designarla
ulteriormente e più in dettaglio come:
1) "fuga dalla pratica segregativa";
2) "accentuazione del processo di deistituzionalizzazione".
La pluricausalità dei fenomeni di devianza e, in generale, di tutte
le fenomenologie e dinamiche sociali mette irreversibilmente in crisi il carattere
monocratico delle pratiche segregative. D'altro canto, il tentativo statuale
di ridurre a sé la complessità sociale induce una presenza dislocata
e capillare delle istituzioni nelle maglie del tessuto sociale. Con il "Welfare
State" l'intervento dello Stato nel sociale sembra toccare l'apogeo e
le spese di assistenza sociale si connettono con una capillarizzazione del
controllo sociale, che non ha più nella istituzione carcere il luogo-momento
privilegiato. In questo senso, il controllo sociale, diffondendosi, si de-istituzionalizza
e le figure interessate non vengono sottratte al circolo della socialità.
Con la crisi del "Welfare State", il controllo sociale diffuso crea
aree e figure marginalizzate da vero e proprio ghetto metropolitano. Tali
figure e aree, pur sottratte al carcere, vengono precipitate e quasi divorate
in un "minimo di socialità". La tendenza, pur presente nella
fase precedente, diventa qui prevalente, se non egemonica su tutta la linea.
Lo spazio di estraneità e di emarginazione si prolunga dal vertice
del cono alla sua base rovesciata, ben dentro il territorio metropolitano.
Non è solo il "carcere duro" ad essere caratterizzato da
un "massimo di estraneità"; lo stesso "altro carcere"
è avviluppato da una rete di rapporti estraneanti ed emarginanti.
Ci pare di poter dire che "politiche assistenziali" e "fuga
dalla pratica segregativa" siano sottosistemi del "Welfare State".
Crisi del "Welfare State", è, perciò, crisi delle
politiche assistenziali e della pratiche di de-istituzionalizzazione dell'esecuzione
penale. Crisi diverse qui si incrociano e cumulano. Entro questo contesto
che somma più linee e punti di crisi va inquadrata la stessa crisi
dei "movimenti per la scarcerizzazione" in tutti gli anni '60 e
'70 in America e in Inghilterra e in Italia nel ciclo 1969-74. La crisi del
"Welfare State" e dei suoi sottosistemi va posta in relazione all'emergenza
di un mutamento ampio "nell'organizzazione sociale delle società
a capitalismo avanzato". Occorre, però, introdurre a questo punto
due distinzioni:
1) il cumularsi di queste crisi con nuove insorgenze sociali non è
strutturalmente riconducibile alla "crisi fiscale dello Stato";
2) l'invadenza estraneante delle istituzioni non può essere posta unicamente
in connessione con la "crisi di legittimità dello Stato".
Pervenuti a questa soglia di ragionamento, la domanda che ci poniamo e che,
in un certo senso, ci sorprende è la seguente: cosa avviene dopo il
cumularsi di queste crisi? Cioè, cosa sta accadendo ora?
Nell'opera di Pavarini che stiamo più ricorrentemente citando troviamo
questa calzante risposta: "controllo sociale in comunità".
Pavarini precisa: "La nuova pratica del controllo tende a privilegiare
una forma atipica di segregazione territoriale, in particolare attraverso
i grandi ghetti metropolitani, ove vengono a riversarsi quei soggetti marginali,
un tempo istituzionalizzati: piccoli criminali, drogati, alcolizzati, infermi
di mente, ecc.".
Il fenomeno non può essere disconosciuto. Senonché è
proprio questo modello a forbice che è specificamente in crisi, che
ha perduto di razionalità e si rivela inidoneo a perseguire i propri
fini. Ed è già la riforma del '75 che, nel suo spirito più
che nella lettera, anticipa questa crisi, aprendo primi squarci per una risoluzione
possibile, quasi consapevole dello scenario futuro.
Ci spieghiamo meglio, partendo dalle cellule elementari del problema.
