Carcere e società disciplinare
di Mario Coglitore


La soglia
Variazioni
Crimini e criminali
Punizioni e pene
La dolcezza delle pene
La società punitiva
Scienza
Continuità e contiguità

Bibliografia

 


Fonte: Memoria per il conseguimento del DEA in Istituzioni sociali e politiche dell'Europa occidentale. Relatore: Prof. Jean-Marie Vincent, Università di Parigi VIII - Saint Denis, Facoltà di Scienze Politiche. Pubblicato on line dalla Libera Università di Godzilla http://www.redleghorn.net/libuniv/tesi.php

 

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Non conosce la propria condanna? Sarebbe inutile comunicargliela, tanto imparerà a conoscerla sul proprio corpo.
Franz Kafka, Nella colonia penale

La soglia
Se è vero, come ci insegna il Foucault di Les mots et les choses, che nel corso della storia dell'Occidente cristiano si sono date alcune fratture epistemologiche che hanno ridisegnato i contorni di una società complessa in continua evoluzione, una di esse è certamente quella che a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo ha trasformato la percezione stessa della realtà delle cose. Il '700, secolo dei Lumi e delle grandi rivoluzioni, ha marcato una radicale differenza con le epoche precedenti proprio perché, dentro alle instabili fluttuazioni di società e politica, alcuni importanti cambiamenti hanno segnato la vita degli uomini e delle donne. Le nuove empiricità, come le chiama Foucault, hanno singolarmente disposto la loro presenza in uno schema di realtà che soltanto un'analisi accurata riesce a distinguere nella loro singolarità. Singolarità che è, ancora una volta, l'effetto del dispiegarsi e dell'interagire di una generalità di pratiche che si intersecano a vicenda, si incontrano, si scontrano, convergono e divergono in una strategia che sarà quella delle discipline, del mondo ordinato della nascente società industriale.
Mentre il sistema pre-capitalista prosperava e lentamente tentava di assorbire in sé la stessa struttura sociale, rendendola omogenea alle sue istanze, il linguaggio di un intero segmento della nostra storia recente assumeva le caratteristiche più adatte a riprodurre continuamente quel sistema, dichiarandone concettualmente possibile l'esistenza. L'operazione tanto più riusciva, quanto più si dimostrava impossibile sostituire alla forza dei rapporti economici di tipo capitalista qualsiasi alternativa. Il concetto di lavoro, introdotto a sostituzione di quello di "analisi delle ricchezze", è una delle funzioni principali della nuova meccanica produttiva.
Nel '600 e nel '700 l'economia politica non esiste ancora; il suo campo discorsivo non si è costituito, la sua pertinenza semantica, vale a dire la possibilità stessa che tale concetto si esprima in una serie coerente di parole, nel linguaggio, è lontana. Un'altra nozione appartiene all'universo mentale degli uomini dell'epoca, quella di ricchezza. Rendita, interesse, prezzo, commercio, valore costituiscono alcuni degli elementi di questa positività. Ma certamente nulla hanno a che fare con essa i concetti di lavoro o produzione, per come l'economia della società industriale li intese più tardi. Nel XVI secolo era l'oro deputato a rivestire la funzione di segno per eccellenza della ricchezza e ad essere scambiato con qualunque cosa avesse un prezzo. Nel XVII è la moneta a diventare misura dello scambio; ad essa vengono ancora attribuite le tre caratteristiche che aveva l'oro, ma molto più importante diventa la funzione di scambio, ossia la capacità di sostituirsi a ciò che ha un prezzo. È l'epoca del cosiddetto mercantilismo, in cui si stabilisce "[...] un'articolazione riflessa che fa della moneta lo strumento di rappresentazioni e di analisi delle ricchezze e viceversa fa delle ricchezze il contenuto rappresentato dalla moneta." (Foucault)
Il valore della moneta non è più dato dal metallo con cui è coniata ma dal fatto di essere segno stimativo, di poter quantificare in un numero le ricchezze, quindi di rappresentarle. La moneta inoltre può circolare con facilità e sono proprio circolazione e scambio a definirne il rapporto con la ricchezza; in tal modo i beni acquistano la fluidità necessaria per moltiplicarsi ed aumentare le ricchezze, così come, parallelamente, moltiplicandosi le specie di moneta in circolazione si attirano nuove merci, si organizzano nuove colture, si accresce il numero delle fabbriche. Linfa vitale del complessivo sistema degli scambi, la moneta non abbandona il metallo come origine ineguagliabile del suo valore (lasciando inalterata la sua qualità di elemento di ricchezza perfettamente confrontabile) e lo trasforma in utile strumento di un'economia che sa rendersi duttile alle mutate condizioni sociali e culturali.
Le ricchezze, alla stessa stregua del campo delle rappresentazioni secondo Foucault, hanno adesso il potere di scambiarsi, di articolare un sistema di riferimento reciproco, di guardare da se stesse dentro alla positività che le rende possibili, esistenti, analizzando le proprie parti e le loro relazioni, stabilendo un sistema di segni e un quadro di identità e differenze. L'uomo dell'età classica non pensa più la realtà che lo circonda in termini di somiglianza, come avrebbe fatto soltanto cento anni prima quando la realtà era colta attraverso la similitudine e lo spazio della parola opponeva significato a significato. La rappresentazione governa incontrastata e dà forma ad un modo di esistere e di pensare che certo esclude dall'universo mentale dell'epoca qualsiasi idea che abbia a che fare, anche lontanamente, con le serie meticolose ed ordinate di concetti che danno corpo alla nostra realtà contemporanea, sia essa riferita agli oggetti materiali od alle elaborazioni del pensiero.
La rottura epistemologica successiva, quella che inaugura lo spazio storico del mondo che ancora appartiene, pur nella diversità che ci separa dall'origine in quell'ormai lontano inizio del secolo che conobbe l'elettricità, alla nostra esperienza, segna l'avvento di nuove forme del vivere, del morire, dell'amare e del lavorare. Le disposizioni di sapere della civiltà industriale subiscono una torsione che oscura rapidamente il territorio strenuamente occupato dalla rappresentazione, griglia interpretativa, come si è detto, di tutto un mondo.
Ciò che cambia, alla svolta che apre il XIX secolo, è il sapere stesso in quanto unità indivisa, modo d'essere, fra il soggetto che conosce e l'oggetto della conoscenza. Alla figura dello scambio, criterio di analisi largamente condiviso dagli economisti dell'epoca precedente, si sostituisce una nuova categoria interpretativa che meglio si adatta ai processi in lenta formazione in quel periodo, quella di produzione. La produzione organizza, nel suo ruolo specifico di pratica nel campo del sapere, l'oggetto che costituirà il terreno della sua esistenza e della sua stessa pertinenza: il capitale; e certo non soltanto quello, ma anche nuovi metodi e nuovi concetti (per l'appunto, ad esempio, l'analisi delle forme che la rendono possibile). Concetto e metodo allo stesso tempo dell'ingranaggio produttivo, modo dell'agire di tutti, della società intera e criterio di pensabilità della meccanica capitalista, è il lavoro. Esso è la vera forza della nuova analisi del sistema di produzione (non più analisi delle ricchezze fondata sul commercio e lo scambio regolato dal baratto) e la teoria della produzione, adesso, precederà sempre, necessariamente, quella della circolazione. La produzione si presenta così come una serie lineare ed omogenea che attraversa la griglia del sapere intrinseca al nuovo secolo e che si costituisce proprio sul concetto di lavoro. A questo punto esiste uno specifico correlato antropologico, se riesco con questo termine a dar ragione dell'essere umano nella sua totalità, nel senso che la differenza che si manifesta visibilmente nell'uomo del XIX secolo, l'homo oeconomicus che noi siamo a tutt'oggi, è quella di vivere ormai nella continua imminenza di una morte continuamente paventata e sempre fuggita, in un'atmosfera psicologica nella quale i bisogni non sono più rappresentati, né gli oggetti che li possono soddisfare. Sfuggire al proprio inevitabile destino in quanto essere finiti e la coscienza di questa finitudine cambia radicalmente il modo di rapportarsi alla realtà e, di conseguenza, anche di provvedere al sostentamento di se stessi. I bisogni e i desideri vengono riferiti ad una sfera soggettiva che diventa ben presto oggetto della psicologia, disciplina che non casualmente nasce quasi nel medesimo periodo e che autonomamente articolerà un suo discorso sull'uomo; più tardi, questo discorso cercherà e cerca ancora di attribuirsi uno statuto scientifico che ne garantisca la legittimità, la possibilità di esistere per sé. Dall'altra parte, la produzione come sistema globale di interpretare il mondo, reticolo di forze e di potere che progressivamente fa del capitale la migliore combinazione possibile nel gioco dei rapporti economici.
Con l'avvento della società industriale, dunque, il lavoro diventa la condizione indispensabile per sopravvivere in un ambiente che ne riproduce continuamente l'idea, non solo oggettivamente (necessità ineludibile di sostentare il corpo) ma anche psicologicamente (l'unico discorso pronunciabile sarà quello del lavoro e sul lavoro). D'ora in avanti si potrà iniziare a dar luogo allo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, a costruire meticolosamente un meccanismo verticale, autoritario e repressivo (quando occorre ricorrendo alla violenza fisica per appianare qualsiasi controversia altrimenti irrisolvibile) che in maniera scientifica adatta un'intera cultura alla propria persistenza. Questo è potuto avvenire combinando assieme una serie ben precisa di elementi che la ricognizione storica, non più accettabile se espressione di quel potere del capitale, può aiutare a far emergere, disarticolando con pazienza le strutture del dominio. È vero, in sostanza, per abusare ancora una volta di Marx, che l'economia sta alla base della comprensione del mondo attuale, ma non devono sfuggire quelle altre parti del campo discorsivo della nostra modernità che sono parte integrante del sistema di potere e di cui si smarrisce il reale significato.
La prigione, il suo concretizzarsi come forma specifica della punizione-riabilitazione, i suoi rapporti con il sistema giuridico, con la penalità costituiscono una di quegli aspetti essenziali delle strategie di potere in Occidente. Le modificazioni, lente ma altrettanto precise e meticolose, di un modo di punire che riprende lo schema classsico dell'internamento piegandolo alle mutate esigenze di una società in trasformazione, raccolgono nel loro dispiegarsi elementi che provengono da luoghi differenti del campo di sapere occidentale tra XVIII e XIX secolo. Perché, ad un certo punto, i codici moderni avanzano la singolare pretesa di rinchiudere per correggere? Perché lo spazio della penalità è occupato nel breve volgere di neanche cinquant'anni dal modello dell'imprigionamento?
Quale modello sociale prefiguravano i riformatori del '700 quando chiedevano misure di coercizione contro il criminale, il delinquente, il deviante che fossero improntate alla dolcezza della pena e non più allo splendore del supplizio?

Variazioni
La storia non è una linea continua. In certa storiografia le discontinuità appaiono come eventi singolari senza alcun significato, se pure si riesce a vederle. Al contrario le rotture improvvise, i salti danno conto di eventi che riprendono in se stessi, continuamente, la forma della cesura piuttosto che quella dell'omogeneità. Così la narrazione procede lungo il filo distinguibile degli eventi clamorosi: quasi mai lungo i frastagliati crinali degli avvenimenti meno visibili ma altrettanto importanti.
Le trasformazioni succedutesi nell'arco di alcuni secoli per ciò che attiene alla storia della criminalità, o cosiddetta tale, e del correlativo approntamento di tutta una serie di misure repressive atte a contenerne gli effetti nel sistema sociale è un buon esempio di questa tendenza a soffermarsi essenzialmente sui tratti peculiarmente visibili dei fatti senza posare lo sguardo, ove sia possibile, su ciò che molto spesso sta appena dietro a quei fatti.
Nonostante gli studi quantitativi, peraltro ricchissimi, a cui oggi ci si può rivolgere, che collegano l'incidenza del crimine ai movimenti demografici, all'andamento dei raccolti e quant'altro, si ripropone, come segnala Michael Weisser in Crime and Punishment in Early Modern Europe, negli studi moderni sulla criminalità un pregiudizio presente anche nelle precedenti opere al riguardo: e cioè la considerazione del crimine essenzialmente come una forma di comportamento aberrante. Questo approccio utilizza la documentazione relativa ai crimini per lo studio della crisi sociale e l'attività criminosa diventa oggetto di un'indagine più generale sui problemi e sulle tensioni sociali. Naturalmente questo punto di vista incide anche sulla visione storica dei criminali: una volta scomparse le condizioni che avevano spinto al crimine, ognuno ritornerà a forme legali di attività. Il comportamento criminoso è dunque una reazione a tutto un insieme di circostanze esterne. Indubbiamente molti individui commettono reati, gravi e meno gravi, sulla base di pressioni sociali irriducibili che li spingono all'atto illegale e che vanno ben oltre la portata della loro comprensione ed è certo che molti tipi di attività erano definiti illegali per criminalizzare alcune abitudini dei poveri in vista di una disciplina di lavoro che andava coattivamente estesa ovunque fosse possibilie. Tuttavia, in una prospettiva di tal genere il problema del crimine resta ancora mascherato da fattori considerati più importanti, da un giudizio, sostiene Weisser, che si basa su ragioni di conoscenza storica o politica moderne e non su elementi che hanno a che fare col contesto specifico dei crimini.
Paradossalmente, le implicazioni di questo rovesciamento di prospettiva nella disamina del fenomeno criminale conducono ben oltre i parametri consueti del dibattito storico. Il crimine può essere infatti considerato non soltanto un sintomo di malessere sociale ma anche come un indice di sviluppo. Analizzarlo nel suo contesto sociale diventa un imperativo ineludibile proprio nel momento in cui è la società stessa a determinare ex post quali sono i comportamenti che vanno considerati criminosi e la definizione legale dell'atto criminoso ha spesso poco a che fare con la sostanza reale dell'evento.
Nel caso della società disciplinare, perlomeno così come essa si delinea a partire dal XVIII secolo, questo ragionamento è ancora più valido. Di contro alla disciplina-blocco del sovrano, che immobilizza il colpevole in una serie di rituali negativi - fermare il male, rompere le comunicazioni, distruggere il corpo del reo - si costituisce lentamente la disciplina-meccanismo che si scompone in procedimenti flessibili di controllo, in tecniche dell'assoggettamento che diventano funzioni produttive nel nuovo regime di potere. La presenza di crimini e criminali assume una valenza immediatamente positiva, costitutiva di realtà di dominio, elemento appunto dello sviluppo di un sistema giuridico che crea da solo i termini dell'opposizione a se stesso. Sullo sfondo, l'assunzione del concetto di lavoro, come si è visto, in quanto ragione costituente del modo di percepire il mondo (meglio, unica ragione costituente) stabilisce immediatamente il confine tra lecito ed illecito, la soglia tra normalità e devianza.
Da una parte dunque il comportamento criminoso ed i suoi infaticabili protagonisti, dall'altra il sistema della punizione e della pena. Nella lunga storia del sistema economico-culturale dell'Occidente bisogna cominciare a cogliere alcune delle variazioni fondamentali nella sua complessa evoluzione.

