La vita nell'età neoliberista catalizzata dalla televisione che
ci chiude in casa e ci sottopone a inquietanti bombardamenti sull'allarme
criminalità, rendendoci tutti più soli e diffidenti verso gli
altri. Le piazze e le strade che si svuotano la sera trasformandosi nel loro
grigiore in un simbolo tragico delle nostre paure. Il cittadino terrorizzato
che delega allo Stato la cura della sua angoscia invece di provare a ricostruire
le reti sociali. Lo Stato come sistema di controllo/repressione sociale e
il carcere come fiorente industria al suo servizio.
Nils Christie studia il controllo del crimine da oltre cinquant'anni e non
ha dubbi sulla origine ambientale del comportamento "deviante" rispetto
alle convenzioni sociali o alle leggi. In inglese è appena uscita una
edizione ampliata del suo "Crime control as industry. Toward gulags,
western style" (in Italia la precedente da Elèuthera: "Il
business penitenziario. La via occidentale al gulag", 1998). Da poco
è uscito sempre per i tipi di Elèuthera "Oltre la solitudine
e le istituzioni. Comunità per gente fuori norma" nel quale Christie
descrive cinque esperimenti, in corso in Norvegia da trent'anni, che propongono
un'alternativa alla solitudine e alla privazione della libertà cui
gli stati costringono gli "anormali".
Nella libreria del suo piccolo ufficio all'istituto di criminologia dell'Università
di Oslo, il professor Christie ha una sorta di piccolo archivio cartaceo:
fascicoli che intitolano "Prigioni negli Stati Uniti", "Prigioni
in Russia", prigioni, prigioni, prigioni
Il grande nemico dell'essere umano - mi dice quando gli chiedo del suo rapporto
con i movimenti politici - è spesso lo Stato. Mi hanno appena chiesto
un articolo sui «criminali pericolosi» e io ho risposto che allora
non scriverò degli individui ma degli Stati. Se finisci in una prigione
russa o americana, per esempio, è alto il rischio di non uscirne vivo
o di uscirne distrutto dal punto di vista psichico, fisico e sociale. Lo Stato
è un elemento decisamente pericoloso per la vita umana, specie nell'ambito
del sistema penale. Per questo è fondamentale l'impegno per difendere
la società civile: non è possibile assistere a un trend
come quello americano che nel corso degli anni Novanta ha visto quasi raddoppiare
il numero dei reclusi: due milioni (oltre 700 ogni 100 mila abitanti), molti
dei quali poveri o scomodi per il potere. Questo significa che ormai si impiega
il sistema penale per dirigere la popolazione, invece di assisterla con il
welfare state. E il sistema penale non ha controparti: è difficilissimo
ostacolarne la continua espansione in società come le nostre...
In che modo si può tentare di incamminarsi verso un sistema alternativo
di risoluzione dei conflitti e di approccio al crimine?
C'è un piccolo saggio che scrissi parecchio tempo fa, «Il conflitto
come proprietà», nel quale mi chiedo chi detenga la proprietà
dei conflitti: mi sembra tutt'altro che naturale che sia lo Stato. La proprietà
deve appartenere ai protagonisti del conflitto. Da questo punto di vista,
i giuristi si possono considerare dei «ladri professionisti»,
perché rubano i conflitti alla gente.
Mi sta portando verso un'ipotesi di abolizionismo del sistema penale?
Come quella del suo collega olandese Louk Hulsman...
L'abolizionismo va oltre le mie intenzioni, mi sembra poco realistico. Credo
che da un lato vada trasferita a metodi di soluzione alternativi - sul modello
del giudice di pace - la gran parte dei reati, ma che dall'altro si debba
conservare un sistema di garanzie cui una delle parti (la più debole)
possa ricorrere per evitare un accordo iniquo. Se io ti ho spaccato il naso
con un pugno e poi tu - che sei socialmente più attrezzato e potente
- pretendi da me, oltre alle scuse e alle spiegazioni, un risarcimento che
mi renderebbe schiavo, devo poter optare per un normale processo in un'aula
di tribunale. Insomma, non si tratta di gettare alle ortiche la forma di difesa
dei diritti individuali sviluppata nel corso dei secoli; si tratta di migliorarla...
