La soglia
Variazioni
Crimini e criminali
Punizioni e pene
La dolcezza delle pene
La società punitiva
Scienza
Continuità e contiguità
Fonte: Memoria per il conseguimento del DEA in Istituzioni sociali
e politiche dell'Europa occidentale. Relatore: Prof. Jean-Marie Vincent, Università
di Parigi VIII - Saint Denis, Facoltà di Scienze Politiche. Pubblicato
on line dalla Libera Università di Godzilla http://www.redleghorn.net/libuniv/tesi.php
***
Non conosce la propria condanna? Sarebbe inutile comunicargliela, tanto imparerà a conoscerla sul proprio corpo.
Franz Kafka, Nella colonia penale
La soglia
Se è vero, come ci insegna il Foucault di Les mots et les choses,
che nel corso della storia dell'Occidente cristiano si sono date alcune fratture
epistemologiche che hanno ridisegnato i contorni di una società
complessa in continua evoluzione, una di esse è certamente quella che
a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo ha trasformato la percezione stessa
della realtà delle cose. Il '700, secolo dei Lumi e delle grandi rivoluzioni,
ha marcato una radicale differenza con le epoche precedenti proprio perché,
dentro alle instabili fluttuazioni di società e politica, alcuni importanti
cambiamenti hanno segnato la vita degli uomini e delle donne. Le nuove empiricità,
come le chiama Foucault, hanno singolarmente disposto la loro presenza in
uno schema di realtà che soltanto un'analisi accurata riesce a distinguere
nella loro singolarità. Singolarità che è, ancora una
volta, l'effetto del dispiegarsi e dell'interagire di una generalità
di pratiche che si intersecano a vicenda, si incontrano, si scontrano, convergono
e divergono in una strategia che sarà quella delle discipline, del
mondo ordinato della nascente società industriale.
Mentre il sistema pre-capitalista prosperava e lentamente tentava di assorbire
in sé la stessa struttura sociale, rendendola omogenea alle sue istanze,
il linguaggio di un intero segmento della nostra storia recente assumeva le
caratteristiche più adatte a riprodurre continuamente quel sistema,
dichiarandone concettualmente possibile l'esistenza. L'operazione tanto più
riusciva, quanto più si dimostrava impossibile sostituire alla forza
dei rapporti economici di tipo capitalista qualsiasi alternativa. Il concetto
di lavoro, introdotto a sostituzione di quello di "analisi delle ricchezze",
è una delle funzioni principali della nuova meccanica produttiva.
Nel '600 e nel '700 l'economia politica non esiste ancora; il suo campo discorsivo
non si è costituito, la sua pertinenza semantica, vale a dire la possibilità
stessa che tale concetto si esprima in una serie coerente di parole, nel linguaggio,
è lontana. Un'altra nozione appartiene all'universo mentale degli uomini
dell'epoca, quella di ricchezza. Rendita, interesse, prezzo, commercio, valore
costituiscono alcuni degli elementi di questa positività. Ma
certamente nulla hanno a che fare con essa i concetti di lavoro o produzione,
per come l'economia della società industriale li intese più
tardi. Nel XVI secolo era l'oro deputato a rivestire la funzione di segno
per eccellenza della ricchezza e ad essere scambiato con qualunque cosa avesse
un prezzo. Nel XVII è la moneta a diventare misura dello scambio; ad
essa vengono ancora attribuite le tre caratteristiche che aveva l'oro, ma
molto più importante diventa la funzione di scambio, ossia la capacità
di sostituirsi a ciò che ha un prezzo. È l'epoca del cosiddetto
mercantilismo, in cui si stabilisce "[...] un'articolazione riflessa
che fa della moneta lo strumento di rappresentazioni e di analisi delle ricchezze
e viceversa fa delle ricchezze il contenuto rappresentato dalla moneta."