Il postulato base su cui si regge la riforma penitenziaria è il seguente:
la cella non può essere intesa come unico luogo dello "spazio
di vita" del detenuto. Essa, pertanto, non può essere chiusura
interna dell'istituzione chiusa. Rottura dell'universo totalitario della cella
è rottura del "regime indifferenziato" che vige nel penitenziario
moderno, secondo cui la struttura del tempo e dello spazio carcerario non
ha articolazioni interne e non conosce mutazioni, spostamenti, innesti. La
legge di riforma prevede un modello di vita reclusorio particolarmente articolato.
In primo luogo: opera una distinzione tra luogo di vita durante il giorno
e durante la notte, prevedendo nel corso della giornata diurna ampi momenti
di socializzazione in strutture altre dalla cella. Col che viene meno la "indifferenziazione
della struttura" congiuntamente alla indifferenziazione del regime di
vita del soggetto recluso. L'impiego del tempo e l'occupazione dello spazio
vengono così a dotarsi di una struttura atomica articolata. In secondo
luogo: si evidenzi a un processo di trasformazione della funzione del carcere
che, da istituzione di custodia e isolamento, viene mutandosi in istanza che
deve favorire la "risocializzazione" del detenuto con la specifica
previsione di un trattamento adeguato e di rapporti con la comunità
esterna, non soltanto con riferimento alle misure alternative legislativamente
previste.
Alla struttura articolata interna si affianca un'altrettanto articolata struttura
verso l'esterno. Le dinamiche di aggregazione e di chiusura verso l'interno,
tipiche del carcere di isolamento e di custodia, vengono rimpiazzate da una
"dinamica di proiezione" e riaggregazione verso l'esterno, di connessione
con il sociale che è propria del nuovo carcere delineato dalla legge
di riforma".
Occorre proseguire questo cammino, introducendo modifícazioni e sviluppi
che tengano in conto le mutate condizioni storiche e i guasti apportati dalla
legislazione dell'emergenza, la quale ha proprio nel carcere uno dei luoghi
più sconvolti e martoriati.
Alcuni primi scogli vanno aggirati da subito. Anche noi non crediamo all'«utopismo
della dolcezza redentrice della pena»; il cui contraltare è l'irrigidirsi
delle aperture verso l'esterno e degli spazi interni di cui la riforma è
particolarmente portatrice. Su questo campo occorre fare i conti con gli effetti
della ideologia della terapia medica e psichiatrica che si concretano particolarmente
nell'applicazione di "tecniche di comportamento" e nell'uso tutto
disciplinare del trattamento. Tali nodi costituiscono, tra l'altro, alcuni
limiti interni principali della riforma.
Non siamo nemmeno del parere che sia bastevole un'opera di negazione semplice
del carcere. Per noi, negazione del carcere è insopprimibilmente sua
penetrazione; sua permeabilità alla società e alle riorganizzazioni
sociali in atto; sua curvabilità verso la comunità esterna.
Come è poco realistico ritenere di spazzare via il carcere con un unico
e catartico atto rivoluzionario, così è chimerico sperare di
imbrigliarlo con lo strumento legislativo. Qui crollano l'utopismo rivoluzionario
e quello riformista. Qui occorre porre mano ad una attività e ad una
cultura profondamente rinnovate. Altrimenti il carcere che si vuole eliminare
o riformare invariabilmente si conserva e riproduce.
Finora sopprimere il carcere è risultato impossibile; così come
riformarlo. Da qui occorre passare e ripartire. Con un'avvertenza: "Solo
che oggi il rapporto non può essere quello diretto tra lotte dei detenuti
e riforma, tra denuncia e quadro legislativo compiuto. Deve invece crearsi
un rapporto molecolare tra iniziative dei detenuti ed esterno sul piano di
proposte concrete e di fattive attività puntando a modificare, od allargare
le maglie legislative ed ad eliminare quelle più restrittive. Il percorso
che facciamo, lungo e difficile, è quello dell'estinzione del carcere".
Il punto è esattamente questo.
Estinzione in progress del carcere è sua permeabilità
e penetrazione e, nel contempo, suo superamento. Il quadro è quello:
1) del restringimento progressivo del tempo e dello spazio del carcere;
2) della reimmissione costantemente crescente di fasce di detenuti nel tempo
e nello spazio della libertà e della socialità.