Crimini e criminali
La realtà materiale e sociale nel Medioevo era quella dell'isolamento, un fattore determinante anche delle attività umane, crimine compreso.
Le condizioni del lavoro e della produzione, che variavano sostanzialmente a seconda dell'importanza del centro urbano che concentrava in sé il maggior numero di attività localmente produttive, oscillavano sulla base delle ondate di immigrazione che spopolavano le campagne in miseria o della minor domanda di merci che sconvolgeva un ciclo commerciale. Le attività criminose diventavano il mezzo di sopravvivenza nei periodi di concorrenza sul lavoro e per il lavoro.
Il furto, come sarebbe accaduto anche in epoche successive, restava il crimine più diffuso specialmente nelle grandi città, dove masse di poveri affluivano cercando, in mancanza di meglio, un modo rapido per sbarcare il lunario ai danni dei ricchi commercianti e possidenti. La violenza, al contrario, sembrava essere l'unico modo adottato dalle classi elevate per risolvere le controversie spesso indotte da pretesti politici che scatenavano lunghe e sanguinose guerre. Ma era soprattutto il crimine sessuale ad essere maggiormente rappresentativo delle elites urbane. Violenza e stupro erano tuttavia mal tollerate in una società ancora fondata su matrimonio ed eredità. Punizioni esemplari venivano comminate ai colpevoli, se non altro per spegnere la sete di giustizia dei poveri ed offrire grandi spettacoli pubblici di carattere liberatorio per le masse degli indigenti.
Anche nel mondo rurale, a causa delle condizioni di vita e delle necessità della produzione, il furto (questa volta di attrezzi agricoli, cibo, semplice vestiario per resistere agli inverni più duri) continuava ad essere il crimine più largamente praticato. Si trattava, in questo caso, di un'attività intraclassista più che interclassista come accadeva nelle città e rimaneva rigorosamente limitata al piccolo villaggio escluso dai grandi circuiti di comunicazione o troppo lontano dai centri urbani per risentirne degli effetti economici.
Un altro reato diffuso era l'aggressione, caratteristica sia degli strati più poveri che di quelli benestanti della comunità rurale: perlopiù crimini individuali che soltanto più tardi si espressero nella violenza di bande organizzate già da tempo operanti nelle città. Aggressioni od anche semplici offese, come testimoniano molti documenti d'archivio, erano più spesso portati all'attenzione della giustizia dai ricchi che potendosi avvalere del sistema allora in uso del patteggiamento in denaro temevano certamente meno la sanzione che poteva essere stabilita per il singolo reato. La distinzione tra città e campagna è ancora nettamente delineata e la totale assenza di una giustizia centralizzata in grado di stabilire un sistema omogeneo di riconoscimento dei reati e di comminazione della pena ripropone ancora un mondo violentemente lacerato da conflitti che oppongono individuo ad individuo.
Più tardi, a metà del '400, la prima grande crescita demografica sconvolge gli assetti economici europei (anche se in percentuale l'incremento sarebbe stato molto più sensibile dopo l'espansione successiva al 1750). In aggiunta a ciò si verifica nello stesso periodo una enorme mobilità della popolazione che, trasferendosi dalle campagne nelle città, sconvolge completamente gli agglomerati urbani dei grandi centri. Nel settore rurale i cambiamenti sono radicali: un allargamento del divario tra contadini ricchi e poveri nel corso del XVI secolo diventa evidente. Le manifatture tessili sorte nelle zone rurali contribuiscono ad indirizzare molta manodopera verso attività che non hanno più nulla a che vedere con l'agricoltura tradizionale. Edilizia, concerie di pelli, approvvigionamento alimentare stabiliscono in breve tutta una rete di servizi che sorgono intorno al nuovo modello pre-industriale: fiere commerciali con relativi mercanti e fornitori ambulanti sono il prodotto della commercializzazione della campagna. Contemporaneamente gli imprenditori urbani invadono i nuovi fiorenti mercati con le loro materie prime nel tentativo di sfruttare la manodopera contadina infinitamente meno costosa di quella di città ancora in mano alle corporazioni dei mestieri. A ciò corrisponde un aumento dei crimini nel settore rurale in particolare dopo la seconda metà del '500. La natura criminosa comincia a delinearsi come espressione dei conflitti di classe ed i reati commessi, di nuovo essenzialmente furti, si verificano in contesti sociali ben determinati. Le brusche impennate dei prezzi, l'assoluta instabilità dell'economia, espansioni e crisi improvvise del mercato creano scompensi traumatici per la popolazione dei lavoratori.
Il furto diventa una pratica costante delle classi inferiori nelle campagne. Il livello di recidività lo caratterizza come elemento di un vero e proprio disagio sociale in una fase schiettamente pre-capitalista. Ad un certo momento, tuttavia, esso comincia ad assumere una connotazione diversa; si cominciano a rubare articoli di lusso oltre agli oggetti classici di un'economia contadina. Questo fatto implica immediatamente una considerazione ovvia, e cioè che il ladro doveva certamente disporre di buoni contatti con la città per poter rivendere refurtiva di un certo tipo e valore. A sua volta ciò dimostra quanto il borgo fosse inserito in una rete agevolata di contatti e commerci con la città. Il risultato di questa capacità di utilizzare canali esterni di comunicazione fu che il furto non era più attività interna ad una classe. Nell'Europa rurale il crimine si trasforma: l'interclassismo produce un rapido mutamento nel tessuto di una società che sta cambiando le strategie stesse del suo esistere nel mentre cambiano anche le forme della devianza, la sua disposizione tattica, gli effetti della sua contrapposizione alla legalità del potere.
Cosa stava accadendo, contemporaneamente, nelle città? La criminalità urbana continuava a fare del furto un uso continuato e redditizio, anche se ad esso si era aggiunta la rapina con aggressione in tutte le sue varianti. Le strade del territorio cittadino erano diventate pressoché impraticabili e qualunque ora della giornata era buona per l'esecuzione dell'atto criminoso: la sicurezza non esisteva più. È il periodo in cui si sviluppa un'altra più sottile forma di furto, la truffa, che garantisce l'accaparramento di notevoli quantità di denaro senza violare il domicilio (attorno al fenomeno fiorì addirittura un'intera letteratura che si espresse, ad esempio, nel genere picaresco).
Le ballate o i romanzi che narravano le gesta dei picari erano in realtà la denuncia, abbastanza precisa, e la critica dell'evoluzione culturale ed economica della società europea immediatamente a ridosso del Medioevo. La criminalità urbana si trasforma in gruppo organizzato, banda, malavita. L'esistenza di quartieri popolati da ogni sorta di ladri e canaglie era in parte il risultato di una politica pubblica che li tollerava ampiamente. E che tollerava, in particolare, i quartieri più poveri ben presto luogo di mercificazione del corpo. Prostituzione e vizio convivevano col mondo dell'istituzione.
La contiguità tra lecito ed illecito si spiega con i vantaggi economici che una tale situazione offriva. La consapevolezza diffusa era che certamente le continue richieste di manodopera producevano forme nuove di illegalità che non potevano essere eliminate finché quelle richieste continuavano. Se l'alternativa alla pressante domanda di braccia per il lavoro pesante era talvolta l'offerta di piacere sessuale a buon mercato, allora esisteva un motivo in più per tollerare un'attività di quel tipo. Le ragioni del controllo sociale venivano comunque fatte salve.
Nel XVI e XVII secolo cominciano ad affermarsi sistemi moderni di giustizia penale, assai diversi da quelli che conoscerà l'ottocento ma certo radicalmente nuovi rispetto ai medievali.
Il problema era diventato, mai come in precedenza, il carattere di classe della criminalità, elemento contingente alla definizione ormai indispensabile di ceto inferiore. L'ordine sociale si sentiva irrimediabilmente minacciato da una frattura che era in realtà il risultato dei suoi stessi mutamenti.
Tutto cambiava rapidamente: la piccola comunità feudale, in quanto struttura politica circoscritta e frammentata, e in quanto nucleo sociale isolata da un contesto generale, era scomparsa. Lo Stato nazionale incalzava. Era dunque necessario trasformare la giustizia penale da affare privato in questione pubblica.
Nel XVI secolo sono due gli eventi di rilievo che caratterizzano il sistema della giustizia: la diversa articolazione dell'azione penale e la promulgazione di nuovi codici. È il momento in cui, in particolare nei paesi anglosassoni, si costituisce la figura del giudice di pace, incaricato dalla corona all'applicazione della legge. In un primo tempo semplice investigatore che vagliava la veridicità delle accuse e rappresentava il re, il giudice di pace rapidamente sposta l'asse del suo intervento sulla verifica della liceità delle condanne, assumendo il pieno controllo della procedura penale. Quando si moltiplica la normativa che disciplina il lavoro in tutti i suoi aspetti e che sostituisce la tradizione con la costrizione legale nella regolazione di domanda e offerta, i nuovi rappresentanti della legge svolgono un ruolo cruciale a garanzia del suo rispetto. Il diritto penale si impone come misura di una serie di rapporti sociali.
Nel continente i poteri affidati al pubblico accusatore non furono così ampi come quelli del giudice di pace inglese anche se in sostanza lo sviluppo fu analogo. I codici di procedura penale rinnovati compaiono in Europa attorno alla prima metà del XVI secolo; in quelli inglesi i criteri adottati avrebbero condotto il sistema giudiziario dell'isola verso cambiamenti assai diversi da quelli prodotti dai codici continentali e tuttavia in entrambi i casi si pervenne sostanzialmente all'identico risultato dell'affermazione trionfale del diritto pubblico ed alla istituzionalizzazione della moderna procedura penale. L'insieme delle norme che puniscono i crimini diventa a poco a poco un aspetto dell'autorità dello Stato e il risultato immediato di tale evoluzione fu una revisione della definizione di crimine, un aumento degli statuti ed un inasprimento generale della pena. La relativa mitezza della pena durante il periodo feudale era conseguente alla funzione che essa aveva di risolvere essenzialmente controversie tra uguali, anziché limitarsi a punire la parte giudicata colpevole. Ma il carattere pubblico del nuovo diritto fa sì che la pena assuma un significato diverso; la questione adesso è la punizione esemplare del criminale. Ricompaiono subito le pene corporali, le esecuzioni in piazza, cruentissime, si moltiplicano; la tortura diventa prassi comune.
La spinta a pene più severe fu certamente il segno dell'evidente carattere di classe dei crimini e del loro costante aumento. Bisognava arginare in qualche modo il dilagare della delinquenza, ma soprattutto fare qualcosa per impedire che i ricchi diventassero sempre più oggetto delle rapine e delle vendette dei poveri. La pena corporale è il mezzo idoneo a creare la deterrenza necessaria: va seminato il terrore in quella fascia di popolazione che si organizzava per rovesciare il rapporto di subordinazione secolarmente sancito tra ceto dominante e ceto dominato. È così che la pena assume una connotazione di classe; sanzioni pecuniarie vengono previste sempre più spesso per coloro che in effetti potevano pagarle, liberandosi dall'onere della punizione. Progressivamente si escludono dalle giurie i meno abbienti e il sistema penale si avvia ad essere strumento di controllo di una classe sul disordine dell'altra. Tale sviluppo raggiunge il punto massimo di razionalizzazione con l'approntamento della legislazione sui poveri, le cosiddette poor laws promulgate in Europa nella prima meta del '500.
Questo insieme di norme stabilisce un riassetto fondamentale delle strategie di dominio elaborate dal sistema di potere occidentale. Le motivazioni che spinsero ad occuparsi in maniera organica dei poveri, affrontandone il problema dal punto vista sociale complessivo, furono molteplici. Il carattere religioso di una serie di considerazioni sulla sorte delle masse di straccioni e mendicanti che vagavano senza meta in città e campagne rifletteva certamente le politiche sociali di alcune sette cattoliche e protestanti, ben disposte a coniugare un atteggiamento caritatevole con una sostanziale preoccupazione di ordine economico come ampiamente dimostrerà l'uso che di quei disgraziati si sarebbe poi fatto nelle nascenti industrie manifatturiere. Il mercantilismo, in secondo luogo, parallelamente alla nascita dello Stato nazionale, riaffermava le sue esigenze di riordino sociale di una vasta area di possibile manodopera. Ritrovare in mezzo a loro una massa indistinta e pericolosa di donne e uomini che sfuggivano a qualsiasi autorità, fu per i ceti ricchi occasione di riflessione, se non altro per i costi altissimi che la mendicità produceva. La tradizione medievale aveva risolto la questione del pauperismo con l'imposizione religiosa della distribuzione dell'elemosina, giustificando l'esistenza dell'accattonaggio con l'esigenza delle buone opere di carità. Ma nel mutare dei tempi un numero così elevato di individui completamente improduttivi che ne generavano di continuo altri non poteva non costituire una difficoltà seria, anche in termini di ordine pubblico. La precarietà dei salari, i cicli instabili del mercato del lavoro, le carestie e le pestilenze che affliggevano l'Europa di quegli anni imponevano perlomeno un tentativo di soluzione . Si provvide immediatamente ad impedire la convergenza di troppi poveri nei centri urbani, arginando il flusso ininterrotto che portava molti di loro dalle campagne alle città alla disperata ricerca di una qualche forma di sopravvivenza. Era necessario mettere in opera alcuni provvedimenti coercitivi che circoscrivessero i movimenti della popolazione indigente: si abolì, per prima cosa, la distinzione tra poveri meritevoli e non meritevoli, affrontando il problema dal punto di vista del movimento e del luogo d'intervento. Mendicità e vagabondaggio furono immediatamente equiparate diventando un reato molto grave; in tal modo fu possibile impiegare la giustizia penale nell'intervento normalizzatore su una povertà ridotta ormai a reato. Le poor laws furono in sostanza una parte importante della legislazione di classe ed approntarono un formidabile strumento di controllo sociale che si inserì perfettamente nel più generale sistema del diritto penale. Spazzati via gli ultimi resti del diritto feudale, la nuova giustizia poté definire crimine e criminali in termini di distinzione e conflitto di classe. Il diritto penale, ormai apparato pubblico sotto ogni profilo, poteva essere utilizzato come vero e proprio strumento di una politica sociale che, dal quel momento in poi, contava sull'approntamento di un'intera strategia di sanzioni per controllare le classi inferiori.