(Foucault)
Il valore della moneta non è più dato dal metallo con cui è
coniata ma dal fatto di essere segno stimativo, di poter quantificare in un
numero le ricchezze, quindi di rappresentarle. La moneta inoltre può
circolare con facilità e sono proprio circolazione e scambio a definirne
il rapporto con la ricchezza; in tal modo i beni acquistano la fluidità
necessaria per moltiplicarsi ed aumentare le ricchezze, così come,
parallelamente, moltiplicandosi le specie di moneta in circolazione si attirano
nuove merci, si organizzano nuove colture, si accresce il numero delle fabbriche.
Linfa vitale del complessivo sistema degli scambi, la moneta non abbandona
il metallo come origine ineguagliabile del suo valore (lasciando inalterata
la sua qualità di elemento di ricchezza perfettamente confrontabile)
e lo trasforma in utile strumento di un'economia che sa rendersi duttile alle
mutate condizioni sociali e culturali.
Le ricchezze, alla stessa stregua del campo delle rappresentazioni secondo
Foucault, hanno adesso il potere di scambiarsi, di articolare un sistema di
riferimento reciproco, di guardare da se stesse dentro alla positività
che le rende possibili, esistenti, analizzando le proprie parti e le loro
relazioni, stabilendo un sistema di segni e un quadro di identità e
differenze. L'uomo dell'età classica non pensa più la realtà
che lo circonda in termini di somiglianza, come avrebbe fatto soltanto cento
anni prima quando la realtà era colta attraverso la similitudine e
lo spazio della parola opponeva significato a significato. La rappresentazione
governa incontrastata e dà forma ad un modo di esistere e di pensare
che certo esclude dall'universo mentale dell'epoca qualsiasi idea che abbia
a che fare, anche lontanamente, con le serie meticolose ed ordinate di concetti
che danno corpo alla nostra realtà contemporanea, sia essa riferita
agli oggetti materiali od alle elaborazioni del pensiero.
La rottura epistemologica successiva, quella che inaugura lo spazio
storico del mondo che ancora appartiene, pur nella diversità che ci
separa dall'origine in quell'ormai lontano inizio del secolo che conobbe l'elettricità,
alla nostra esperienza, segna l'avvento di nuove forme del vivere, del morire,
dell'amare e del lavorare. Le disposizioni di sapere della civiltà
industriale subiscono una torsione che oscura rapidamente il territorio strenuamente
occupato dalla rappresentazione, griglia interpretativa, come si è
detto, di tutto un mondo.
Ciò che cambia, alla svolta che apre il XIX secolo, è il sapere
stesso in quanto unità indivisa, modo d'essere, fra il soggetto che
conosce e l'oggetto della conoscenza. Alla figura dello scambio, criterio
di analisi largamente condiviso dagli economisti dell'epoca precedente, si
sostituisce una nuova categoria interpretativa che meglio si adatta ai processi
in lenta formazione in quel periodo, quella di produzione. La produzione organizza,
nel suo ruolo specifico di pratica nel campo del sapere, l'oggetto che costituirà
il terreno della sua esistenza e della sua stessa pertinenza: il capitale;
e certo non soltanto quello, ma anche nuovi metodi e nuovi concetti (per l'appunto,
ad esempio, l'analisi delle forme che la rendono possibile). Concetto e metodo
allo stesso tempo dell'ingranaggio produttivo, modo dell'agire di tutti, della
società intera e criterio di pensabilità della meccanica
capitalista, è il lavoro. Esso è la vera forza della nuova analisi
del sistema di produzione (non più analisi delle ricchezze fondata
sul commercio e lo scambio regolato dal baratto) e la teoria della produzione,
adesso, precederà sempre, necessariamente, quella della circolazione.