Più evoluti e ricchi sono i meccanismi sociali, più amplio deve
essere lo spettro dei diritti riconosciuti e delle libertà insorgenti;
più ridotti debbono essere i meccanismi dell'emarginazione. Si disegna
qui una nuova mappa dei meccanismi dell'«integrazione sociale»,
in un ambito in cui conflittualità sociale e devianza non sono più
criminalizzate o demonizzate. Si tratta di accrescere continuamente da parte
istituzionale l'offerta di una così riarticolata integrazione sociale,
la cui domanda conosce un'espansione quantitativa e qualitativa. La crisi
delle istituzioni chiuse nasce anche dalla loro incapacità fisiologica
di dare una risposta fruibile alla massa di domande di "integrazione
critica", in uno spazio di libertà tutelate, valorizzate e ampliate
puntualmente. È l'incapacità di dare una risposta valida a queste
domande, ormai connaturata all'esistenza stessa delle società complesse,
che dà luogo alle risposte segregative, repressive e criminalizzanti.
Eppure lo Stato medesimo, le stesse istituzioni hanno concorso a suscitare
tali domande; salvo, poi, patire la nuova fenomenologia dell'insorgenza sociale
in termini di "allarme sociale", "pericolosità sociale",
ecc. Diventa estremamente difficile, su questo declivio impervio, discernere
il confine tra le strumentalizzazioni più viete e le reali inadeguatezza
storica e arretratezza culturale della macchina istituzionale nel suo complesso.
A misura in cui la discrepanza tra domanda e offerta di "integrazione
critica" si accresce, sopravvive la necessità del carcere. Comprimere
questa sproporzione è "liberarsi della necessità del carcere".
Bilanciare la sproporzione fino a farla tendere a zero è un lavorar
concretamente all'estinzione del carcere.
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3. L’utopia trattamentale e la sua crisi irreversibile
Al punto precedente abbiamo tentato di isolare quello che, a nostro parere,
era lo spirito della riforma. Urge ora individuarne il fulcro. Ci pare di
poter dire, sulla base di una letteratura consolidata, che il fulcro della
riforma (a differenza del RD 787/1931 abrogato in cui focale era l'esecuzione
della pena) sia il "trattamento individualizzato" (cfr. il capo
III, artt. 13-31). Con la riforma, l'amministrazione penitenziaria diventa
titolare di un servizio — il trattamento — di cui il detenuto
è il destinatario.
Il carcere è il campo in cui queste due funzioni si incrociano. L'obiettivo
è esplicitamente dichiarato: innescare, con la "collaborazione"
attiva del detenuto, dinamiche di rientro di quegli atteggiamenti che sono
di ostacolo ad una "costruttiva partecipazione sociale". Il trattamento
previsto dalla riforma segna il passaggio dall'iperosservazione di impostazione
anglosassone ai modelli di "rieducazione oggettiva". L'innesto avviene
sulla nozione di "risocializzazione" fondata sul "lavoro esterno",
quasi in prospettiva marxista. Non certo casualmente, il beneficio delle misure
alternative ha come sua condizione sostanziale il reperimento di un lavoro
esterno.
L'inserimento del detenuto nel meccanismo produttivo dovrebbe equipararlo,
o condurvelo per la prima volta, alla condizione di produttore. La rieducazione
è in ragione diretta del farsi dell'attività produttiva, suo
frutto. È possibile qui rinvenire un'omologazione produttiva che conserva
al suo fondo radici classiste; non ultima quella tra capitalista e operaio
(o proletario, che dir si voglia). La linea di recupero attraverso il lavoro
produttivo ipotizza il reinserimento nel sociale attraverso un'attività
parziale. Il lavoro non compare semplicemente come "mediazione sociale",
per l'acquisizione e il godimento delle risorse, ma figura direttamente e
universalmente come società. Non sorprende che, su questa linea, tutto
scada verso l'assistenzialismo caritativo, come la realtà storica impietosamente
dimostra.