In Norvegia esiste la Camera dei conflitti, un'istituzione alternativa
al sistema penale. Che risultati sta dando questa esperienza?
All'origine c'era il giusto proposito di trasferire - con l'accordo di entrambe
le parti - le cause dal tribunale a un organo di soluzione consensuale del
conflitto. Il problema è che le cause che finiscono al sistema alternativo
sono decisamente troppo poche e di scarsa rilevanza. Allora chiedo: sulla
base di quale diritto la Procura dello stato stabilisce che solo le piccole
cause vanno alla Camera dei conflitti? Qual è la ragione reale che
impedisce il canale alternativo, per esempio, a casi seri di violenza, anche
quando entrambe le parti, vittima e imputato, sono d'accordo? È per
tutelare il potere della società. E perché le professionalità
che qui entrano in gioco - magistrati, avvocati... - devono difendere i loro
interessi, non possono accettare che la gente riesca ad arrangiarsi senza
di loro...
Trasferire più cause a un sistema di soluzione civile o comunitario,
però, significa coinvolgere un numero crescente di persone chiamate
a mediare fra le parti...
Quando la sera cammino per le strade vuote di Oslo vedo dietro le finestre
una luce blu. La dentro siede l'intera nazione e guarda la tv. Sarebbe stato
molto meglio se, invece, quelle stesse persone fossero riunite in un'assemblea
popolare per discutere di un omicidio.
In qualche zona del mondo succedeva. Anzi, forse succede ancora...
In realtà è un metodo antico di risolvere le controversie. Per
esempio, era comune che i più anziani della comunità si riunissero
per cercare una soluzione a un conflitto. C'era questa consuetudine anche
in Norvegia, nelle valli più remote: si cercava naturalmente di evitare
il processo penale, perché sarebbe stato un trauma che avrebbe portato
con sè nuovi conflitti. Se in un piccolo villaggio una persona viene
punita dal Tribunale, questo fatto può accendere la miccia di una guerra
civile: non si può. Ora questa tradizione va recuperata e ricreata
come in Nuova Zelanda con gli indigeni australiani. La nostra civiltà
postmoderna, che domina il mondo, riscopre all'improvviso qualcosa che aveva
buttato via. Ma in Nuova Zelanda, per esempio, succede che la creazione di
professionalità attorno agli strumenti alternativi appesantisce il
processo: torna la domanda di prima: chi ha la proprietà dei conflitti?".
Nell'esperienza norvegese che tipo di reati vanno alla Camera dei conflitti?
Si arriva al massimo ai piccoli furti nei negozi. I reati che implicano una
pena detentiva sono esclusi: così vuole la Procura dello Stato. Così
si continua a far danni sociali utilizzando il sistema penale. Se guardiamo,
invece, ai conflitti che nascono fra le grandi società commerciali
o industriali, ci rendiamo conto che si cerca sempre una mediazione per evitare
il muro contro muro in Tribunale, una prospettiva che sarebbe deleteria, foriera
di nuovi conflitti. Il concetto mi sembra elementare anche per i rapporti
sociali. Dunque, semplicemente non lo si vuole capire.
Perché?
Per un insieme di ragioni, credo. Per cominciare, lo Stato, ogni organizzazione
statuale, vuole poter governare e giudicare gli individui; le professioni
coinvolte, come ho già detto, vivono dei conflitti sociali e più
ce ne sono meglio è; poi, abbiamo la nostra tradizione culturale così
legata all'idea del castigo, alla quale, certo, si contrappone la corrente
che sostiene il perdono.
Mi sembra un meccanismo perverso che alimenta il regime della delega al
"sistema", che favorisce la sottrazione di responsabilità
ai singoli componenti della società e la perdita di consapevolezza
sui doveri e sui diritti del vivere in comunità. In definitiva, un
altro ambito organizzativo che sembra fatto apposta per allontanare l'individuo
e la sua proiezione identitaria dall'incontro con gli altri...