Ad inizio '700 comincia a delinearsi lentamente il modello industriale. L'urbanizzazione incrementa la classe povera e quella fascia di popolazione che Marx avrebbe chiamato Lümpenproletariat, uno strato sociale impermeabile e refrattario alle richieste del mercato. Il crimine diventa in breve l'unico mezzo di sussistenza per questo folto gruppo di emarginati che finisce per considerarlo vero e proprio sistema di vita.
Il progressivo declino delle forme produttive pre-industriali, la commercializzazione dell'agricoltura, l'aumento enorme del commercio regionale, nazionale e internazionale, il passaggio dalla bottega alla manifattura decreta la scomparsa della precedente divisione sociale mercanti-commercianti-settore dei servizi. La partizione fondamentale diventa quella tra borghesia e classi lavoratrici.
Nelle campagne l'agricoltura di sussistenza viene sostituita da sistemi agricoli commerciali. I mercati regionali e nazionali sono in effetti il prodotto della progressiva recinzione delle terre, di una produzione agricola più specializzata e dello sviluppo di industrie di base. Il risultato di questi nuovi cicli dell'economia è una netta ed irrevocabile distinzione tra proprietari terrieri e lavoratori senza terra. Un terzo elemento influenzò l'andamento del fenomeno criminale in Europa: la politica dei nuovi Stati nazionali che si espresse per lungo periodo nell'approntamento di interminabili e sanguinose guerre. I conflitti quasi ininterrotti diedero luogo alla formazione di eserciti permanenti e la mobilitazione militare incise profondamente sui livelli del crimine con aspetti diversi: per prima cosa i costi delle guerre che gravavano pesantemente sulla popolazione. Gli stessi approvvigionamenti delle truppe consistevano nel dirottamento dei prodotti dei mercati interni all'esercito. L'inevitabile inflazione che ne conseguiva era impressionante e colpiva direttamente le classi più povere. Inoltre blocchi ed embarghi di varia natura imposti dalle condizioni dei conflitti scatenati privavano le classi inferiori dei prodotti necessari al minimo sostentamento, degenerando nel crollo del commercio e nell'inevitabile crescita dei disoccupati. E ancora, alla fine della guerra il rientro in patria dei soldati ansiosi di tornare al loro originario lavoro creava disagi insormontabili. Per un uomo abituato a combattere il passaggio alla condizione di criminale si rivelava, a quel punto, più facile del previsto, in special modo quando ne andava della propria sopravvivenza materiale.
La tipologia criminale rivela caratteristiche tradizionali accanto ad elementi nuovi. Una continuità cruciale era data dalla prevalenza delle varie forme di furto, di un reato, quindi, comunque legato alla proprietà. Il brigantaggio restava il mezzo più rapido e sicuro per procurarsi denaro o derrate alimentari e nell'ultima fase dell'età moderna subì alcuni importanti cambiamenti che vale la pena di segnalare. Nelle regioni della Champagne francese le bande di briganti erano composte da lavoratori stagionali a giornata che, al termine dei raccolti, non potendo trovare altri mezzi di sopravvivenza sbarcavano il lunario dedicandosi ad attività illecite. Le bande organizzate, conseguenza del passaggio da un'agricoltura di sussistenza ad un'agricoltura commerciale, scoprirono in fretta che era possibile partecipare al ciclo economico-produttivo rischiando dal punto di vista penale il minimo indispensabile con l'attivazione di una rete clandestina di commerci che ebbe grande fortuna: il contrabbando. Con l'aiuto di molti imprenditori che vi lucravano ampiamente il contrabbando divenne pratica diffusa nei ceti popolari ed in breve si impose in tutta Europa come economia sommersa che consentiva un enorme volume d'affari ed una circolazione consistente di capitale sul quale lo Stato non riusciva ad avere alcun controllo. Artigiani e piccoli agricoltori travolti dai grandi cambiamenti del ciclo produttivo furono presto abilissimi contrabbandieri di merci e reagirono alle imposizioni tributarie vessatorie dei governi.
Anche nei centri urbani, pur in misura minore, il furto restava il crimine prevalente. Esso, tuttavia, si andava organizzando in maniera completamente diversa dal passato. Si rubavano vestiti, oggetti di valore, denaro e per rivenderli fu necessario attivare una catena di complicità successive che portò alla rapida costituzione di un traffico illecito articolatissimo. La formazione di una criminalità organizzata in grado di controllare lo smercio della refurtiva venne di conseguenza.
La città nel '700 subisce mutamenti consistenti. Il mercato delle merci rubate getta le basi per una floridezza economica di quella criminalità ormai padrona assoluta del territorio urbano. Accanto ed attorno ad essa si sviluppano altre situazioni ai margini della legalità: aumento vertiginoso della prostituzione, scippi e borseggi compiuti da quella fascia cittadina di disperati che a malapena sopravvivono tra gli stenti e che sono esclusi anche dai grandi circuiti del crimine.
Nel corso del XVIII secolo la quantità di merci prodotte da un'economia in espansione cresce senza sosta e l'accumulazione da parte di pochi grava sui molti. Il commercio d'oltremare crea grandi fortune. Alla proliferazione di prodotti industriali e commerciali fa riscontro l'acquisto di articoli di lusso come vestiario ed arredamenti che incrementano il prestigio e la potenza delle classi abbienti. Grande ricchezza e grande povertà contraggono un legame indissolubile proprio attraverso il crimine che costituisce il limite tra il possibile e l'impossibile, tra l'avere e il non avere.
Tra fine settecento ed inizio ottocento i fattori che avevano contribuito a far crescere la criminalità acquistarono forza. La dimensione delle città aumentava di giorno in giorno e i nuclei urbani industriali in particolare offrivano spettacoli sconsolanti di povertà, degrado e sporcizia, specialmente nei quartieri operai. In questo contesto la graduale separazione tra i poveri e quelli che il sistema sociale aveva chiamato Lümpen, rendendoli assolutamente inutili ed improduttivi, divenne irrimediabile. Appartenevano a quest'ultima categoria di emarginati tutti coloro che erano stati spazzati via impietosamente dalla nascente società industriale perché non più collocabili in alcuna mansione specifica. Essi entrarono automaticamente a far parte dell'esercito di vagabondi che viveva in modo irregolare senza nessuna intenzione di procacciarsi lavoro salariato come via d'uscita ad un'esistenza ai limiti dell'umano. I Lümpen vengono presto impiegati proprio dai piccoli commercianti e negozianti che nei quartieri operai prosperavano imponendo la loro economia di mercato caratterizzata da prezzi altissimi e da ogni sorta di ruberie immaginabili. Il proletariato operaio era dunque circondato da questo manipolo di nullafacenti che avevano tutto il tempo, contrariamente a chi era sottoposto alla disciplina di fabbrica, di impossessarsi della geografia del quartiere e del controllo dei suoi abitanti. In Inghilterra e nel continente, come riportano i dati d'archivio, nel secondo decennio del XIX secolo i furti erano commessi soprattutto ai danni degli strati sociali più poveri.
Intere zone delle città cominciano a popolarsi esclusivamente di malfattori e delinquenti di ogni specie: il crimine diventa una professione. Si moltiplicano le aggressioni a scopo di rapina ed il furto con violenza. La società dell'epoca viene investita dal problema in tutta la sua drammaticità e reagisce in modi a volte opposti; da un lato una parte dell'opinione pubblica giustificava i crimini compiuti a causa della assoluta povertà dai cosiddetti delinquenti abituali; dall'altro l'intellettualità borghese, i moralizzatori instancabili preferivano riesumare i concetti delle antiche dottrine per affrontare la questione. Nel seicento criminali erano considerati coloro che manifestavano il degrado della comunità urbana a cui si opponeva la moralità dell'onesto e retto mondo rurale. Questa tradizione viene ripresa in qualche modo dalla nascente società industriale e riadattata alle nuove condizioni. Il punto di torsione, e non poteva che essere così nell'economia capitalista, è l'idea di lavoro; così l'onesto lavoratore diventa (deve diventare) la rappresentazione morale per eccellenza dell'homo oeconomicus duttile al potere dell'industria che nella fabbrica esprime il suo modello disciplinare di organizzazione.
Nella stessa epoca si fa avanti un'altra concezione del crimine destinata a regolare con sempre maggior attenzione le strategie del dominio di classe. Si cominciano a cancellare le distinzioni tra povero che lavora, quale era in effetti l'operaio, e povero criminale per circoscrivere le agitazioni politiche di massa che riconoscono se stesse come classe operaia dotata di un certo potere contrattuale. La politicizzazione del ceto dei lavoratori salariati sfida apertamente la borghesia e la sua egemonia politica negando la legge e l'ordine. Fu abbastanza semplice per il sistema normativo borghese additare la classe operaia come pericolo per la stabilità dell'intero sistema sociale e considerare violenza politica e crimine una cosa sola. Se problema c'era, si trasformava adesso esclusivamente in esigenza di controllo e disciplina; crimine individuale e politico nascevano entrambi dal rifiuto di legge ed autorità, sdoppiando la funzione originaria della criminalità: da una parte i lavoratori con i loro reati politici, dall'altra i non lavoratori con i loro reati personali. Più che mai si rendeva necessario l'approntamento di un metodo efficace per neutralizzarli.
La società europea del XIX secolo si trova dinanzi ad una violenza politica che ha assunto delle schiette connotazioni di classe e che la differenzia completamente dalle forme in cui era pur esistita in epoca precedente. A questo, come abbiamo visto, si aggiungeva la persistenza della criminalità comune che andava ugualmente repressa. Una volta ridotta la distanza al minimo tra i due tipi di reato era urgente un intervento più articolato. Quell'intervento fu la costituzione dei corpi di polizia.
Nel 1797 Patrick Colquhoun diede alle stampe un libro che divenne presto famoso, Treatise on the Police of the Metropolis, e conobbe ben sette edizioni in dieci anni. Esso apriva un territorio inesplorato: l'autore sosteneva che la presenza di un corpo di polizia organizzato non avrebbe recato alcuna minaccia alle libertà individuali, fatto questo che le classi al potere ebbero modo di riconoscere presto. Sul piano amministrativo la proposta di Colquhoun andava nel senso di una completa separazione tra polizia e magistratura; quest'ultima casomai avrebbe controllato l'operato della prima. Dal lato del crimine, invece, alla polizia sarebbe stato demandato il compito specifico di istituire un servizio di informazione, un archivio dei criminali conosciuti ed addirittura la pubblicazione di un bollettino per informare il pubblico intorno agli avvenimenti criminosi ed alla loro investigazione. Per dimostrare la validità delle sue teorie Colquhoun stesso creò un corpo di polizia fluviale, interamente sovvenzionato dai mercanti londinesi, che in breve tempo ottenne un grande successo nella repressione dei furti grandi e piccoli compiuti sui moli del Tamigi. In dieci anni la città di Londra poté contare su un corpo pubblico di polizia in grado di controllare con discreta efficienza il mondo del crimine. La sua capacità di far fronte anche ai disordini politici cresceva inoltre di pari passo all'acquisizione delle tecniche utilizzate per il fiume. La polizia era l'organizzazione ideale per garantire la sicurezza metropolitana nei periodi delle rivolte popolari proprio a causa dei mezzi illegali ampiamente usati per combattere la criminalità. L'approntamento di questa serie di strategie coercitive e di controllo, esemplarmente disciplinari, disvelano in maniera inequivocabile i contorni di un sistema sociale in cui l'ordine e il rispetto della legalità voluti dai codici borghesi dovevano prevalere ad ogni costo. Nonostante il successo dei neonati corpi di polizia si dovrà attendere la metà del XIX secolo per la loro definitiva stabilizzazione nel panorama socio-politico e la moderna polizia comparve in concomitanza con lo sviluppo della pena sotto la forma del sistema dei penitenziari. Tuttavia gli effetti disciplinari conseguenti alla comparsa di un'organizzazione deputata esclusivamente al controllo meticoloso di ogni aspetto della devianza politica e criminale consentirono alla società industriale di affinare ulteriormente il modello sorveglianza-punizione fino a renderlo indispensabile alla sopravvivenza del sistema stesso.
Si è definito il crimine in modi molto diversi tra loro nel corso della storia dell'Occidente, ma la sua specificità è sempre stata strettamente legata a ciò che la società pensava dei fattori sociali che determinavano quei comportamenti criminosi. Non si è mai temuto il crimine in sé ma i conflitti che i comportamenti criminosi generano.
Così, quando ciclicamente i riformatori sono intervenuti a far chiaro su questo o quell'aspetto del fenomeno, hanno riassunto uno stato di cose che si era già verificato. Beccaria propone di abolire la pena di morte e di riformare i codici quando pena capitale e procedure giudiziarie arcaiche stavano ormai cadendo in disuso. Esiste, in aggiunta, una singolare coincidenza di eventi nello sviluppo e nella trasformazione del crimine in tutta Europa che rimanda direttamente alle variazione di un sistema complessivo di potere colto, da questo angolo prospettico, nella sua totalità. L'Occidente cristiano si rivela una struttura decisamente omogenea quando è investigata come struttura di dominio.
Il rapporto tra ricchi e poveri non può che basarsi sullo sfruttamento ed allo sfruttamento si risponde col crimine; è questo uno dei motivi per i quali il sistema penale appare più spesso tollerante nei confronti di chi commette reati ed in particolare nell'età moderna: la tolleranza repressiva maschera quello sfruttamento. Un insieme di regole, di qualunque tipo esso sia, nel nostro caso giuridiche, oltre a fare incessantemente i conti col tessuto sociale che disciplina, si alimenta della sua stessa struttura.
La polizia ha bisogno di criminali a cui dare la caccia, le prigioni di detenuti da incarcerare. Nell'inevitabilità dell'intero meccanismo c'è qualcosa che va ben oltre la logica e la storia. In questo senso crimine e pena rappresentano al massimo grado la società moderna ed il suo sviluppo.

