Cina, la proprietà non è più un furto
Emendamento della Costituzione per riconoscere il "diritto inviolabile" dei privati
Orsola Riva
Corriere della Sera, 23 dicembre 2003

"Non importa di che colore è il gatto. L'importante è che mangi il topo". Lo dice un proverbio cinese. Con questa mentalità pragmatica da oltre vent'anni la Repubblica Popolare si è di fatto convertita a un capitalismo selvaggio dove i ricchi sono ricchissimi, i poveri poverissimi e su tutto comunque la spunta il Partito comunista, che può in qualunque momento decidere di espropriare un terreno, una fabbrica o un negozio.
Da ieri qualcosa è cambiato. Il comitato La permanente. dell' Assemblea naziona popolare (quest'ultima si riunisce una sola voltal'anno) ha ufficialmente preso in esame la possibilità di emendare la Costituzione per inserirvi il diritto alla proprietà privata. Si tratta di una proposta uscita dall'ultimo Comitato centrale del partito nell'ottobre scorso. In quell'occasione il presidente Hu Jintao ha lanciato un nuovo modello di capitalismo "sostenibile" sia dal punto di vista dell'impatto ecologico, che da quello dell'impatto sociale. Se finora l'importante era mangiare il topo (secondo lo slogan lanciato alla fine degli anni Settanta da Deng per cui "arricchirsi è glorioso" ), all'ultimo Congresso Hu ha decretato che "la crescita economica non è il nostro unico obiettivo. Noi puntiamo a bilanciare la crescita, gli sviluppi politici e le conquiste sociali".
Ora la parola passa al Parlamento che si riunirà a marzo. In genere, però, l'assemblea legislativa agisce meccanicamente su impulso del Partito, limitandosi a piccole limature nella scelta delle parole da usare nella stesura di una legge.
Ma in che cosa consistono precisamente le riforme. proposte ieri? "I due emendamenti principali riguardano gli articoli 11 e 13, ossia la proprietà dei mezzi di produzione e quella dei mezzi di consumo", spiega il professor Renzo Cavalieri, docente di Diritto dei Paesi afro-asiatici a Lecce. L'articolo 11 era già stato modificato nel '99 con un emendamento che definiva le imprese private "una parte importante dell'economia socialista".
Pure in quel caso si trattava della ratifica di uno stato di fatto, visto che l'industria privata e gli investimenti stranieri rappresentano ormai i due terzi dell'economia cinese: la parte sana, che ha portato la Cina a tassi di crescita del 9 per cento annuo (mentre le imprese di Stato finora hanno campato con i prestiti delle banche: crediti inesigibili che rischiano di strangolare il sistema bancario cinese).
"Il testo proposto dal comitato permanente dice che l'industria individuale e privata è tutelata dallo Stato purché legalmente acquisita. E introduce il concetto di "equo indennizzo" in caso di esproprio", spiega il professor Cavalieri.
Diverso è il caso dei terreni agricoli, che sono e restano pubblici, cioè di proprietà dello Stato o delle "collettività". I contadini cinesi possono prendere in affitto i terreni per 70 anni, un po' come il leaseholder inglese, che compra l'usufrutto del suo appartamento ma non la nuda proprietà (freehold), spesso ancora in mano agli eredi di alcune grandi casate nobiliari.
Il secondo emendamento, quello sui beni di consumo, amplia e generalizza un principio che era anch'esso già riconosciuto. L'articolo 13 della Costituzione ammette infatti il diritto a possedere "redditi da lavoro, risparmi, case e altre proprietà private". Lo stato, con la riforma proposta ieri, s'impegna d'ora in poi a proteggere la proprietà privata .in quanto tale (purché "acquisita legalmente"), definendola inviolabile: proprio come la proprietà pubblica.
Secondo il direttore dell'istituto italiano di Cultura a Pechino, Francesco Sisci, si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione culturale (nel senso occidentale del termine): "I cinesi non hanno tradizionalmente la nozione di diritto - ha dichiarato Sisci all'agenzia Apcom -, un concetto che noi abbiamo ereditato dal diritto romano. Col riconoscimento di un diritto la Cina scava le fondamenta per la sua prima grande riforma politica".
Il professor Cavalieri la pensa diversamente: "Non bisogna attendersi cambiamenti drastici. Quanto sta accadendo ora è il frutto di un lento processo di democratizzazione in corso da almeno un decennio. La Cina ha aderito alla fine degli anni Novanta alle convenzioni delle Nazioni Unite sui diritti politici, economici, sociali. E nel '99 ha introdotto il rule of law, il principio di legalità. Ora il Comitato propone di introdurre un emendamento e all'articolo 33 in cui lo Stato riconosce la tutela dei diritti umani".
Una prima, ancora "timida", risposta alle tante i preoccupazioni internazionali suscitate dalle continnue violazioni , dei diritti umani nella Repubblica popolare che, fra i tanti record, vanta anche quello, tristissimo, delle esecuziom capitali: almeno 1.060 nel 2002 secondo Amnesty International, circa l'80 del totale mondiale. Per non parlare dei dissidenti politici condannati al carcere (diverse centinaia) e della persecuzione delle sette, Falun Gong in testa, ma anche delle religioni: è di ieri la notizia dell'arresto di tre cristiani accusati di "spionaggio". Insomma, la strada da fare è ancora molta: ma in tema di diritti la Cina non conosce grandi balzi, solo piccoli passi.