Tra gli elementi di crisi della Legge n.ro 354 va computata l'ideologia produttivistica
che la pervade e la rinserra nel cul di sacco di un utopismo di marca ottocentesca,
all'inseguimento della mitica società perfetta dei produttori, tanto
nella versione "reazionaria" che in quella "rivoluzionaria".
L'inserimento produttivo predicato dalla riforma non è reimmissione
in un insieme vario e ricco di relazioni e ambientazioni sociali, pregne di
disposizioni e occasioni di vita affettiva, sentimentali e passionali articolate
e inventive. Il trattamento preconizzato è preparazione della figura
del produttore in tutte le sue dimensioni, da quelle lavorative a quelle etiche,
culturali e intrapsichiche. Presupposto di fondo dell'opera rieducativa è
la "centralità" del momento produttivo e dello scambio analogico
tra la figura dell'uomo e quella del produttore, entro cui questa viene progressivamente
risucchiando quella.
Il lavoro di decostruzione del deviante procede in uno con quello
di ricostruzione del produttore. Il programma di trattamento più
che assorbimento critico, assimilazione e riconversione trasformativa della
devianza è sua rimozione, suo scarto. Come se la società, attraverso
l'istituzione chiusa fondata sul trattamento rieducativo, tentasse di separarsi
dalla devianza, quasi che fosse cosa a lei estranea: come se non le appartenesse
e non potesse assolutamente appartenerle.
La formazione del programma di trattamento tiene in conto i risultati dell'osservazione
scientifica, il cui scopo è quello di accertare le "carenze fisiopsichiche
e le altre cause del disadattamento" (art. 13/2). L'intervento rieducativo
è fondato su questo programma che, a sua volta, ha come suoi elementi
cardine il lavoro, l'istruzione e la religione (art. 1 5).
Certamente, la riforma su questi temi specifici è stata largamente
disattesa. Tutte le ricerche al riguardo condotte hanno dimostrato che di
"osservazione scientifica", "programma di trattamento",
"cartella personale", ecc. non c'è traccia; come pure delle
figure e delle strutture all'uopo previste. Lo stesso CSM ha messo in correlazione
la scarsa incidenza dell'affidamento con l'inefficienza e l'inesistenza dell'«osservazione
scientifica» della personalità, fino all'ammissione che l'applicazione
dell'affidamento è stata "scorretta". Il fatto indubitabile
è che l'«osservazione scientifica», quando non ha assunto
un carattere di pura normazione e controllo repressivo, è restata lettera
morta.
Tuttavia, non sono queste inosservanze a base del tracollo della riforma.
Le ragioni vanno individuate, come abbiamo cominciato a vedere, in fattori
strutturali. Riarticolare lo spirito della riforma implica:
1) lavorare a sbocchi legislativi di tipo nuovo che non ripetano le incongruenze
utopistiche, produttivistiche e normalizzatrici della n.ro 354;
2) ripensare le forme e i passaggi del trattamento con tutti i suoi elementi
sottostanti.
Occorre che il programma di trattamento sia già un momento della "risocializzazione".
Non più inteso come preparazione alla reimmissione nella società:
non più soltanto articolazione del carcere verso la società;
ma dilatazione della società in costanza della compressione del carcere.
Ripensare il trattamento come esperienza sociale aperta, piuttosto che come
rieducazione normalizzante; ci sembra questa la nuova soglia di partenza.
Trattamento, entro questo nuovo contesto, è già dislocazione
di una fitta rete di rapporti sociali, il cui controllo e le cui decisioni
non passano più per l'imputazione unica costituita dalle gerarchie
e strutture collegiali interne al carcere.
Una società che si riappropria del carcere è una società
che comincia a svuotarlo delle proprie funzioni; e se lo riappropria per estinguerne
la necessità con progressione processuale. Ma una società che
si riappropria il carcere, è anche una società che comincia
a farne a meno. È l'utilità della socialità e della libertà
che diventa prevalente sulla disutilità del carcere. È la geografia
del carcere che diventa soccombente rispetto alla geografia delle libertà.