Punizioni e pene
I metodi punitivi mutano gradualmente verso la fine del sedicesimo secolo quando la possibilità di sfruttare il lavoro dei detenuti cominciò ad apparire progressivamente come una possibile fonte di guadagno. Furono introdotte la servitù sulle galere, la deportazione e il lavoro forzato: soltanto quest'ultima forma di pena, in seguito, sarebbe giunta fino al XX secolo. Una massa di ricchezza umana si rivela a completa disposizione di un apparato amministrativo ben disposto ad usarne immediatamente le potenzialità economiche. Le condizioni del mercato all'epoca, unitamente alla creazione di un sistema finanziario in continua espansione, crearono una domanda intensa di generi di consumo costantemente maggiore dell'offerta. Su un altro versante la crescita demografica non riusciva più a tener dietro all'aumento improvviso delle possibilità di occupazione; la Guerra dei Trent'anni, in particolare in Germania, causò una vertiginosa diminuzione della popolazione che alcuni autori stimano vicina al cinquanta per cento. In Olanda la situazione è tale che gli operai vengono pagati con salari così alti da far abbassare lo stesso tenore di vita dei proprietari. L'immobilità complessiva della forza lavoro in Europa intorno alla seconda metà del '500, la mancanza di continuità nell'offerta di lavoro e la sua ridottissima produttività provocarono una crisi irreversibile nelle classi dei proprietari nel momento esatto in cui l'aprirsi dei mercati e degli investimenti di capitale, uniti all'innovazione tecnologica, non potevano contare sull'unica merce veramente indispensabile, il lavoro. In sostanza l'emergenza riguardava l'impossibilità di rendere produttivo il capitale e di contenere i livelli dei salari. Si tentò di ovviare al problema con una serie di misure restrittive delle libertà personali per far fronte ad una rarefazione di forza lavoro che stava seriamente compromettendo la stabilità dello stesso ordine sociale.
Un altro tentativo riguardò l'incremento delle nascite; in tal modo si sarebbe potuto sperare, nel giro di pochi anni, di aumentare effettivamente il numero delle braccia da impiegare nella produzione. La politica degli Stati assoluti in favore dell'industria non tralasciò alcun mezzo a sua disposizione: dai diritti di monopolio alle restrizioni per le corporazioni, tutto un complesso sistema di garanzie venne approntato per mettere il sistema economico moderno in grado di svilupparsi e dare i suoi frutti. Il governo non lesinò nemmeno i crediti che elargì con notevole generosità: questo meccanismo del prestito fu caratterizzato, come era inevitabile, dalla ricerca di forza lavoro a bassissimo costo per contenere le spese e la classe dirigente si impegnò a favorire esclusivamente i datori di lavoro costringendo gli operai ad una dipendenza con sempre minori garanzie legali ed a regolamenti di fabbrica progressivamente più duri.
La società delle discipline approntò in breve, ed esempi da cui prendere spunto ce n'erano attorno parecchi, dall'esercito agli ordini religiosi, un apparato di coercizione materiale e morale che attraverso regole severe avrebbe controllato l'attività del lavoratore. Una vita all'insegna del rispetto dei regolamenti di fabbrica, senza svaghi eccessivi e con una giornata che toccava punte massime di sedici ore lavorative, per esempio in Francia nel diciassettesimo e diciottesimo secolo. L'organizzazione operaia era naturalmente vietata e i lavoratori erano severamente puniti se chiedevano paghe più alte o anche se, semplicemente, abbandonavano il posto di lavoro per cercare fonti più redditizie di guadagno. Il lavoro infantile costituì un altro dei grandi scandali dell'epoca; lo Stato si impegnò a fornire alle manifatture i ragazzi degli orfanotrofi ed appena un bambino era utilizzabile fisicamente si procedeva al suo impiego nella produzione. Appare chiaro che un processo di non secondaria importanza, e cioè l'addestramento dei giovani all'industria, dispose i suoi effetti nel processo educativo delle nuove generazioni: massimo effetto del disciplinamento dei corpi nel rigore dello spirito. L'etica del lavoro divenne sostanza della nuova società.
Ma la scarsità della manodopera continuava a costituire un assillo. Furono varate misure straordinarie che oltre all'offerta di orfani all'industria consentirono all'autorità addirittura il prelievo coatto di lavoratori, costretti con la forza a rimpolpare gli organici delle imprese. Gli stessi soldati e le loro famiglie poterono essere inviati obbligatoriamente presso gli opifici per filare lino, cotone e lana ed erano a disposizione per ogni altro tipo di servizio da rendere in fabbriche e laboratori. Un decreto del 1763, segnala Rusche, afferma che la costruzione degli stabilimenti industriali avrebbe aiutato gli oziosi a procurarsi da vivere, forzandoli se necessario con la detenzione nelle case di lavoro.
Esistevano alcune categorie di persone, come mendicanti e prostitute ed in genere coloro che esercitavano attività illegali, che lo Stato poteva meglio controllare in termini di forza lavoro. La pubblica autorità adottò delle politiche specifiche soprattutto con i vagabondi ed i poveri. Il trattamento di quest'ultimi, in particolare, che abbiamo in parte già visto poco sopra, può essere indagato anche dal punto di vista delle sue connessioni con i cambiamenti della struttura sociale.
Il rapporto con la povertà ed il suo significato, in senso ampio, di cultura di un'epoca intera erano stati secolarmente affare della Chiesa. L'esercizio della carità era considerato da sempre un ineludibile dovere da parte delle classi agiate che in tal modo potevano adempiere agli obblighi stabiliti per il buon cristiano. Il mondo medievale faceva dell'elemosina una funzione essenziale del proprio rapporto con gli uomini e con la divinità. È certo che la dignità che veniva attribuita alla pratica della carità, innalzata ad espressione di scelta di vita negli Ordini mendicanti, mise in condizione molti, osservano alcuni studiosi, di preferire la mendicità ed il vagabondaggio specialmente nei tempi, ed in Europa non mancarono di certo nella prima età moderna, in cui procurarsi un lavoro diventava un'impresa quasi impossibile. Non sono pochi quelli che, tra quindicesimo e sedicesimo secolo, si accorgono che un formidabile esercito di riserva di individui abili al lavoro si dedica a praticare la povertà, sfuggendo ad una proficua utilizzazione in altri settori dell'economia.
In omaggio a Weber, non possiamo nemmeno dimenticare che la nascente borghesia stacca di numerose lunghezze lo statico regime feudale se non altro per l'impronta completamente diversa che assume l'idea di lavoro. La concezione tomistica della necessità di lavorare solo quel tanto che è richiesto per la sopravvivenza dell'individuo e della società, sottolinea Rusche, consente all'uomo medievale di considerare l'attività produttiva una parte certamente non consistente dell'esistenza individuale. Siamo ben lontani dal modo di vita borghese che deve rispondere a criteri di operosità tali da fare dell'accumulo di ricchezze non soltanto una condizione indispensabile per essere accettato dal gruppo ma anche un rigoroso sistema meritocratrico. Secondo Lutero, infatti, chiunque desideri la ricchezza non ha che da lavorare duramente. Con ciò non fu mai negata, evidentemente, la buona disposizione d'animo nei confronti del povero che va comunque aiutato a non morire; piuttosto si trattava di insegnare al povero che il lavoro nobilita ed avvicina a Dio. Il calvinismo inglese ed olandese raccoglie in sé una gran parte dei concetti che dà luogo a questa nuova etica: in una situazione di sostanziale carenza di capitali, la borghesia non aveva privilegi di origine reale e coloniale. Doveva esclusivamente contare sulle proprie forze per procedere all'accumulazione di denaro e di profitti; all'inizio il lusso e lo spreco furono banditi in favore del lavoro duro e del risparmio. L'etica calvinista fornì alla borghesia che muoveva i primi passi un riferimento teorico che in breve trasformò il rapporto tra individuo e società: l'impulso ad acquisire era direttamente voluto da Dio e perfettamente legale. Immense fortune cominciarono ad essere accumulate con sempre maggior avidità e la circolazione di capitale diede forma ad un assetto economico e culturale caratteristico di un sistema che aveva rotto definitivamente i ponti con la logica del feudalesimo.
L'atteggiamento verso le classi inferiori risentì di questa concezione così abilmente costruita dagli imprenditori, a metà tra la morale e la pratica, che giustificarono immediatamente le loro tragiche speculazioni sul ceto dei lavoratori. L'ineguale distribuzione delle ricchezze divenne una specie di imperscrutabile volontà della Provvidenza che aveva messo nelle mani di alcuni il destino del mondo ed in quelle di tutti gli altri la fatica disumana di garantire un tale stato di cose. Non era insomma così irragionevole che il popolo, per citare Calvino, rimanesse povero: questo si armonizzava con la volontà divina, calata in terra a difesa del capitale, che chiedeva agli operai un onesto e corretto rapporto con chi gli consentiva di sopravvivere, nella coscienza del dovere compiuto, a cui mai ci si sarebbe sottratti. Per l'homo oeconomicus essere e dover essere coincidevano nel lavoro.
Ovviamente non esisteva spazio alcuno per i mendicanti che furono abbandonati perfino dai religiosi cattolici che imponevano l'assistenza ai bisognosi. Il peccato dell'ozio e dell'indolenza non producevano profitti ed i poveri abili al lavoro dovevano essere riciclati nella strategia del capitale; a coloro che non potevano esercitare alcun tipo di attività si provvide attraverso misure di assistenza sociale. Ma le difficoltà non vennero aggirate tanto semplicemente. La mendicità non risultò affatto controllata, né controllabile con facilità e la situazione economica non riuscì a stabilizzarsi subito in Europa tanto da poter consentire un relativo equilibrio alle tensioni politiche e sociali. La repressione del vagabondaggio conobbe una svolta intorno alla fine del '600 quando si decise di adottare misure più umane di trattamento e criteri più razionali di sfruttamento della forza lavoro. Si optò per le case di correzione che furono il diretto risultato di mutamenti economici generali; al loro interno il contingente dei reclusi veniva perseguito penalmente - la legge dello Stato dimostrava la sua potenza coercitiva - ed utilizzato per il conseguimento dei fini specifici del nuovo assetto produttivo.
Il primo esperimento di casa di correzione fu quello di Bridewell a Londra nel 1555. Nelle istituzioni di questo tipo, che si affermano definitivamente nel secolo successivo, vengono impiegati a scopo produttivo tutti coloro che non sono riusciti ad inserirsi nel meccanismo del mercato tradizionale. Questa prima forma di detenzione raggiunse la sua massima applicazione in Olanda dove alla fine del sedicesimo secolo il sistema capitalista era il più sviluppato d'Europa. Dentro le case di correzione si fanno confluire le riserve disponibili di forza lavoro rappresentate dal popolo dei mendicanti, costretti all'impiego produttivo e risocializzati in modo da essere in futuro spontaneamente a disposizione del mercato. Il modello di Amsterdam conobbe presto numerose imitazioni anche nel resto dei paesi europei. I reclusi erano comunemente ladri, vagabondi e prostitute; ai colpevoli di reati meno gravi si affiancarono presto i condannati a lunghe pene detentive, i marchiati, i fustigati etc. Più tardi anche i figli considerati incapaci ed i prodighi in generale vi furono rinchiusi dalle famiglie.
Poveri e bisognosi, quando non erano in grado di provvedere a se stessi andavano ad ingrossare le file dei ricoverati in un'altra istituzione simile alla case di lavoro, che nacque come rimedio di salute pubblica: gli hopitaux généraux, dei quali il più famoso rimase quello di Parigi fondato nel 1656 sotto la pressione dei padri gesuiti (ennesimo intervento del clero a fianco del potere temporale).
Naturalmente la formazione di lavoratori specializzati nelle case scatenò una feroce reazione da parte delle corporazioni che vedevano minacciati i loro monopoli. In breve tempo questi luoghi di lavoro coatto divennero il sostrato sociale ed economico su cui si sarebbe articolata la nuova dimensione del capitale borghese; anzi, ne anticiparono schiettamente la comparsa come sistema razionalmente fondato. Le domande sul significato della pena erano ancora lontane: per il momento era sufficiente aver trovato la maniera di realizzare una funzione produttiva col minimo dispendio dando modo a merci e denaro di circolare col ritmo previsto.
L'utilizzo della forza lavoro dei condannati aveva a quel punto assunto il criterio della reclusione come elemento positivo del suo dispiegarsi; la costrizione sulle galere e la deportazione nelle colonie, i cui territori inesplorati stavano offrendo stimoli di investimento, fornì ulteriori vantaggi. Il fabbisogno di rematori, per restare al primo caso citato, fu largamente riequilibrato dalla sostituzione della pena capitale in lavoro forzato sulle navi, anche se il fenomeno non ebbe mai nulla a che vedere con qualsiasi forma di rieducazione possibile: sulle galere raramente si riusciva a sopravvivere e ben pochi furono quelli che tornarono a casa dopo aver scontato la commutazione di pena. Molti di loro arrivavano persino all'automutilazione pur di non essere sottomessi al terrificante regime delle galere, una vera e propria morte psicologica prima che fisica.
Gli stessi criteri di opportunità economica, ma stavolta con esiti diversi per i condannati, spinsero i grandi Stati colonialisti, tra i primi certamente l'Inghilterra, a deportare centinaia di braccia nelle colonie d'oltremare per la coltivazione dei campi, la costruzione di strade ed altro ancora. Era talmente consistente la richiesta di forza lavoro per le colonie che si giunse perfino ad un nuovo tipo di crimine: il rapimento dei fanciulli da spedire al di là dell'oceano. Specialmente nelle grandi città di mare i giovanissimi appartenenti alle classi più povere venivano catturati e venduti come schiavi. Ma presto si levarono alte le proteste in patria per la mancanza progressiva di manodopera: si esportava senza riguardo una ricchezza che non dava in cambio un ricavato sufficiente. D'altro canto le colonie finirono per accettare con sempre minor entusiasmo l'aiuto della madrepatria che inviava delinquenti di ogni risma. I lavoratori liberi tolleravano malvolentieri la presenza di individui che minacciavano, a sentir loro, la vita della stessa colonia. La verità stava invece da un'altra parte: l'introduzione della schiavitù negra, negli ultimi decenni del '700 affare lucroso, consentì alle giovani colonie di poter rinunciare tranquillamente alla deportazione che cessò improvvisamente i suoi effetti vantaggiosi, nel mentre sempre più pressante cominciava a farsi il desiderio di indipendenza. Non divenne possibile risolvere la questione della criminalità, dunque, se non ripensando ad un adeguamento complessivo del sistema delle leggi in tema di pena alle mutate condizioni sociali e politiche.
La funzione del carcere è quella di custodire gli uomini non di punirli, recita il Digesto di Giustiniano. Fino al diciottesimo secolo, infatti, le prigioni si limitano a trattenere i condannati in attesa del processo e durante tutto il Medioevo la reclusione non ebbe altro scopo che impedire ai condannati di darsi alla fuga sottraendosi al potere della giustizia. Centinaia di straccioni e di mendicanti erano gettati a marcire in condizioni di vita disumane all'interno di grandi edifici custoditi al massimo da quattro o cinque persone. Catene ai piedi, come nelle raffigurazioni più classiche dei galeotti, sopravvivevano se e quanto era possibile in luoghi di diffusione di malattie e contagio. In balia di custodi che avevano fatto della prigione il loro feudo e che si trasmettevano talvolta ereditariamente le funzioni di carcerieri, folti gruppi di detenuti, ma sarebbe meglio dire internati, mendicavano attraverso le sbarre delle celle un tozzo di pane e qualche soldo per potersi procurare un piatto di sbobba o il favore dei guardiani. Paradossalmente, e il lavoro di Ignatieff sulle carceri inglesi lo dimostra ampiamente, il contatto con l'esterno era molto frequente, giacché i prigionieri contavano per la loro sopravvivenza sulla carità di amici e parenti o sull'intervento delle confraternite religiose a quello scopo istituite.
La maggior parte dei detenuti erano incarcerati perché non potevano pagare le pene pecuniarie previste per la composizione della lite e una volta dentro alla prigione essi contraevano un debito nei confronti del guardiano che ben difficilmente riuscivano ad onorare: era dunque il carceriere a ricavare un guadagno dai prigionieri. L'inversione totale di questa prassi nel carcere moderno condusse invece all'opposto; dal lavoro dei detenuti era la collettività a dover ottenere qualcosa. La pratica dell'opus publicum non era completamente sconosciuta nel Medioevo e in alcune municipalità vigeva l'uso dei condannati nel lavoro forzato o nel servizio militare; è tuttavia il sistema carcerario successivo ad essere assunto come metodo per lo sfruttamento di forza lavoro e, particolare non meno importante, come mezzo per l'addestramento di nuove riserve di lavoratori. Secondo Rusche il carcere moderno fu la conseguenza necessaria delle case di correzione.
La forma originaria del carcere che caratterizzò l'età moderna discendeva direttamente dalle case di correzione manifatturiere e l'obiettivo essenziale non era certo costituito dalla rieducazione dei prigionieri quanto dallo sfruttamento costante della loro capacità lavorativa. Lo stesso periodo di detenzione veniva determinato dal bisogno dell'istituzione o degli appaltatori: l'occasione così ghiotta di avere a disposizione una folla di indigenti da usare a proprio piacimento convinse gli imprenditori a trattenere quanto più a lungo possibile i reclusi. In particolare la mancanza pressoché completa di una legislazione sufficientemente chiara nel precisare l'entità della pena creò situazioni al limite dell'incredibile: alcuni detenuti potevano essere messi in libertà entro poche settimane, mentre altri colpevoli di reati minori venivano trattenuti per anni interi. La pratica dell'incarcerazione, inoltre, si diffuse anche per la necessità di speciali trattamenti riservati alle donne ed ai membri di particolari classi sociali. Le donne rinchiuse negli Hopitaux, ad esempio, scontavano pene che per gli appartenenti al sesso maschile significavano normalmente schiavitù nelle galere; i membri dell'aristocrazia o dei ceti privilegiati venivano rinchiusi per evitare loro l'umiliazione delle punizioni corporali o della deportazione a vita. Come si vede le connotazioni di classe di pene e reati non abbandonano mai l'evoluzione della società europea e non risparmiano i meno fortunati.
La casa di correzione riassume in sé i principi di un internamento reso produttivo e di una pratica della punizione che consente anche allo Stato di affermare la propria presenza senza ledere gli interessi di un'economia di mercato indispensabile alla sua stessa sopravvivenza. Avanza lentamente nel tempo l'uso di sostituire a provvedimenti di carattere repressivo, la messa al bando per esempio, legati ancora al vecchio concetto dell'allontanamento dalla comunità o comunque dall'espiazione violenta della colpa (i grandi supplizi destinati a terrorizzare la folla), un'articolazione segnatamente più razionale delle pene che preservasse il corpo del condannato per ricavarne profitto. La morte non significava più l'esplicitazione dell'autorità del sovrano o dello Stato: il dominio sui corpi, nelle nuove esigenze della società, allungava piuttosto la vita per prendere da essa tutta l'energia possibile; e il lavoro è quell'energia, quell'orizzonte inalienabile che pure rende aliena la soggettività.
Il mercantilismo se da una parte organizzò il proprio statuto sociale attraverso la diffusione di un'idea di profitto che stese una rete fittissima sopra ogni aspetto della vita quotidiana, rendendola produttiva fino alla trasformazione dell'intero sistema penale in una parte del suo programma, dall'altra smise di occuparsi quasi subito delle istituzioni create allo scopo di diventare un settore vantaggioso dell'economia. Il carcere, ormai forma punitiva per eccellenza, divenne presenza marginale nel contesto sociale e trovò scarso sostegno nelle teorie penali del seicento e del settecento. Ingranaggio redditizio di un ciclo produttivo rinnovato e destinato a colossali sviluppi, ci si dimenticò presto della precarietà delle sue pessime condizioni strutturali e dei ritmi disastrosi, ai limiti della tollerabilità, imposti ai reclusi.
Il secolo dei Lumi, della riaffermazione dei valori di libertà e giustizia, ne scoprì l'inganno mentre volgeva l'epoca delle grandi rivoluzioni. A cavallo tra i due secoli, fu il padre benedettino Mabillon ad occuparsi per primo dell'insieme dei problemi teorici legati all'incarcerazione. Le sue Réflexions sur les prisons des ordres religieux, pubblicate postume nel 1724, affrontavano sistematicamente la questione della natura e degli scopi del modello carcerario; la Chiesa aveva dovuto porsi il problema già da tempo disponendo della giurisdizione criminale dei chierici. L'entrata negli ordini minori da parte di molti era infatti legata sostanzialmente al vantaggio del cosiddetto privilegium fori; non potendo condannare a morte gli autori di reati anche particolarmente gravi, le autorità ecclesiastiche si erano trovate costrette ad optare per la soluzione carceraria o per la pena corporale. Le osservazioni di Mabillon precorsero ampiamente i tempi del dibattito moderno su criminali e prigioni; tutti gli interrogativi che avrebbero assillato i riformatori settecenteschi vengono formulati dal religioso con estrema chiarezza: la proporzione della pena al reato commesso, la necessità di un recupero spirituale del reo, ben oltre il suo impiego a fini puramente lavorativi, il rapporto tra pena e carattere del delinquente, il livello di rigenerazione morale a cui deve essere spinto il prigioniero. La comunità religiosa, intrinsecamente disciplinare nella sua chiusura rispetto alla realtà esterna, poteva risolvere facilmente il problema della riammissione del colpevole qualora fossero stati raggiunti il pentimento e la conversione interiore. Ben diversa appariva la vicenda del reinserimento in un ambito sociale laico del criminale abbandonato nelle prigioni dell'età mercantile. La sua condizione era il punto d'incrocio di istanze di potere e di sapere che dovevano rideterminare la funzione di un intero sistema giuridico.