Rianimare la vita sociale, gli intrecci e i dialoghi fra le persone, mi sembra,
infatti, uno degli effetti collaterali significativi di un percorso alternativo
per la soluzione dei conflitti.
L'idea di fondo di questi percorsi alternativi è il superamento
del concetto di pena. Ma in che senso?
Sto scrivendo un libro che si intitola «Il crimine non esiste».
Esiste l'azione. Poi le va dato un significato. Era un individuo malato? Ineducato?
Arrabbiato? O forse era mio figlio che aveva «preso in prestito»
un po' di soldi senza chiedermelo? Oppure si trattava di un delitto? Insomma,
un reato da punire o un comportamento da capire? Quali sono le condizioni
sociali che determinano la lettura di un'azione nell'una o nell'altra direzione?
Se siamo favorevoli a una comunità civile fatta di individui responsabili,
se abbiamo questa tendenza anarchica, allora dobbiamo impegnarci a organizzare
la società in modo che le azioni siano viste come qualcosa di diverso
da un «delitto». Le azioni non sono, diventano. Questo vuol dire
che non si potrà mai rispondere alla domanda: la criminalità
aumenta? Il crimine dipende da che cosa in una data società viene considerato
tale. Al massimo si potrà rispondere che è stato «registrato»
un aumento di «reati» ma non si potrà dire che la criminalità
«è» in aumento. La criminalità è un'opinione.
Un fenomeno culturale. Dobbiamo capire le azioni anche a prescindere dalle
leggi di un dato momento e luogo...
C'è forse qualcuno di noi che con i suoi atti non infrange la legge
ogni tanto? No, il codice penale non ci aiuta a capire la criminalità.
Siamo in una situazione in cui i politici hanno poco di cui discutere: persi
gli ancoraggi ideologici, domina la filosofia del mercato e dei soldi. Chi
propone approcci alternativi, come nel mio caso, non viene per nulla ascoltato.
Dunque, non ci sono nella politica i portavoce dei valori sociali anti-sistema,
non c'è chi «complica» il dibattito; intanto la criminalità
diventa un buon terreno per riscaldare gli animi e mietere facili consensi.
Questo è evidente in molti Paesi, a cominciare dagli Stati Uniti: se
hai l'immagine di un politico troppo debole sul fronte della criminalità,
per te è finita; la maggioranza ti volta le spalle, sei amico dei nemici
del sistema.
Considerato che una persona mediamente dotata d'intelletto dovrebbe rendersi
conto di quanto sia facile finire fra chi infrange una qualche legge, come
mai è così semplice manipolare l'opinione pubblica con l'allarme
criminalità?
Perché la stessa persona media di solito non riesce a identificarsi
mai con una certa azione «criminale» - reati legati agli stupefacenti,
per esempio - e pensa: questo non lo farò mai. Ora, questa mancata
capacità di relativizzare, di tentare di capire le situazioni e i conflitti,
è legata al crescente isolamento sociale, all'angoscia crescente, quella
delle strade vuote di Oslo e delle finestre con la luce blu della televisione.
La gente sta chiusa in casa. Guarda la tv e ha sempre più paura. A
causa di quello che vede in tv ma anche perché fuori non c'è
nessuno; fuori nel buio c'è solo la minaccia criminale. Ecco, allora,
che quest'angoscia torna utile al sistema, a chi ruba i conflitti.
In questo quadro, che cosa dire del ruolo dei media?
Credo che il più significativo sia quello della televisione che, innanzitutto,
riduce il nostro tempo sociale, la partecipazione alle varie attività
che ci fanno stare insieme con gli altri. Inoltre, come noto, i mass media
sovraespongono i fatti criminali, li rendono talmente centrali da spaventare
la gente. E la gente spaventata alimenta il circolo vizioso, se ne sta di
più a casa a guardare la tv, fuori un deserto buio. Se guardiamo i
dati della polizia sulla criminalità notiamo che tutte le tipologie
sono in crescita, a parte il reato d'ingiuria: brutto segno, la gente non
si interessa più degli altri... Ci vorrebbero nuovi spazi di riflessione,
dibattiti veri e non le cose «primitive» che ci offrono oggi politici
e mass-media.