Pensiamo a una nuova connessione tra "centro" e "periferia"
istituzionale e tra il perimetro istituzionale e il sociale. Affinché
in "periferia" sia possibile sciogliere i problemi strutturali e
al "centro" sia presente e avvertibile il complesso delle problematiche
periferiche. Affinché "centro" e "periferia" accolgano
le domande dell'ambiente e dei movimenti sociali. Pensiamo che su queste strade
possa trovare appropriata esaltazione l'autodeterminazione di tutti i fenomeni,
le esperienze e i soggetti sociali. La socializzazione di dinamiche istituzionali
aperte procede attraverso la valorizzazione delle libertà sociali e
personali. La ricollocazione dello spazio urbano a mezzo del superamento del
carcere è anche questo.
Il trattamento, dunque, non come terapia; ma come esperienza a forte senso
critico-integrativo, comunicativo e trasformativo. Non come afflizione o rovescio
della "malattia" dello stare in carcere. Il trattamento come altra
faccia della pena è anche pena del trattamento, penosità del
carcere. Se qui il carcere è l'unico spazio della pena, il trattamento
è il siero velenoso che inietta l'esecuzione penale.
Nella nostra ipotesi il trattamento si configura come il primo momento di
rottura dell'impermeabilità ed extraterritorialità del carcere.
Per suo tramite figure esterne e dinamiche sociali prima recluse fanno ingresso
nel carcere. Pur non perdendo la sua natura individualizzata, il trattamento
acquisisce socialità. Non di riadeguamento conformistico del detenuto
alla società si tratta, ma di evoluzione del primo entro il possibile
e necessario miglioramento generale della seconda. Solo una società
che cambia nel segno della libertà può cambiare ed estinguere
il carcere.
Attribuire al trattamento un significato esperenziale e fortemente comunitario
vuole dire cogliere la sua internità alla sperimentazione di nuove
forme di carcerazione. Un'idea di trattamento in comunità rinvia ineliminabilmente
ad esperienze aperte di carcerazione. Passano anche di qua nuove
domande di libertà; da qui prendono origine le regole di produzione
di nuovi diritti. Da qui passa il recupero stesso della frattura tra diritto
e funzioni istituzionali.
Intendiamo specificamente significare che la "certezza del diritto",
in questo quadro, non si estrinseca più, non si articola e prolunga
nell'arbitrarietà dell'esecuzione penale, ridottasi, ormai, ad esecuzione
penitenziaria. Nel cammino che va dalla norma all'esecuzione penale il diritto
si distanzia da se stesso. Ciò avviene, poiché a monte è
stato assunto come misura integrale del tempo, vincolo di conformità
all'organizzazione sociale vigente. Svilito a strumento di proporzionamento
delle pene, a mezzo di strutturazione della disciplina e del controllo, si
distanzia dalla mappa dei diritti e delle libertà.
Ciononostante il diritto permane forma. Meglio ancora, forma libera e necessaria
della riconduzione dell'autorità alla giustizia. La sperimentazione
di forme aperte di carcerazione contribuisce a ricondurre il diritto entro
il suo alveo naturale; a rimettere in primo piano i soggetti e le loro storie
effettuali, anziché le fattispecie penali; a privilegiare le qualità
di contro alle quantità indifferenziate che omologano gli individui
all'unicità e irreversibilità della pena.
Guardiamo a nuove forme di carcerazione, aperte alla società, anche
nei termini di contrappeso alla distruzione del legame sociale e alla caduta
di senso che marchiano in negativo la condizione tardomoderna. Forme di carcerazione
aperte contribuiscono, per la loro parte, a ristabilire e ricostruire il legame
sociale imploso, concorrendo alla messa in scena di nuove prospettive di senso.
Pensiamo a forme di carcerazione in cui siano autodeterminati tempo, spazio,
affetti, legami, affinamenti culturali e relazionali. Siffatte forme sono
collocazione del carcere nella società, sua sintonizzazione con la
società. E viceversa. Da una autodeterminazione all'altra: ecco il
passaggio su cui si reggono superamento ed estinzione del carcere.
Richiamiamo la necessità di una redistribuzione delle risorse umane
e sociali mortificate nel carcere e ivi rese oziose. Ipotesi che, sì,
prevede (i) una redistribuzione delle risorse penitenziario sul territorio
e (ii) una contrazione dell'area della carcerazione; ma anche (iii) istituisce
un nesso di continuità e reversibilità tra carcere e spazio
urbano, tra le strutturazioni simboliche tipiche del penitenziario e quelle
della società.