La dolcezza delle pene
L'elaborazione teorica del modello carcerario è opera del periodo illuminista. Viene costituito un complesso apparato di norme e di modi di valutare i reati che fa del sistema penale un articolato meccanismo in grado di soddisfare le esigenze di una società che punisce secondo un metro il più vicino possibile alla giustizia, o meglio a quella che si riteneva fosse giustizia, contro la comminazione indiscriminata della pena di morte e l'arbitraria assegnazione di condanne sproporzionate all'atto criminoso commesso. Nasce il concetto di proporzionalità: l'ordine borghese si autoregolamenta, cerca di razionalizzare le proprie necessità, compila dettagliatamente i suoi codici etici e morali; e allo stesso tempo non nega l'evidenza del legame tra crimine e struttura sociale dominante. Il furto, dichiara apertamente Beccaria assieme a D'Alembert e Marat, è il nesso immutabile che unisce trasgressione alle norme e proprietà privata come simbolo inequivocabile delle classi al potere.
Secondo Beccaria è la certezza della pena ad essere realmente importante più che la sua durezza. La società borghese comincia ad interessarsi alla completezza, alla rapidità ed alla sicurezza della giustizia penale mettendo in secondo piano la sua severità. Mutamento del diritto sostanziale e riconosciuta deficienza delle procedure legali furono i capisaldi della critica dei riformatori illuministi. Ma il richiamo al progresso ed alla libertà dell'uomo non servirono a diminuire la sproporzione degli effetti dell'applicazione di quei principi tra le classi sociali, per definizione radicalmente diverse. Aumentarono certo le garanzie generali ma continuarono a restare profonde le differenze. I ceti inferiori non riuscirono quasi mai ad avvalersi delle nuove garanzie processuali per indisponibilità finanziaria e difetto di conoscenza; i vantaggi non si contarono invece per aristocratici e borghesi che furono risparmiati dall'intrusione nella loro libertà di movimento e nelle loro poco rispettabili attività lucrative.
Il movimento riformatore si espresse compiutamente nella seconda metà del settecento, nel medesimo periodo in cui viene meno la ragione stessa del nuovo sistema punitivo, il bisogno di forza lavoro. Le necessità dell'economia dell'epoca coincidevano con i principi umanitari dei riformatori e nel momento in cui si cerca di dare applicazione pratica alle sollecitazioni dell'Illuminismo vengono a mancare i presupposti culturali ed economici che le avevano determinate.
Le ripercussioni di tale ennesimo sviluppo del modello produttivo sulle case di correzione non tardarono a farsi sentire: esse si trasformarono in luoghi invivibili di negligenza, intimidazione e tormento per i reclusi nel mentre il lavoro assumeva una funzione meramente afflittiva. Da tempo si era fatta strada l'idea, forse anche immediatamente a ridosso del loro sorgere ed in seguito alla crescente diffusione in tutta Europa, di farle diventare istituti di carità o case per poveri oppure ancora orfanotrofi ed ospizi che ospitavano gli elementi più eterogenei. La situazione economica, come si è detto, stava rapidamente modificandosi sin da inizio '700. La popolazione era aumentata vertiginosamente e la richiesta di manodopera facilmente soddisfacibile; il mutamento delle condizioni di vita nelle campagne (recinzioni e creazione delle grandi tenute) aveva fatto affluire migliaia di persone in città, un flusso migratorio che avrebbe toccato l'apice nei primi decenni dell'ottocento.
In un panorama di questo tipo l'avvento delle macchine non poteva che produrre eventi catastrofici. L'esempio dell'industria tessile fu significativo: le fabbriche potevano adesso produrre da sole molte più merci di quanto non fossero in grado di fare le donne impiegate nella filatura domestica. Poco a poco il nuovo sviluppo industriale coinvolse anche gli altri settori della produzione determinando una crescita improvvisa della disoccupazione; di conseguenza aumentò subito il numero dei poveri e dei reati di cui essi si rendevano colpevoli, in particolare il furto. Il proletariato non controllabile cominciò ad impensierire i governi e si reagì sulle prime con un ritorno ai vecchi metodi punitivi basati sulla violenza fisica. In questo modo soltanto si intese far fronte all'aumento di una criminalità che era l'esatto prodotto di quel sistema di potere. La borghesia decise di modellare con attenzione l'apparato normativo che sarebbe servito a creare le leggi ed in particolare affrontò la codificazione penale come insieme delle sanzioni da applicare per la trasgressione di quelle norme, individuando con assoluto rigore i reati possibili e sottoponendoli dichiaratamente al criterio della loro maggiore o minore contiguità al reato amministrativo. Bisognava infatti tutelare il diritto di proprietà e tutto ciò che gli gravitava attorno: il capitale protegge il proprio denaro.
Le teorie dei filosofi di grande levatura, inoltre, da Kant a Hegel, contribuirono a fornire un indispensabile fondamento razionale all'emergente borghesia che si andava consolidando nella composizione di classe della nuova società capitalista: il concetto essenziale era che allo Stato di diritto doveva corrispondere un severo sistema di pene. L'Idealismo negò la possibilità di considerare alcun elemento soggettivo nello stabilire il nesso tra fatto particolare di reato e norma generale di diritto penale che ad esso si applicava; si aprì in tal modo la strada alla concezione liberale delle pene. Fu possibile perciò formulare tipologie di condotta rigorosamente prevedibili; il cerchio si chiude dopo aver risposto proprio al programma teorico dell'Idealismo borghese: rispetto del principio di legalità ed esclusività del principio retributivo.
Come scrive all'epoca Feuerbach, sintetizzando esemplarmente il pensiero di un'epoca intera, la trasgressione della legge è in sé sufficiente a far meritare la pena; non occorre altro, nessuna condizione soggettiva dell'imputato merita attenzione.
Mentre in Germania le dottrine idealiste si affermano da subito come il mezzo migliore per giungere ad una teoria astratta del diritto che tuttavia ne generalizzi gli effetti, nel resto d'Europa il legame con la realtà è più profondo e la funzione di classe del diritto penale manifesta, fino all'ammissione esplicita, la sua utilizzazione in quanto strategia di potere dei ceti dominanti.
Con la progressiva scomparsa della casa di correzione il carcere diventa la pena più diffusa nel Vecchio continente (ma vedremo che anche nel Nuovo le cose non sono poi così diverse). Ma nessuna ipotesi di trattamento alternativo dei detenuti viene immediatamente a sostenere il cambiamento di situazione; lo stato della detenzione assurge subito a simbolo della corruzione, della degradazione e dell'abbandono dei prigionieri ad un destino infelice. All'inizio dell'Ottocento in tutta Europa la condizioni degli istituti di pena è disastrosa. I riformatori del periodo attribuivano le disgrazie dell'apparato carcerario all'inefficienza dell'amministrazione, alla gestione privata che faceva delle prigioni imprese dai notevoli profitti, alla promiscuità totale tra uomini e donne; inoltre si comincia a discutere ripetutamente sul principio della less eligibility, vale a dire sulla necessità imprescindibile di assicurare ai detenuti un trattamento comunque inferiore alle più basse condizioni di vita esterne. I poveri, in sostanza, finiscono per accorgersi che la vita del carcere è per certi aspetti sicuramente migliore di quella che la società riserva loro in una quotidianità fatta di continui stenti e, osserva un parlamentare francese, essi sono addirittura spinti a cercare la detenzione attraverso il comportamento criminoso. Il vero problema, viene dichiarato nel 1825 in un rapporto sulle condizioni carcerarie della contea di Wood, è che la privazione di libertà non è strumento sufficiente per la correzione delle classi inferiori.
Solo l'abitudine al rispetto assoluto dell'autorità, per il mezzo dell'accettazione di un'esistenza tranquilla, laboriosa e regolare riuscirà a domare i più riottosi. Abitudine alla sottomissione, dunque, che si tradurrà direttamente in abitudine al rispetto delle regole sociali una volta rimessi in libertà. Si chiede al carcere di assolvere a tutte le impellenti esigenze di una società che vuole adesso rieducare, riabilitare, riadattare il condannato sottilmente intervenendo sulla sua psicologia. Una proposta pratica fornita da quello stesso documento consisteva nell'indurre i detenuti a risparmiare sul valore del pane. Quello che non consumavano nella giornata veniva risparmiato per le successive; in questa maniera l'amministrazione da un lato ne beneficiava sul piano dei costi e dall'altro favoriva la predisposizione al risparmio. Implicitamente si abituavano le persone alle ristrettezze ed ai sacrifici che avrebbero dovuto accettare nella vita fuori dal carcere. La situazione restava comunque grave: altissimi tassi di mortalità, denutrizione, stato di salute mentale vacillante e talmente degenerato da colpire i detenuti in modo permanente anche dopo il rilascio. La contraddizione tra una forma della pena ormai generalizzata e le reali condizioni della sua applicazione, continuamente testimoniate da più parti, si faceva evidente. Nello stesso periodo il lavoro carcerario cominciò ad essere declinato perché poco produttivo. I nuovi ritmi dell'industria lo rendevano troppo costoso per gli interessi del mercato. I sussidi statali diventarono l'unica fonte di sopravvivenza per le case di correzione, come si è detto in via di scomparsa, né lo Stato poteva far conto sul lavoro dei condannati per ammortizzare i costi.
L'intervento della pubblica amministrazione nel mantenimento delle struttura carceraria fu garantito anche dalla combinazione con un altro elemento essenziale della società disciplinare: l'esercito. Le carceri prussiane si rivelarono un modello perfetto; come agenti di custodia vennero impiegati ex militari in pensione e si realizzò così l'accorpamento di due meccanismi disciplinari destinati a convivere per lungo tempo.
Ma l'intervento nell'organizzazione degli statuti carcerari non risolveva il problema economico, la concorrenza sul libero mercato tra lavoro in carcere e lavoro libero dava origine a difficoltà che sembravano non avere soluzione. Nel loro viaggio negli Stati Uniti Beaumont e Tocqueville analizzarono a lungo questa situazione. Il sistema economico americano, in continua espansione, non temeva concorrenza tra i tipi di prestazione lavorativa; se la massa della produzione cresce continuamente, i prezzi diminuiscono in proporzione. Nei paesi nei quali, invece, la produzione ha saturato il mercato e ridotto il prezzo delle merci al livello più basso, il suo continuo aumento danneggia l'economia nel suo complesso a cominciare dalla classe operaia, la prima a risentirne gli effetti negativi. La produzione, osserva Rusche, si trova al prezzo minimo quando il salario dell'operaio gli consente di procurarsi lo stretto necessario per la sopravvivenza; il carcere, del resto, nella concezione capitalista produce per diminuire i costi e non per il profitto, potendo abbassare di conseguenza i prezzi senza compromettere la propria esistenza. La fabbrica, al contrario, vivendo del suo guadagno, quando non riesce a ricavare alcun profitto semplicemente cessa l'attività, non avendo la copertura del Tesoro pubblico che ammortizza le perdite.
Peraltro togliere ai detenuti il lavoro significava, ed in taluni casi fu questo l'esito, metterli in uno stato d'ozio che scatenò le proteste più esaltate da parte della stessa borghesia che vi riconosceva un incitamento al dolce far niente oltreché la completa assenza di carattere punitivo in un'istituzione creata con quello scopo specifico. I conservatori non tardarono a reclamare l'uso del carcere per la deterrenza più feroce contro le indomabili classi inferiori e in Inghilterra quelle sperimentazioni trovarono pratica attuazione fin dai primi anni del XIX secolo. Il lavoro penale fu trasformato da fonte di profitto in metodo di punizione giustificata da argomenti morali. L'introduzione di macchine azionate dall'energia umana (treadwills) e perfettamente inutili nella riproduzione ossessiva del loro ciclo interno divennero presto il simbolo del sadismo della nuova prigione. Esse costituivano una terribile ingiunzione a riconsiderare il carcere come ultimo rifugio dalle insidie di una società classista che affamava i poveri.
La pena detentiva mutò dunque significato e divenne chiaro che essa non rappresentava più la semplice privazione di libertà ma anche una certa dose di sofferenza e di asprezza. In Germania la pratica penale si uniformò immediatamente a questo concetto della durezza della carcerazione. Non si distinsero più i livelli della detenzione, i principi della rieducazione erano informati alla logica dell'intimidazione spietata. Il carcere fu presto luogo di orribili torture fisiche e psicologiche che davano una risposta precisa, continua, inflessibile all'unico principio valido: sorvegliare e punire.
La possibilità che il carcere potesse perdere quegli effetti intimidatori era al di là della sfera del pensiero razionale.
Le cose cambiano in fretta anche in Europa a seguito agli stravolgimenti politici che interessano le colonie. Dopo la rivoluzione americana l'Inghilterra non poté più deportare i condannati che vennero per la maggior parte impiegati nel paese d'origine (a Londra, per esempio, estraevano vicino al Tamigi ghiaia e sabbia). In breve i famosi hulks, i battelli dove venivano ospitati i detenuti, divennero serbatoi di delinquenza e malattie. Le polemiche che si scatenarono a livello parlamentare condussero ad un provvedimento di riattivazione della deportazione. Il governo Pitt fu costretto a cedere alle pressioni politiche di una vasta fetta del Parlamento ed autorizzare il primo invio di deportati nella baia di Botany in Australia nel 1787. Passato il primo anno in condizioni di vita disastrose, la situazione per i nuovi coloni cominciò a migliorare: essi furono impiegati oltre che nell'esecuzione di opere pubbliche anche nell'agricoltura. Terminata la giornata lavorativa ufficiale i detenuti potevano offrirsi con corresponsione di regolare salario agli imprenditori locali che li utilizzavano nelle attività più varie. Molti dei prigionieri, amnistiati dal governatore per buona condotta, rimasero in Australia a coltivare terra di proprietà che veniva loro concessa gratuitamente con sementi ed attrezzi di lavoro.
Nonostante le alterne vicende del fenomeno della deportazione, ci si rese conto che alla fine gli interessi coloniali e i problemi di giustizia erano stati confusi. Come all'epoca del mercantilismo il detenuto era, più o meno, considerato in base alla sua capacità lavorativa e non in base al reato commesso. Per molti la deportazione fu, infatti, una via di fuga dalla miseria che affliggeva le classi inferiori in patria.
Nel 1852 la situazione era tale nel Nuovo Galles del Sud da condurre un'altra volta all'abrogazione dell'istituto della deportazione. Si era avviata una forte tendenza al libero mercato che rendeva inutile, quando non dannoso, l'arrivo di condannati, cioè di forza lavoro che bisognava pur mettere da qualche parte.
In Europa si cominciò a discutere, per l'ennesima volta, del problema della criminalità e della sua repressione. Non bastava più liberarsi dell'incomodo scaricandolo in paesi lontani e quasi rimuovendone socialmente la presenza ed il ricordo. L'economia dei nuovi Stati procedeva ormai secondo le proprie rotte e non era più possibile affrontare la questione carceraria se non assumendone in pieno l'onere.
Nel diciannovesimo secolo la segregazione cellulare si diffonde in tutta Europa. Arriva dagli Stati Uniti dove le particolari esigenze del mercato del lavoro fanno rapidamente mutare la politica penitenziaria.
In America erano la considerazioni di carattere strettamente economico a prevalere. Il sistema della segregazione cellulare, introdotto dai Quaccheri a Filadelfia nel 1790, prevedeva l'isolamento dei detenuti in singole celle dalle quali sarebbero usciti soltanto a pena scontata o per l'intervento di cause di forza maggiore, quali morte o pazzia. Motivazioni di ispirazione religiosa condussero i Quaccheri a pensare che la preghiera e la meditazione fossero gli unici strumenti pedagogici adatti ad avvicinarsi a Dio ed ai prigionieri era concesso di non lavorare e di leggere la Bibbia come indispensabile strumento di riabilitazione morale. Inoltre la diffusa convinzione che il lavoro carcerario non avrebbe mai costituito un vantaggio economico portò a ritenere il modello filadelfiano uno tra i più avanzati del mondo, se non altro per l'approccio rieducativo altamente umanitario. In realtà sarà il modello di Auburn a prevalere con l'abbandono progressivo della segregazione cellulare. All'inizio del XIX secolo si assiste negli Stati Uniti ad un aumento di domanda di forza lavoro di notevoli proporzioni; le condizioni sociali complessive erano migliori di quelle europee, come Beaumont e Tocqueville videro benissimo durante il loro soggiorno. L'indice di criminalità era a quell'epoca davvero basso: la stragrande maggioranza della popolazione poteva lavorare e mantenere anche un'intera famiglia con un solo salario. La stato delle carceri rifletteva la vita sociale esterna improntata all'efficienza ed alla cura della persona. Per l'ex detenuto non esistevano soverchie difficoltà per trovare un'occupazione dopo l'uscita dalla prigione.
In fondo si trattava del trionfo del libero mercato in un paese dichiarato libero. Il sistema filadelfiano era inaccettabile nelle sue forti connotazioni non produttive e nell'onerosità degli effetti sul corpo stesso del recluso: dopotutto perché continuare a privarsi di ciò che poteva comunque, anche se in maniera diversa, essere oggetto di profitto, impiego di forza lavoro?
La decisione di impiantare dentro al carcere un apparato produttivo pose dei problemi di carattere organizzativo; non era certo possibile competere con le esigenze del mercato servendosi di una struttura come quella rigorosamente cellulare. Al carcere quacchero si oppose l'esperimento di Auburn, in breve tempo adottato ovunque. Tale sistema si articolava essenzialmente sulla segregazione cellulare notturna e sul lavoro in comune di giorno. L'introduzione delle macchine fece il resto: il carcere americano venne riconvertito in impresa economicamente vantaggiosa. Sopravvisse del vecchio metodo filadelfiano il silenzio obbligatorio, per ragioni di ordine interno e per costringere i detenuti a concentrarsi sul loro lavoro. Lo scoppio della guerra civile fu la prova generale della nuova fabbrica carceraria; aumentò il bisogno di divise e di calzature per l'esercito e la produzione garantì regolarmente le esigenze belliche proprio grazie all'impiego del lavoro penale. E per ragioni legate alla produzione si cominciò anche a distinguere tra condannati a pene lunghe e pene brevi, disponendo sapientemente del tempo dei reclusi e programmandone l'attività. I visitatori europei ritennero tuttavia il sistema auburniano poco severo: si concedevano riduzioni delle pene sulla base del parametro oggettivo del rendimento sul lavoro e del comportamento. La disciplina ad Auburn era assoluta perché grande era il desiderio di uscire in anticipo per buona condotta, dimostrando di aver lavorato sodo. Col venir meno della frontiera la situazione peggiorò. La classe operaia, vecchio problema irrisolto della prima economia capitalista, non tollerava che la manodopera internata vivesse in condizioni migliori e nei luoghi in cui i sindacati si rivelavano più forti, si arrivò all'abolizione totale del lavoro carcerario. I disagi si moltiplicarono: quando furono tolte anche le macchine, la popolazione detenuta si ritrovò a prestare la propria in certi casi acquisita professionalità in condizioni di difficoltà estrema. Dal canto suo l'amministrazione del penitenziario, costretta a lavorare soltanto con commesse governative, non riusciva a contenere le spese di mantenimento dei prigionieri e della struttura stessa. Le fluttuazioni dell'economia di mercato continuavano a fare del carcere una palestra indispensabile per i propri esperimenti, un luogo in cui si agitavano tensioni sociali e politiche che erano lo specchio di una realtà esterna sottoposta al cambiamento continuo. Nella battaglia incessante che agitava la società il carcere allungava la sua ombra spesso maligna di spettro, eterno riattualizzarsi di un potere punitivo tanto necessario quanto dissimulato.
In Europa la segregazione cellulare conobbe vicende molto diverse da quelle statunitensi anche se il dibattito sui modelli filadelfiano ed auburniano impegnò per anni giuristi e uomini di cultura. Ciò che occorreva alla società europea era una pena adeguatamente terrorizzante per le masse affamate, riproduttrici instancabili della minaccia criminale. Il senso di completa dipendenza e di bisogno determinato dall'isolamento cellulare veniva considerato il tormento più insopportabile che si potesse infliggere; valutazioni di carattere strettamente psicologico interessarono il modello detentivo europeo della rivoluzione industriale. Soltanto nella solitudine della cella il condannato avrebbe potuto essere assalito dai rimorsi della coscienza e tormentato dalle proprie emozioni. Soltanto a confronto con se stesso avrebbe riflettuto sulle sue colpe e si sarebbe pentito rigenerando lo spirito. È fuor di dubbio, inoltre, che il metodo cellulare serviva anche alle amministrazioni carcerarie per mantenere con poco sforzo una disciplina rigorosa, specialmente dinanzi all'aumento del numero dei detenuti conseguente al cambiamento nelle ragioni della produzione. Abbiamo osservato prima come fosse cresciuta la quantità di coloro che erano stati marginalizzati dall'introduzione del lavoro meccanico.
Il primo congresso internazionale di Francoforte sui problemi penitenziari, nel 1848, decretò l'uso definitivo del sistema filadelfiano. La salute psicofisica della popolazione carceraria fu gravemente minacciata, come ampiamente si denunciò negli anni successivi. Il livello dei suicidi accrebbe in maniera sensibile a causa dell'isolamento completo dagli altri carcerati e dell'ozio forzato che sfociava in stati di depressione cronica; per la quasi totalità dei detenuti l'esperienza della segregazione cellulare rappresentò malattia, sofferenza, follia ed emarginazione sociale. Secondo Rusche, la scelta per cui si optò in Europa fu il prodotto preciso di un'analisi economica che, in presenza di un surplus di forza lavoro conseguente al riassetto industriale, abbandonò ogni e qualsiasi razionale politica rieducativa, nascondendosi sotto la maschera dell'ideologia morale. Comunque fosse andata, erano fatte salve le esigenze del controllo. E come andò veramente lo riportano gli archivi. Non si rinunciò all'idea di usare il lavoro, anche nelle forme minimamente produttive, per rieducare i detenuti: in molti stabilimenti di pena esso servì soltanto a liberare lo Stato dagli oneri delle spese per il mantenimento dei condannati, ma fu comunque adottato. In Francia, nonostante i tentativi di riforma in quasi un secolo di progetti di legge il recupero attraverso il lavoro restò una costante dell'internamento nelle prigioni. L'impegno lavorativo significava assiduità nella prestazione giornaliera, privazioni, disciplina, creazione di rigide gerarchie e rapporti di subordinazione inflessibili: simbolo emblematico dell'organizzazione produttiva, dell'instancabile operosità industriale. È dalla seconda metà del XIX secolo che si fissa il modello di prigione che ancor oggi conosciamo. Si dà forma ad un insieme di tecnologie che sostituiscono ai filantropi i professionisti del carcerario e che si danno unità coerente. Individualizzazione della pena, socializzazione del criminale, riabilitazione attraverso il lavoro produttivo sono i tre cardini della nuova strategia. Che, in un'ultima istanza, diventa una sola: conversione produttiva della povertà. Il modello della prigione delinea un primo dispositivo di educazione e normalizzazione della massa, circoscrivendo la devianza ed impedendo i rigurgiti politici che minacciano la stabilità del potere. Un sofisticato sistema di individuazione dei crimini e dei criminali agisce in profondità nel sociale, lo seziona, lo divide in comparti, appronta una tassonomia del deviante; lato oscuro di una società che per esistere avrà costantemente bisogno dell'opposizione tra buono e cattivo, giusto e ingiusto, onesto e delinquente. Si fa più stretto, osserva acutamente Michelle Perrot, il controllo dell'identità al quale le tecniche moderne conferiranno quell'efficacia che la dolcezza delle pene permette.