La produzione si presenta così come una serie lineare ed omogenea che
attraversa la griglia del sapere intrinseca al nuovo secolo e che si costituisce
proprio sul concetto di lavoro. A questo punto esiste uno specifico correlato
antropologico, se riesco con questo termine a dar ragione dell'essere umano
nella sua totalità, nel senso che la differenza che si manifesta visibilmente
nell'uomo del XIX secolo, l'homo oeconomicus che noi siamo a tutt'oggi,
è quella di vivere ormai nella continua imminenza di una morte continuamente
paventata e sempre fuggita, in un'atmosfera psicologica nella quale i bisogni
non sono più rappresentati, né gli oggetti che li possono soddisfare.
Sfuggire al proprio inevitabile destino in quanto essere finiti e la coscienza
di questa finitudine cambia radicalmente il modo di rapportarsi alla realtà
e, di conseguenza, anche di provvedere al sostentamento di se stessi. I bisogni
e i desideri vengono riferiti ad una sfera soggettiva che diventa ben presto
oggetto della psicologia, disciplina che non casualmente nasce quasi nel medesimo
periodo e che autonomamente articolerà un suo discorso sull'uomo; più
tardi, questo discorso cercherà e cerca ancora di attribuirsi uno statuto
scientifico che ne garantisca la legittimità, la possibilità
di esistere per sé. Dall'altra parte, la produzione come sistema
globale di interpretare il mondo, reticolo di forze e di potere che progressivamente
fa del capitale la migliore combinazione possibile nel gioco dei rapporti
economici.
Con l'avvento della società industriale, dunque, il lavoro diventa
la condizione indispensabile per sopravvivere in un ambiente che ne riproduce
continuamente l'idea, non solo oggettivamente (necessità ineludibile
di sostentare il corpo) ma anche psicologicamente (l'unico discorso pronunciabile
sarà quello del lavoro e sul lavoro). D'ora in avanti si potrà
iniziare a dar luogo allo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, a costruire meticolosamente
un meccanismo verticale, autoritario e repressivo (quando occorre ricorrendo
alla violenza fisica per appianare qualsiasi controversia altrimenti irrisolvibile)
che in maniera scientifica adatta un'intera cultura alla propria persistenza.
Questo è potuto avvenire combinando assieme una serie ben precisa di
elementi che la ricognizione storica, non più accettabile se espressione
di quel potere del capitale, può aiutare a far emergere, disarticolando
con pazienza le strutture del dominio. È vero, in sostanza, per abusare
ancora una volta di Marx, che l'economia sta alla base della comprensione
del mondo attuale, ma non devono sfuggire quelle altre parti del campo discorsivo
della nostra modernità che sono parte integrante del sistema di potere
e di cui si smarrisce il reale significato.
La prigione, il suo concretizzarsi come forma specifica della punizione-riabilitazione,
i suoi rapporti con il sistema giuridico, con la penalità costituiscono
una di quegli aspetti essenziali delle strategie di potere in Occidente. Le
modificazioni, lente ma altrettanto precise e meticolose, di un modo di punire
che riprende lo schema classsico dell'internamento piegandolo alle mutate
esigenze di una società in trasformazione, raccolgono nel loro dispiegarsi
elementi che provengono da luoghi differenti del campo di sapere occidentale
tra XVIII e XIX secolo. Perché, ad un certo punto, i codici moderni
avanzano la singolare pretesa di rinchiudere per correggere? Perché
lo spazio della penalità è occupato nel breve volgere di neanche
cinquant'anni dal modello dell'imprigionamento?
Quale modello sociale prefiguravano i riformatori del '700 quando chiedevano
misure di coercizione contro il criminale, il delinquente, il deviante che
fossero improntate alla dolcezza della pena e non più allo splendore
del supplizio?
Variazioni
La storia non è una linea continua. In certa storiografia le discontinuità
appaiono come eventi singolari senza alcun significato, se pure si riesce
a vederle. Al contrario le rotture improvvise, i salti danno conto di eventi
che riprendono in se stessi, continuamente, la forma della cesura piuttosto
che quella dell'omogeneità. Così la narrazione procede lungo
il filo distinguibile degli eventi clamorosi: quasi mai lungo i frastagliati
crinali degli avvenimenti meno visibili ma altrettanto importanti.