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4. Superamento del carcere e delle culture della pena
vigenti
La crisi dell'istituzione chiusa nasce anche dalla crisi dello scambio tradizionale
delitto/pena, il quale nella presente epoca storica non appare più
regolato dal tempo. Necessita vivisezionare la nozione tempo, così
come nel concreto vissuto si pone realmente. La durata niente ci dice sul
modo e sul dove della carcerazione; il tempo niente dice sugli spazi della
carcerazione e sulle sue regole di produzione. Il tempo diventa un criterio
classificatorio intangibile che non fa operare distinzioni congrue.
È noto che il primo a porre il legame proporzionale tra delitto e
pena è Hegel. Parimenti noto è che lo stesso Marx istituisce
un legame tra pena e delitto a mezzo del valore, misurato dal tempo.
Egualmente risaputo è che Pasukanis, sulla scia di Marx, opera il primo
tentativo teorico organico di definire la "funzione strutturale"
del diritto non nei termini di "pura forma"; ma in quelli di "strumento
organizzativo della produzione", applicando al diritto e alle forme giuridiche
l'analisi marxiana della forma merce.
Ci interessa, ora, rivisitare il nesso delitto/pena per una ricalibratura
della sanzione penale e una ritematizzazione del campo dei delitti.
Vi sono un'idea e un criterio selettivo di pena che dobbiamo ora porre apertamente
in discussione. Ci riferiamo a quelle culture e a quel complesso di funzioni
e pratiche istituzionali che concepiscono la pena come risposta ristabilizzatrice,
facendo leva sulla nozione di ordine giuridico vulnerato dal delitto e riaffermato
dalla sanzione penale. Cultura della pena è qui riaffermazione dell'ordine
giuridico. Col che si stende una rete paradigmatica che assume una natura
eminentemente filosofica.
Premessa di questa filosofia è l'invarianza della regola universale
di comportamento. Da qui sorge la necessità di introdurre, tramite
la pena, una simmetria che ripristini la parità tra chi osserva le
regole e chi invece no. La pena è, così, anche risposta neutralizzatrice
e, in quanto tale, una forma di prevenzione speciale. Fulcro della funzione
della pena diventa la sua utilità, fondata sulla necessità che
il reo non commetta altri delitti. Utilità della pena e sua necessità:
da qui viene dedotta una proiezione ottimale che auspica, da parte del condannato,
l'introiezione di motivazioni autonome a non delinquere; da qui, in determinazione
ulteriore, germina la rieducazione conformizzante, l"'ideologia della
pena", l'accettazione e la condivisione della sanzione penale. Accanto
a questa proiezione ne vive un'altra, per così dire, minimale: la pura
e semplice riproduzione dell'impossibilità materiale a delinquere.
Gli estremi di queste concezioni proiettive sono lampanti: nel primo caso,
la rimozione psichica, sul modello estremistico delineato da "L'arancia
meccanica" di S. Kubrick; nel secondo, l'eliminazione fisica, sul modello
estremo tipicizzato da Lombroso. Entro questa polarità hanno mietuto
a piene mani tutte le diverse scuole di diritto affermatesi in Italia. Ma
non è questo il luogo adatto per affrontare nello specifico tali questioni.
Vogliamo soltanto porre mente a questa circostanza indubitabile: l'esistenza
del carcere è consustanziale a queste teoriche della pena. Superamento
ed estinzione del carcere sono, perciò, anche superamento ed estinzione
di queste teoriche.
Avvertiamo semplicemente l'esigenza di riportare ed equiparare la parabola
della pena a "parabola storica". Dal luogo dove la parabola della
pena è stata ricondotta ai suoi valori storici più bassi e arretrati
— la legislazione speciale e il carcere speciale —
ci nasce l'urgenza di ristoricizzarla e raffrontarla con le condizioni della
vita e della libertà al loro livello di complessità.