La società punitiva
La storia della prigione è una parte dello svolgimento della pratica della punizione in Occidente. L'età classica aveva conosciuto quattro grandi forme punitive: l'esilio (cacciata dal proprio territorio d'origine, messa al bando, distruzione della casa, confisca dei beni, ecc.); il riscatto (obbligazione patrimoniale a titolo di risarcimento del danno provocato); il segno (marchio a fuoco sulla pelle di chi ha commesso il delitto, amputazione di arti, iscrizione sul corpo del condannato della visibilità del potere); l'incarcerazione. Secondo Foucault ognuna di queste forme rappresenta una società e rispettivamente quella greca, quelle tedesche, quella occidentale fino a tutto il medioevo e quella moderna. Ma la società che imprigiona è veramente la nostra? A partire dalla fine del XVIII secolo sembra di sì. È intorno agli anni che vanno dall'ultimo ventennio del '700 al primo dell' '800 che la detenzione entra a far parte del sistema penale europeo. I grandi riformatori del XVIII secolo sono poco inclini a considerare la prigione come realmente appartenente all'edificio concettuale del diritto, come proveniente da quell'insieme di norme. L'imprigionamento sta ai margini del sistema penale e non è comunque deciso dal potere giudiziario. La sua durata non è stabilita da criteri univoci, come succederà in seguito; ci si preoccupa più di correggere che di infliggere una pena. Soltanto cinquant'anni dopo la prigione è diventata la forma per eccellenza dell'espiazione della pena. Un sistema articolato di forme dell'incarcerazione occupa rapidamente tutto lo spazio disponibile all'interno del regime delle penalità. La punizione, adesso, è tutta ragionata sulla base delle potenzialità rappresentate dall'internamento in luoghi sicuri, luoghi da approntare servendosi di tecniche da sperimentare, di edifici da costruire, di un intero modo di procedere che necessita di continue verifiche. Non più forche, patiboli, complicate macchine per la tortura, ma prigioni, città nelle città con un ritmo di vita quotidiana scandito dalla sovrana esigenza del punire sorvegliando e riabilitando, se ciò sarà mai possibile.
L'introduzione della prigione come elemento essenziale del sistema penale è subito oggetto di critiche violentissime. Si accusa l'incarcerazione di essere elemento perturbante della società e di introdurre pericolose disfunzioni. Mettere insieme condannati diversi, riunirli in uno stesso luogo, darà origine soltanto a pericolose commistioni che finiranno per vedere uniti insieme, in modo omogeneo, in comunità, prigionieri divenuti gruppo durante il carcere e pronti a mantenere salda questa loro solidarietà anche all'esterno, quando saranno di nuovo liberi. Ma cibo, vestiario e lavoro offerti nel carcere consentono al prigioniero di vivere una condizione quasi migliore di quella dell'operaio, attirando molti alla delinquenza nella sostanziale esiguità della pena. Queste ed altre ancora le preoccupazioni di chi intuiva, nel fondo, i rischi a cui ci si esponeva sostenendo la validità della pratica della prigione. Osservazioni perfettamente calzanti, del resto, che disvelavano in modo inequivocabile effetti di potere che siamo in grado di additare. Da subito si riusciva a riconoscere nella prigione il ruolo che poi in effetti avrebbe avuto, cioè di riproduttrice della delinquenza, della sua moltiplicazione, fabbrica operosa per intere popolazioni di marginali. Paradossalmente la pratica della prigione è del tutto esterna alla teoria penale, si affianca semplicemente da un certo momento in poi al sistema giudiziario finendo per diventarne l'espressione principale, anche se continuamente negata ed attaccata. Tuttavia i giuristi si sentirono ad un certo punto in obbligo di giustificare la presenza di questo elemento estraneo ma così forte da aver generato un vero e proprio regime penitenziario. Sono molti e diversi i fattori che contribuirono all'accettazione più o meno coatta della prigione come modello punitivo. Se esiste una geografia del potere, implicitamente sostenuta dalla necessità di avere sotto controllo la popolazione in un determinato territorio, la prigione interviene certamente ad aiutare la distribuzione spaziale degli individui; questo fu tanto più vero nel caso di mendicanti e vagabondi che costituivano un popolo di viaggiatori dediti alle pratiche della sopravvivenza, quali che fossero, e che rappresentavano un pericolo contingente per la nuova società che si affacciava agli albori dell'età industriale con tutta l'intenzione di mettere ordine tra le sue cose. Li si imprigiona, osserva Foucault, per spostarli più che per rinchiuderli.
In secondo luogo con la prigione è più semplice intervenire al livello della condotta etica e morale degli individui, imponendo norme del vivere, comportamenti sessuali, ideologie politiche e via di seguito. Cosa può significare tutto questo se non l'introduzione, lenta ma inesorabile, di un sistema capillare di controllo, di riproduzione dell'ordine, al di là dello stesso apparato delle leggi? Nessuno poteva rifiutare la praticità della prigione, la sua perfetta adattabilità alle esigenze multiformi e sempre sortibili di aggiustamenti di una società che nell'era industriale doveva entrare a patto di notevoli trasformazioni strutturali. Sorveglianza e controllo diventano in breve il meccanismo di potere che caratterizza la neonata società capitalista. Questo dispositivo penetra lentamente la composizione sociale e fa dei corpi l'obbiettivo principale della sua intrusione. Il modello del Panottico, osservare incessantemente senza essere visti, non sarebbe potuto diventare più utile, nemmeno nelle speranze di Bentham che nel 1791 ne espose pubblicamente le caratteristiche. È la società che deve diventare una prigione, ormai: scuole, ospedali, fabbriche, città saranno dominio di raffinate strategie di controllo che ne comporranno instancabilmente le strutture, ne saggeranno la consistenza, ne decideranno i ritmi. Ma più il potere espande la sua morsa in un tessuto capillare e più si potranno attivare delle resistenze. È un gioco di rapporti di forza destinato soltanto ad autoriprodursi inverosimilmente. Le rivolte popolari, adesso, in un diciannovesimo secolo tutto progresso e civiltà, la presa di coscienza operaia minano alle fondamenta il potere politico, ne chiamano in causa, annota Foucault, la distribuzione e la struttura, possono pretenderne il possesso e l'esercizio. Il pericolo, al pari del meccanismo di dominio, è interno alla società: è il pericolo perpetuo che minaccia la ricchezza investita nel sistema produttivo. Una nuova forma d'illegalità sta facendo la sua comparsa. È quella dell'operaio sottopagato che vive in condizioni di deprezzamento del lavoro a causa dell'introduzione delle macchine, costretto ad incredibili orari e ad un indebitamento progressivo per sopravvivere. I comportamenti da circoscrivere sono quelli dell'assenteismo, la rottura del contratto, l'emigrazione verso terre più ricche, l'irregolarità della vita. Bisogna riuscire a compattare questa forza lavoro senza disperderla, dislocandola lì dove si rende necessario averla e imponendo contemporaneamente dei ritmi inflessibili di vita, assiduità nella prestazione lavorativa, sottomissione completa alle esigenze della produzione. Regolarità contro devianza, ordine contro anarchia. In questo contesto la delinquenza, costantemente riprodotta dal circolo carcerario, viene indicata come lo sbocco naturale, la conseguenza inevitabile per chi non si assoggetta, trasformando così la marginalizzazione dovuta ai meccanismi di controllo in strumento pratico di pressione su coloro che ancora resistono.
Nel XIX secolo la società industriale inaugura l'epoca del panottismo, della disciplina e della normalizzazione. Il potere penetra i corpi e sancisce su di essi il nuovo dominio, soggiogandoli internamente ed esternamente. Il dentro del corpo, il soggetto psicologico risulta dall'incontro tra potere e corpo, è l'effetto della fisica del potere. La repressione attraversa un momento di passaggio cruciale situandosi ormai sul versante della sorveglianza più che della punizione. L'economia del potere stabilisce facilmente un rapporto preferenziale con il meccanismo del sorvegliare, irregimentare, avere sotto controllo: all'interno di essa le pratiche dell'osservazione, dell'utilizzazione dei corpi e delle loro energie, della definizione delle norme, dell'aggiustamento dei mezzi della correzione hanno già prodotto un sapere che non attende nient'altro che la sua definitiva applicazione. La prigione è dunque legata ad un progetto massiccio di trasformazione degli individui che era cominciato nel XVIII secolo, con la creazione di un regime di potere che si esercitasse nel corpo sociale e non più al di sopra di esso, e che proseguiva nel XIX la sua opera di assoggettamento come modello disciplinare. La delinquenza gioca, dentro a questo meccanismo, il ruolo indispensabile di veicolo delle istanze di controllo; la sua integrazione, sempre possibile, nello stesso sistema di potere che la genera e la combatte dimostrano che essa stessa poteva diventare strumento di sorveglianza dell'illegalità in una circolarità senza fine.
Quando il potere definisce il delinquente, il criminale descrive in realtà una parte di se stesso, affida ad una soggettività esterna il compito di riprodurlo continuamente, distingue tra buono e cattivo ma solo per confondere le idee. Condotta legale ed illegale finiscono per assumere la stessa valenza, la differenza sta nella polarità, per così dire. Positivo e negativo sono istanze che provengono, a ben guardare, dalla stessa parte, sono gli effetti di spostamenti in un unico asse di rapporti di forza.
Il nodo centrale del meccanismo punitivo moderno si può ritenere questo, la definizione di una soggettività in grado di reggere alle contraddizioni del modello industriale. Il soggetto-corpo, soggetto assoggettato (è interessante sottolineare la duplice valenza del termine soggetto in tal senso), risponde alle molteplici esigenze di un apparato di potere, di un dispiegarsi del dominio che nel carcere, da un certo momento in poi, trova un formidabile laboratorio per plasmare i corpi, renderli docili avrebbe detto Foucault, dare la misura di una nuova umanità reificata continuamente dalla produzione per la produzione. Ma nel sistema del Capitale non si produce soltanto profitto, o denaro, o merce in un quadro strettamente economico: si produce anche sapere. Il concetto di merce, a questo punto, si dilata coinvolgendo un intero campo epistemologico, assunzione pura di un radicamento culturale che diventa, come era stato senz'altro prima in forme e modi diversi, società.
Nella geografia di un potere che, dal XIX secolo, vuole fare i conti con una popolazione che sa riconoscere in un territorio (nascita del censimento in quanto ineludibile sistema classificatorio che è simile a quello della medicina, della biologia, più tardi della criminologia e della psichiatria) ed a cui attribuisce una sovranità sostanziando un vincolo duraturo tra cittadino e Stato, tra individuo e nazione, il carcere trova la sua indispensabile collocazione di unità territoriale di controllo, luogo, tra breve, dell'incontro delle discipline che si andavano costituendo in quel periodo. Esso afferma soprattutto l'esistenza di un ordine della legalità, diffusività imperativa della norma, che lascia ampi margini di sorveglianza sulla massa; la Rivoluzione francese aveva dimostrato che il sistema politico di una nazione era alla portata della rivolta, il popolo poteva reclamare la sua fetta di potere. La distribuzione delle strategie moderne di conservazione del potere si irradia nel tessuto sociale e ne occupa tutti gli spazi: ma più si espande e più si necessita la moltiplicazione funzionale del controllo, di sapere sempre il come e il dove, il quanti sono e cosa fanno. Eccola la disciplina-meccanismo che ha abbandonato l'antica veste del blocco, dell'annientamento fisico del trasgressore, del marchio visibile della potenza del re. Una fabbrica silenziosa piuttosto, nascosta al chiasso dell'esecuzione pubblica che incita al sangue ma di cui tutti sanno, nella quale giorno per giorno, pazienza infinita di un potere che non ha bisogno di manifestarsi per esistere, anzi si riproduce meglio nell'ombra dello scivolare dappertutto, si forgia il soggetto ideale della grande macchina industriale, qualunque forma essa sviluppi poi nel corso degli anni. Un individuo sottomesso che lavora instancabile in mezzo agli altri e si ritira la sera nella propria cella (o nella cella che condivide con due o tre compagni) a riposare per riprendere la mattina successiva il filo del ritmo produttivo: e non è forse il penitenziario auburniano tutto ciò, riepilogo, in buona sostanza, della vita quotidiana che attende il recluso oltre le mura della prigione?
Le variazioni, successivamente, sono infinite anche se la sostanza della pratica carceraria possiede alcuni elementi caratterizzanti. Seguendo le indagini foucaultiane, elenchiamoli brevemente: le forme della penalità che si vengono a creare nell'arco di un secolo, da metà '700 a metà '800, mettono in gioco, al di là delle infrazioni definite dal codice che sostanzialmente non sono cambiate (ad eccezione di alcuni delitti come quelli religiosi che scompaiono per lasciare il posto ad altri di carattere economico), il corpo e la sua materialità. È questa la rivoluzione della pratica morale legata non tanto ad una nuova percezione dei costumi quanto ad una storia del corpo: corpo come forza produttiva, in una parola. Corpo che deve essere ricomposto e pienamente utilizzato per la sua destinazione eccellente, il lavoro. La prigione si sostituisce al supplizio, eliminazione del corpo del condannato, e diventa forma generale della punizione; la penalità, registra efficacemente Foucault, si dà forma nella prigione esattamente come il lavoro ha la sua forma nel salario. C'è un corollario: la medicina, scienza della normalità dei corpi, si insedia nella pratica penale come strumento essenziale della guarigione.
Secondo elemento: il rapporto tra potere politico e corpi. La costrizione sui corpi, i modi dell'intervento su di essi, controllo, assoggettamento, dominio materiale, origina una fisica del potere che fa da contrappunto allo sviluppo di nuove strutture statali, concrezioni giuridiche di una nascente economia. Intorno a questo spazio della pena si dispongono alcuni meccanismi che sono istanze del potere stesso. Vedere: tutto deve essere osservato, scrutato, trasmesso; organizzazione di un corpo di polizia (ogni evento è corpo ormai), approntamento di un sistema d'archivi, istituzione del panottismo come funzione generalizzata dello sguardo che controlla senza essere visto. Costruire: bisogna isolare e raggruppare gli individui attraverso una meccanica del corpo che utilizza le forze, migliora il rendimento, disciplina tempo, vita ed energie. Normalizzare: è indispensabile creare un sistema di norme, escludere e respingere tutto quanto non è conforme, ristabilire l'equilibrio correggendo e punendo.
Terzo, ma non meno importante fattore, l'istituzionalizzazione della delinquenza. Messa in opera di una categoria sociale continuamente richiamata dalla prigione e continuamente marginalizzata nel momento stesso in cui se ne dichiara il recupero. Un circuito in realtà cortocircuitante che richiama sempre gli stessi esercitando una pressione sull'illegalità; l'istituzione penale conduce per il tramite della delinquenza l'irregolarità all'infrazione e quindi alla punizione, trasforma i delinquenti in strumento di sorveglianza dell'illegalità (arruolando provocatori, informatori, poliziotti. Ricordate Vidocq?), dirotta le infrazioni verso i ceti più importanti da controllare.
La prigione produce devianza, criminalità per esercitare la sua funzione di tattica perenne del dominio sui corpi; essa è parte integrante di quella fisica del potere che ha suscitato, dice Foucault, la psicologia del soggetto.

