«Il vero problema non è la droga, ma il modo scellerato in cui si pensa di combatterla». L’esponente di punta dell’abolizionismo dice no al modello importato dagli Usa.
Abbiamo avuto modo di incontrare a Lecce Nils Christie, criminologo norvegese di orientamento abolizionista, durante un convegno organizzato dall’Università di Lecce. In un momento storico in cui nei soli Stati Uniti si sfiorano i due milioni di detenuti, l’abolizionismo non è l’utopia di pochi, bensì la via per una giustizia umano-centrica che prescinda dalle pene e che cerchi di risolvere in chiave riconciliativa i conflitti che nascono inevitabilmente nella società.
Prof. Christie, il titolo del suo ultimo libro è Il business
del penitenziario. La via occidentale al gulag…
È il mio penultimo libro. Ora sto lavorando a un altro volume, Il crimine
che non esiste... (ride)
In che senso non esiste?
Ci sono molte cose pessime al mondo, cose che io personalmente disapprovo,
ma la questione è se esse costituiscano dei reati oppure no: è
un problema di definizione. Noi dobbiamo decidere cosa è criminale
e cosa non lo è. Cosa assomiglia al criminale: il cattivo, l’incomprensibile,
l’involontario? Niente di tutto questo lo è necessariamente,
c’è una grande libertà nelle definizioni. La maggior parte
dei comportamenti che consideriamo criminali hanno a che vedere con dei conflitti,
ma i conflitti possono anche essere mediati. Possiamo leggerli come le contraddizioni
insite nella natura umana. Dobbiamo lavorare su vie alternative al sistema
delle pene, dobbiamo occuparci di riconciliazione e di compensazione delle
vittime. Nella vita civile accade che sorga un conflitto, segno di un disagio,
e che si entri in contrasto con la polizia, con le istituzioni. A quel punto
non dobbiamo essere interessati alla soluzione più facile, ossia alla
vittoria dello stato che sconfigge il criminale. Rispondere a un disagio con
la punizione significa legittimare un sistema di paure a partire dalla paura
di chi punisce.
In Il business del penitenziario (pubblicato in Italia
da Eleuthera) ha analizzato il business dei sistemi di controllo. In che consiste?
Ci sono tantissimi soldi che girano intorno al sistema carcerario, c’è
un business edilizio che alimenta una grossa industria, in particolare negli
Stati Uniti. Per costruire un carcere e mettere insieme una équipe
che lo gestisca ci vuole parecchio denaro. La situazione negli Usa è
tale che nei distretti territoriali mettere su prigioni conviene. Per molti
paesi le carceri sono una grossa risorsa industriale mai in crisi. Ne è
un esempio il fiorire di prigioni private: un modo fra i tanti per fare soldi
sul crimine.
Il controllo penale si sta lentamente sostituendo alla sicurezza
sociale. Secondo lei c’è una relazione tra la riduzione delle
garanzie sociali e il crescente sovraffollamento del sistema carcerario su
scala globale?
Sì, ne sono assolutamente convinto. Per esempio il sistema newyorkese
con la sua tolleranza zero è molto costoso, e questo significa una
riduzione della spesa per il sistema scolastico. Così quest’ultimo
si deteriora, mentre cresce il sovraffollamento delle carceri che diventano
sempre di più una scuola del crimine. Una situazione di tragica idiozia.
La stessa cosa accade in California dove, bilanci alla mano, è facile
verificare che si spende molto di più per le carceri che non per la
scuola, e c’è una potente lobby che lucra sull’industria
delle prigioni.
Nel nostro paese quasi un terzo della popolazione detenuta è composto
da tossicodipendenti. Le politiche proibizioniste favoriscono l’aumento
esponenziale dei detenuti in tutta Europa.
E se invertissimo la rotta?
La droga è la piaga più grossa del sistema penitenziario occidentale.
Tutte le difficoltà di gestione sono legate proprio allo stato di tossicodipendenza
di gran parte dei detenuti. Non dobbiamo però dimenticare che si tratta
di un problema importato dagli Stati Uniti, e ciò è assolutamente
ed indissolubilmente legato al proibizionismo. Ho intervistato molte persone
detenute, e una parte di esse non aveva mai fatto uso di droghe prima di entrare
in prigione. Poi ci sono quelli che finiscono dentro per consumo personale
o piccolo spaccio. Il problema non è quindi la droga, ma il modo scellerato
con cui si è deciso di combatterla. Sono convinto che proprio tale
approccio, più che la droga stessa, sia davvero una piaga importata
dall’America in tutto il mondo, e in particolare a Mosca. Dobbiamo dichiarare
guerra al modo in cui gli Usa hanno deciso di dichiarare guerra alla droga.
Basta pensare ai numeri. Negli Usa ci sono più di 700 prigioni, qui
in Italia ne avete circa 200, in Russia 685. I russi hanno accettato lo stesso
sistema repressivo degli americani nella lotta alla droga e le prigioni sono
sempre più affollate: i drogati - come prodotto del sistema proibizionista
- sono, insieme alle prostitute, la popolazione più numerosa nelle
carceri.
Qual è la situazione nel suo paese, la Norvegia? Lei ha ricordato
più volte che sono stati poliziotti e direttori delle carceri a opporsi
al sovraffollamento.
Non c’è sovraffollamento, ma c’è comunque una grande
pressione soprattutto da parte dei media, che attuano una grossa semplificazione
e rappresentano il bisogno di sicurezza in termini di controllo poliziesco.
In Norvegia abbiamo una lunga tradizione nella difesa dei diritti della classi
più umili della società, e ci sono molte organizzazioni che
lottano anche per i diritti dei detenuti.
Che idea si è fatto della nostra situazione, in questa breve
visita? In Italia il 30% circa dei detenuti è straniero. A suo parere
è una peculiarità del nostro paese?
No. Negli Usa la maggior parte della popolazione detenuta è nera o
comunque molto molto povera. Nelle carceri finiscono le minoranze. Penso che
per voi sia molto importante resistere al cattivo esempio che arriva da nazioni
più grandi come l’America e la Russia. Quanti detenuti avete
in Italia? 54.000? Quante guardie? 44.000? E allora non abbiate paura dei
troppi poliziotti… ognuno potrebbe portarsi a casa un detenuto, e avreste
risolto il problema delle carceri!