È da questo osservatorio che intendiamo sviluppare elementi di critica
della teoria retributiva della pena (di stampo neoclassico) e delle teorie
positiviste della pena.
La pena come retribuzione del danno arrecato, per effetto della condotta deviante
o criminale, trasforma gli eventi in fattispecie giuridiche, instaurando una
proporzione che rescinde il fatto dal contesto disordinato che l'ha provocato.
Immerso nella normativa giuridica, l'evento ne acquisisce l'ordine interno,
la logica e l'equilibrio astraente. Se il delitto è violazione, la
pena deve reintrodurre, normare ed estendere l'autorità e l'ordine
della legge violata. L'ordine, più che essere il complesso risultato
di interazioni, combinazioni e variazioni sociali, è fino in fondo
il portato esterno di un equilibrio formale sovraimposto alla società.
Come tale, ad essa imposto. Le teorie retributive mettono qui in contrapposizione
il disordine sociale con l'ordine giuridico, facendo di quest'ultimo il baricentro
del ristabilimento dell'ordine esterno alla società.
Curiosamente, l'obiettivo positivo del ristabilimento dell'ordine si ammanta
di metafisica giuridica. La conservazione e la riproduzione del potere ruotano
esclusivamente attorno al diritto, trasformato in fonte del potere. Col che
questo indirizzo espunge dagli scenari sociali i conflitti, gli interscambi
tra Stato e cittadini, tra Stato e società e tra cittadini e cittadini;
anche per la decisiva circostanza che qui quale fonte del diritto è
assunta la divina provvidenza. Osserva il Carrara, uno dei massimi esponenti
della scuola neoclassica: "Il diritto deve avere una vita e dei criteri
presistenti ai placiti umani" (Programma di diritto criminale, 1866-1870).
La norma giuridica si sclerotizza e si separa definitivamente dall'evoluzione
sociale; si ammanta di una razionalità metafisica e metastorica, facendo
emergere il diritto come metapotere. Secondo la chiave di lettura che stiamo
proponendo, la teoria retributiva della pena è una metateoria del potere.
Più che coniugare pena con autorità, tende a far coincidere
autorità giuridica con autorità statuale, in una singolare anticipazione
del programma kelseniano del "diritto puro". Se la teoria retributiva
concentra la sua attenzione sul delitto, la scuola positiva (che si è
soliti far risalire agli studi di Lombroso del 1871 sulla salma del bandito
Vilella) sposta l'interesse sul delinquente, in quanto unico evento suscettibile
di esperienza. Il diritto penale dismette la sua aura metafisica e, per così
dire, rinuncia ad essere filosofia, collocando la risposta dello Stato al
delitto fuori dal reato e dalla pena corrispondente.
Sganciato il fatto dalla colpa, la pena non può più essere la
retribuzione dovuta al delitto. Col che scompaiono imputabilità e castigo
e la sanzione non diventa altro che un mezzo di difesa contro il delinquente.
Baricentro dell'azione penale non è più la punizione, ma il
riadattamento. In subordine, laddove non si sviluppano dinamiche adattive,
intervengono la segregazione e la neutralizzazione, fino alla situazione limite
dell'eliminazione fisica. Riadattamento, segregazione e neutralizzazione sono
i tre vertici del triangolo della difesa sociale.
Non conta più il valore del delitto, ma i suoi presupposti e i suoi
precedenti sociali. Secondo gli approcci positivisti, il delitto porta alla
luce la pericolosità sociale che l'ha prodotto. L'ostacolo reale da
rimuovere non è più visto nel delitto in sé; bensì
nella pericolosità sociale sottostante e circolante. La sanzione deve
differenziarsi e orientarsi in vista dalla difesa del corpo sociale perturbato.
Dice Ferri, uno dei massimi teorici della scuola positiva: "La sanzione
sarà applicata in misura più o meno grave non pel delitto, ma
per la pericolosità sociale che nel delitto si rivela" (Orizzonti
del diritto penale, 1881). Il diritto si fa sociologia positiva. La norma
non si limita a diffondere la metafisica della statualità e del potere;
bensì si articola e varia come strumento di difesa tra gli altri. Il
diritto acquista qui un carattere protettivo: protezione dalla pericolosità
sociale. Quest'ultima particolarmente patita nell'Italia post-unitaria, a
fronte dell’iniziale passaggio da economia agricola ad economia industriale;
ancora più patita oggi, a fronte del passaggio da una società
di produzione ad una di informazione e comunicazione.