Scienza
Finita l'epoca dei grandi viaggiatori, John Howard, che nel volgere di dieci anni visita le prigioni dei maggiori Stati europei, Tocqueville e Beaumont, col loro viaggio di studio in America quasi un trentennio più tardi nel 1831, e conclusosi il tempo dei riformatori filantropi del secolo dei Lumi, da Beccaria a Bentham, la seconda metà dell'ottocento conosce il fiorire delle scienze umane, di campi del sapere che specializzano via via un insieme di conoscenze in stretta relazione tra loro, un'intersezione fitta di discorsi che danno regolarità e giustificazione all'assetto sociale e politico. Il diritto penale, il complesso intreccio delle norme giuridiche che sanzionano il comportamento criminale e le esigenze della società civile, società punitiva si è detto prima, si incontrano in almeno due discipline destinate a notevole fortuna: psichiatria ed antropologia criminale. Per coglierne assieme gli effetti e constatarne le valenze nella disposizione che assunsero in quel periodo che chiudeva un secolo e ne apriva un altro, il nostro, racconteremo di Cesare Lombroso, antesignano del moderno criminologo e padre indiscusso della scienza dei devianti.
Quando apre il cranio del brigante Vilella, Lombroso non sa ancora che sta per fare la scoperta che lo porterà presto a formulazioni fondamentali di un nuovo discorso sul corpo. Ma nel momento in cui l'occhio si posa, irrinunciabile potere dello sguardo che taglia, seziona, cataloga, nel punto dove si erge normalmente la piccola cresta, qualcosa appare lì dove non dovrebbe essere: è una vistosa anomalia che ha l'aspetto di una fossa, Lombroso la chiamerà occipitale mediana, e che occupa il posto della cresta. Questa diversità accomuna il cervello del brigante a quello degli animali inferiori.
"Così si spiegavano anatomicamente le enormi mandibole, e i grandi zigomi, e le arcate sopracigliari spiccatissime, le pieghe palmari uniche, la maggiore ampiezza dell'orbita, le orecchie ad ansa o sensili che si trovano nei criminali come nei selvaggi o nelle scimmie, e l'insensibilità dolorifica, la grande acutezza visiva, il tatuaggio, l'eccessiva pigrizia, l'amore dell'orgia, il bisogno del male per il male, il bisogno di uccidere, non solo, ma di inferocire sulle vittime, di beverne il sangue." (Lombroso)
L'idea di personalità tipica del criminale lo aveva colpito per la prima volta, singolare intreccio di istituzioni che hanno molti caratteri in comune, osservando i tatuaggi dei soldati, quelli disonesti, a detta della sua esperienza (era stato medico militare presso l'ospedale di Torino e nell'esercito per circa sette anni), molto più tatuati degli onesti. Con il processo che si svolse in quegli anni contro il soldato Misolla, epilettico e uccisore di otto commilitoni, Lombroso arriva alla definitiva conclusione che esiste un legame intrinseco fra epilessia e delitto; proseguendo negli studi si convince che il pazzo morale e il delinquente nato possono essere identificati coll'epilettico. La ricerca dello psichiatra italiano che si inventò l'antropologia criminale, divenuta cattedra universitaria nel 1905 ed affidata allo stesso Lombroso, è minuziosa e pervicace: le notizie sull'imprevidenza dei criminali, sulla loro mancanza di rimorso, sulla maniera di contenersi prima, durante e dopo il delitto in modi diversi a seconda della diversità del reato, forniscono a giudici ed avvocati un insieme di criteri per desumere, con certezza assoluta, la colpevolezza o l'innocenza dell'accusato. Come afferma Zerboglio, stimato biografo lombrosiano, nel suo volumetto del 1912, è dagli studi di Cesare Lombroso che la polizia ha tratto gli spunti addirittura per la sua riforma ed è dalla sua descrizione positiva della delinquenza, attenta nosografia del deviante, che la scuola austriaca ha potuto fondare la cosiddetta criminalistica. Il travaso dell'antropologia criminale nelle aule di giustizia diventa marea; nei dibattimenti penali non si riesce a fare a meno del supporto dello psichiatra e del criminologo per investigare, frugare, accertare intorno alla figura del reo che finisce per essere oscurata dallo stesso dire su di esso, incitamento ossessivo al pronunciare i discorsi della scienza. I congegni dello svolgersi della psicologia del criminale, i sentimenti che accompagnano il formarsi della coscienza criminosa sono indagati con cura meticolosa. Alle discipline penitenziarie, desiderose di riaffermare il proprio ruolo assecondando l'emergere di altre purché funzionali, l'analisi naturalistica del delitto vuole insegnare fino a che punto la pena possa intimidire o correggere i delinquenti e quanto la repressione sia utile alla difesa sociale oppure procuri effetti negativi.
Lombroso si occupa anche direttamente e del resto come non avrebbe potuto essere?, della questione carceraria. Raccoglie persino una serie di documentate testimonianze andando a decifrare le grafie rozze ed incerte con cui i detenuti incidono sulle pareti delle celle i loro pensieri e le loro angosce. Nel 1891 le riunisce in uno stesso volume, Palimsesti dal carcere, accanto ad alcune considerazioni sulla struttura penitenziaria e ad alcune biografie originali di detenuti di ambo i sessi, rinchiusi nelle prigioni del Regno. Sistematizzate per temi (la giustizia, il detenuto, le passioni, i crimini etc.) le iscrizioni vengono analizzate statisticamente, corrispondenza interdisciplinare con un altro effetto della scienza positivista, con un'ampia tavola di riferimenti in percentuale. I palinsesti criminali, sostiene Lombroso, ci rivelano quel che più conta e cioè che gli scopi del carcere cellulare quasi mai si raggiungono; si crede di impedire l'associazione tra i prigionieri, il compagnonaggio, quando invece appare il contrario. Nel carcere si realizza quella forma di cameratismo che forse prima mancava: si origina una vera e propria tradizione carceraria che diventa linguaggio ed organizzazione del vivere e che si trasmette di volta in volta ai nuovi arrivati. La prigione è luogo della comunicazione e dell'apprendimento della delinquenza per chi sta dentro, per chi sta fuori e per chi passa dall'una all'altra condizione. Le osservazioni si fanno ancora più critiche quando Lombroso analizza il ruolo dell'impresa, "tiranno nascosto che domina tutte le carceri"; l'articolazione necessaria del lavoro dell'imprenditore che usa dei detenuti per attività che vanno dalla sartoria alla falegnameria crea collegamenti inevitabili con l'ambiente esterno che non isolano assolutamente nessuno. Allora nei laboratori del carcere cellulare, appunto per impedire le comunicazioni, non si permettono che pochissimi lavori; questo intervento forzoso continua ad opporre difficoltà a difficoltà. Oltre al danno materiale che ne viene allo Stato ed alle persone costrette all'ozio forzato senza altro sfogo che l'onanismo, ne consegue anche un danno futuro; infatti gli individui attivi si abituano a non fare niente o molto poco e quando ritornano alla vita esterna sono spinti a delinquere per ritornare a quella condizione d'ozio che hanno finito per apprezzare.
Nemmeno il problema dell'istruzione nelle carceri sfugge al prolifico antropologo: meglio potenziare le attività manuali consentendo al prigioniero di migliorare le proprie qualità di lavoratore piuttosto che perder tempo a consegnargli una scolarizzazione che comunque userebbe per continuare con maggior profitto a commettere crimini. La criminalità sta non nel difetto di intelligenza ma nel difetto di sentimento.
La conclusione del libro di Zerboglio, attento biografo, degna della miglior dottrina positivista, dà schiettamente voce alla società disciplinare ed al nuovo secolo (il '900) che da quel modello disciplinare riceve stimoli e suggestioni.
"Quando si sarà composto il dissidio fra la libertà, l'autorità e la difesa sociale; quando avremo mezzi superiori agli odierni per accudire la pianta uomo; quando in una parola il consorzio degli uomini sarà governato da una più grande solidarietà di lavoro, di bisogni, di intenti, quelle teorie potranno più sicuramente reggere il costume e la legge. Il colossale lavoro di Cesare Lombroso non andrà mai perduto; sarà titolo perenne di gloria al maestro aver studiato l'uomo, aver invitato noi tutti a riconoscere che vani sono i conati di semplice rivoluzione delle cose, al di là e contro la natura dell'uomo, cristallo di rifrazione delle cose stesse, che deforme, le deforma, che limpido e puro, le riverbera limpide e pure."
L'umanità rinnovata dal paradigma di una scienza che ne assume il possesso fin dentro ai recessi del corpo e della mente, riflette in quel cristallo anche le sfaccettature, mobili ed irrequiete, di un potere che la domina instancabilmente.