Un consiglio ai giornalisti?
Per esempio andare a seguire una seduta alla Camera dei conflitti. Vedrebbero
che spesso a soffrire sono sia la vittima sia l'accusato che magari non riesce
a capire quanto grave sia stata (per la parte lesa) la sua azione e cerca
di spiegarsi. Lì i giornalisti si renderebbero conto di come, piano
piano, con il dialogo, le due persone cercano di farsi capire. La vittima
comincia un po' alla volta a rendersi conto che l'aggressore è una
persona normale; questi comincia a capire quel che ha combinato. Può
finire con una stretta di mano e questo mi sembra l'epilogo moralmente più
accettabile; di sicuro più di affidare la pratica a un funzionario
del sistema penale. In una piccola area dell'Australia in questo periodo è
in corso un esperimento che coinvolge l'intera popolazione sulla questione
del conflitto e della partecipazione: così si può costruire
una nuova consapevolezza.
Una parte delle persone in carcere non ripeterebbe l'atto per il quale
sono state punite; un'altra parte, probabilmente sì. Ha senso cercare
di mettere a fuoco questa distinzione per determinare l'esistenza di una minoranza
di individui che potrebbero potenzialmente reiterare, per esempio, azioni
violente?
Non si riuscirebbe mai a capire chi sarebbero i componenti di questa minoranza.
Credo che la scelta della detenzione si possa immaginare solo quando fallisce
del tutto la mediazione; oppure nei singoli casi di azioni violente così
raccapriccianti da far ritenere che il cittadino medio non accetterebbe una
condizione diversa per l'imputato. Torniamo agli aspetti culturali. Va tenuto
conto, però, che rinchiudere una persona in carcere aumenta la probabilità
di reiterazione del reato una volta scontata la pena. Ricordo spesso che se
mandiamo i nostri figli a scuola è perché pensiamo che lì
imparino delle cose e abbiano una vita sociale; che cosa significa, invece,
mandarli in prigione? Come saranno quando usciranno? O vogliamo forse avere
dei giganteschi campi di concentramento in cui si entra e non si esce più?.
C'è chi difende il carcere come strumento preventivo, la pena come
deterrente...
È molto bassa la probabilità che una persona non compia un'azione
perché un altro individuo è stato incarcerato per un atto analogo.
Quando uno perde il controllo non pensa certo né al codice penale né
a chi sta in cella. E nemmeno chi agisce per un bisogno economico (per esempio,
un contadino colombiano che decide di coltivare o trasportare cocaina) o in
base a meccanismi di gratificazioni di un ambiente degradato in cui la violenza
è l'unico mezzo per emergere. Insomma, si tratta di una battaglia culturale
su più fronti.
In altre parole, siamo tutti potenziali criminali, dipende dall'ambiente...
Ho analizzato a lungo i norvegesi che facevano le guardie nei campi di lavoro
nazisti nella Norvegia settentrionale, dove i prigionieri, molti dei quali
erano serbi, spesso morivano di stenti. Quelle guardie erano persone normali:
pensavano semplicemente che i prigionieri, i "nemici", erano delle
bestie, non degli esseri umani... Uno dei sopravvissuti, un serbo, mi ha raccontato
che deve la vita a una fatalità: l'aver trovato nel campo un vocabolario
tedesco-norvegese che si studiò parola per parola nelle lunghe ore
passate in cella. Un giorno mentre il prigioniero marcia in fila indiana nel
cortile, la guardia norvegese in testa alla colonna chiede a quella in fondo
se ha un fiammifero, un "fyrstikk"; l'altra risponde di no; il serbo
allora dice: "Jeg har en fyrstikk", io ho un fiammifero, e da quel
giorno fu l'unico a non essere trattato come un mostro...
Fonte: Intervista a cura di Zenone Sovilla pubblicata su Nonluoghi
http://www.nonluoghi.it/