Possiamo concludere questo rapido excursus critico, facendo osservare che
le scuole prese in esame, seppur diversamente, danno luogo ad un sorta di
darwinismo giuridico. Alla evoluzione biologica e genetica che elimina per
selezione le specie inferiori ormai, disadatte e disadattate subentra la selezione
giuridica, ugualmente tesa alla soppressione della specie inferiore: il delitto
e il delinquente. La naturalità dispotica del diritto si interconnette
con la naturalità dispotica della sanzione. Pena e delitto permangono
ancora più proporzionatamente e intimamente avvinti. Alla società
i valori, al delinquere e ai delinquenti i disvalori. Alla pena il compito
di riproporzionare delinquere e delinquente alla società: o riconducendoveli
conformisticamente o eliminandoli fisicamente.
La legislazione speciale, proprio allignando su queste radici, ha potuto produrre
e inventare degradazioni ulteriori in termini di cultura e civiltà
giuridica.
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5. Estinzione del carcere: ovvero superamento delle strutture articolate
della forma carcere
È nostra opinione che tutto quanto precede richiami molto di più
e di diverso di una depenalizzazione dei reati, con la sdrammatizzazione della
sanzione che ne segue. Non vorremmo che il cumulo delle domande nuove tratteggiate
trovi una risposta di stampo antico, presso a poco così recitante:
la sanzione opera nel maggior numero dei casi; il carcere, nel minore. Ancora
presenti in questo assioma sono un forte momento intimidativo e una forte
volontà dissuasiva che si configurano come una sorta di "deterrenza
di ritorno". Soprattutto, è ancora operante la categoria di allarme
sociale che, col momento dissuasivo, giustifica ed eternizza, non tanto e
non solo il carcere genericamente; bensì il "carcere duro"
specificamente.
Noi crediamo, invece, non solo attuale, ma anche realistico dare oggi avvio
a processi, diversificati nel tempo e nello spazio, di superamento passo dopo
passo di tutte le forme storicamente date di carcerazione.
Pensiamo al superamento e alla estinzione del carcere non come forma universale
e monolitica, ma delle forme articolate attraverso cui il carcere
come istituzione si disloca nello spazio urbano e nel tempo storico. Se si
vuole, questo processo lo si può qualificare come disaggregazione e
disgregazione della forma carcere in tanti sistemi e sottosistemi
da restituire progressivamente alla società e alla libertà sulla
linea del possibile e del reale.
Con questo lavoro progressivo è possibile penetrare simultaneamente
tutte le forme di articolazione dell'istituzione carcere, approntando per
ognuna le procedure giuste e appropriate di superamento ed erosione: tutte
le forme del carcere, fino al "carcere duro". Anche di quest'ultimo
vanno fatte vacillare sin da ora le residue necessità, perché
è in questa forma che la sopravvivenza estrema del carcere si trincera,
nel suo tentativo disperato di ancorarsi alla società, pietrificandola;
perché sino a quando questa forma di carcere sopravviverà, l'idea
e la realtà del carcere resteranno.
Pare a noi che, ancor più che "liberarsi della necessità
del carcere" rimanga l'esigenza di liberarsi della sopravvivenza
del carcere. Un percorso di libertà reale passa anche da qui.
È questo un problema nuovo, un problema dell'oggi. Per esso vanno trovate
soluzioni nuove, le soluzioni dell'oggi: "Qui fin da principio ad incognite,
equazioni e possibilità di soluzione non v'è fine. Il compito
è: scoprire sempre nuove soluzioni, connessioni, costellazioni, variabili".
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Fonte: Quaderni di "Società e conflitto",
numero 7, 1995 di Antonio Chiocchi e Claudio Toffolo - PASSAGGI. Scene dalla
società italiana degli anni '70 e '80.
Sito web: http://www.cooperweb.it/societaeconflitto/