Continuità e contiguità
Lo svolgersi della storia del carcerario, definitivamente sistema dotato di caratteristiche ben individuabili da metà ottocento in avanti, prosegue nel XX secolo con ritmi e procedure che questo abbozzo di ricerca non riesce a delineare per il momento. Tuttavia una traccia per la futura indagine è sempre possibile.
Nell'America degli anni '30 si avverte per la prima volta la necessità di un carcere di massima sicurezza. Originariamente si tratta di una semplice idea architettonica per impedire le rivolte. Il famoso carcere a palo telefonico, progettato dallo statunitense Hopkins in quegli anni, è uno dei primi esperimenti concreti di massima sicurezza. Non più vedere senza essere visti, come nel modello di Bentham, ma reprimere, incasellando, chiudendo, isolando: ritorno inaspettato di una violenza che i riformatori di due secoli prima escludevano con forza. Militarizzazione progressiva non soltanto all'esterno, ma anche dentro al carcere, difesa immediata, quando non attacco senza preavviso sono le caratteristiche dell'ennesima macchina del potere. La quotidianità di questa istituzione riflette i suoi caratteri architettonici. L'isolamento totale accascia il detenuto, lo spoglia di qualsiasi riferimento psicologico, annulla la volontà; l'unico recupero ammesso è quello di una morte che liberi dalla sofferenza della deprivazione sensoriale, dell'angustia della cella insonorizzata, dell'immobilità del corpo.
Le linee di discontinuità, dove esistono, o quelle di continuità che hanno fatto arrivare sino a noi il carcere speciale, come è definito nel nostro linguaggio sociale da quasi vent'anni ormai, possono essere riprese, ritrascritte, rimarcate nei solchi di un racconto che si intreccia con altri luoghi della società contemporanea, con altri progetti ed altre strategie, con tecniche sofisticate del controllo su cose e persone. Questi figli mostruosi, parto doloroso di una società che nel secolo delle democrazie ha conosciuto guerre e scontri tra i più sanguinosi, sono una parte consistente di quel rumore sordo di battaglia che a Foucault sembra di sentire nella chiusa a Sorvegliare e punire ed i cui echi non si spengono ancora.
La ritualizzazione del potere in Occidente assume aspetti insoliti, torsioni inaspettate che rinnovano antiche pratiche o ne predispongono di nuove. Il soggetto politico che risulta dagli anni della contestazione di un sistema culturale e sociale nel suo complesso è radicalmente diverso dagli altri finora conosciuti. Esso stravolge radicalmente il patto stabilito tra liberi, attenta alla sicurezza della società perché ne vuole l'annullamento, non la trasformazione. Questo deviante che diventa piccolo gruppo in tutt'Europa mina dalle fondamenta il senso stesso dei principi dell'ordine democratico, tenta di svelarne le complicità col potere dell'economia capitalista. E che cosa produce nella compostezza delle tecniche del controllo borghese, se non disagio, se non terrore? Perché porta alle estreme conseguenze, violenza fisica dello scontro, una ribellione che serpeggia ormai da tempo nell'apparente compostezza della maggioranza silenziosa?
In assenza di un contratto sociale che viene annullato immediatamente dallo svolgersi degli eventi, la risposta dell'apparato di controllo è decisa. Il carcere di massima sicurezza è il luogo di quell'annullamento, quello spazio della segregazione che diventa vuoto normativo, mancanza di regole nella loro presenza assoluta. All'interno della sua architettura estrema, soffocamento della psicologia individuale, moltiplicazione degli effetti della deterrenza e frammentazione della coscienza, soluzioni estreme: puro annientamento dell'oppositore, per ripristinare l'equilibrio politico esterno; un campo di concentramento che denuncia la presenza di una guerra interminabile. Questa guerra silenziosa, le cui disposizioni tattiche non sono conosciute se non da chi sta dentro, incita drammaticamente la violenza e la perpetua in un tessuto sociale che è apparentemente pacificato, ne è palestra continua.
La militarizzazione del territorio, seguita alla fine dell'ultimo conflitto mondiale, la spartizione delle aree essenziali all'equilibrio tra potenze sono l'esempio più evidente del controllo totale richiesto da un potere che cerca la sua definizione totale. Potere sulla vita che la allunga e la preserva dall'imminenza della morte e proprio per questo se ne impossessa completamente.
Nello scenario politico del controllo non c'è posto per la devianza che annuncia l'imminente presa del potere, il cambiamento stesso della fondatezza delle norme. Il circolo carcerario chiude la sua trappola mortale rinnovando in se stesso, fino al limite estremo, il disordine del conflitto. Disordine dello spirito, annientamento dell'alterità irriducibile, riproduzione incessante della violenza. Disarticolare le ragioni dell'introduzione della massima sicurezza, valutarne le conseguenze, disegnare la cartografia di un territorio così frastagliato, è un'operazione complessa, non c'è dubbio; ma è anche l'unico modo per tentare di scavalcare il muro che separa l'interno dall'esterno, probabilmente ritornare ad essere società.

 

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