Le trasformazioni succedutesi nell'arco di alcuni secoli per ciò che
attiene alla storia della criminalità, o cosiddetta tale, e del correlativo
approntamento di tutta una serie di misure repressive atte a contenerne gli
effetti nel sistema sociale è un buon esempio di questa tendenza a soffermarsi
essenzialmente sui tratti peculiarmente visibili dei fatti senza posare lo sguardo,
ove sia possibile, su ciò che molto spesso sta appena dietro a quei fatti.
Nonostante gli studi quantitativi, peraltro ricchissimi, a cui oggi ci si
può rivolgere, che collegano l'incidenza del crimine ai movimenti demografici,
all'andamento dei raccolti e quant'altro, si ripropone, come segnala Michael
Weisser in Crime and Punishment in Early Modern Europe, negli studi
moderni sulla criminalità un pregiudizio presente anche nelle precedenti
opere al riguardo: e cioè la considerazione del crimine essenzialmente
come una forma di comportamento aberrante. Questo approccio utilizza la documentazione
relativa ai crimini per lo studio della crisi sociale e l'attività
criminosa diventa oggetto di un'indagine più generale sui problemi
e sulle tensioni sociali. Naturalmente questo punto di vista incide anche
sulla visione storica dei criminali: una volta scomparse le condizioni che
avevano spinto al crimine, ognuno ritornerà a forme legali di attività.
Il comportamento criminoso è dunque una reazione a tutto un insieme
di circostanze esterne. Indubbiamente molti individui commettono reati, gravi
e meno gravi, sulla base di pressioni sociali irriducibili che li spingono
all'atto illegale e che vanno ben oltre la portata della loro comprensione
ed è certo che molti tipi di attività erano definiti illegali
per criminalizzare alcune abitudini dei poveri in vista di una disciplina
di lavoro che andava coattivamente estesa ovunque fosse possibilie. Tuttavia,
in una prospettiva di tal genere il problema del crimine resta ancora mascherato
da fattori considerati più importanti, da un giudizio, sostiene Weisser,
che si basa su ragioni di conoscenza storica o politica moderne e non su elementi
che hanno a che fare col contesto specifico dei crimini.
Paradossalmente, le implicazioni di questo rovesciamento di prospettiva nella
disamina del fenomeno criminale conducono ben oltre i parametri consueti del
dibattito storico. Il crimine può essere infatti considerato non soltanto
un sintomo di malessere sociale ma anche come un indice di sviluppo. Analizzarlo
nel suo contesto sociale diventa un imperativo ineludibile proprio nel momento
in cui è la società stessa a determinare ex post quali
sono i comportamenti che vanno considerati criminosi e la definizione legale
dell'atto criminoso ha spesso poco a che fare con la sostanza reale dell'evento.
Nel caso della società disciplinare, perlomeno così come essa
si delinea a partire dal XVIII secolo, questo ragionamento è ancora
più valido. Di contro alla disciplina-blocco del sovrano, che immobilizza
il colpevole in una serie di rituali negativi - fermare il male, rompere le
comunicazioni, distruggere il corpo del reo - si costituisce lentamente la
disciplina-meccanismo che si scompone in procedimenti flessibili di controllo,
in tecniche dell'assoggettamento che diventano funzioni produttive
nel nuovo regime di potere. La presenza di crimini e criminali assume una
valenza immediatamente positiva, costitutiva di realtà di dominio,
elemento appunto dello sviluppo di un sistema giuridico che crea da solo i
termini dell'opposizione a se stesso. Sullo sfondo, l'assunzione del concetto
di lavoro, come si è visto, in quanto ragione costituente del modo
di percepire il mondo (meglio, unica ragione costituente) stabilisce immediatamente
il confine tra lecito ed illecito, la soglia tra normalità e devianza.
Da una parte dunque il comportamento criminoso ed i suoi infaticabili protagonisti,
dall'altra il sistema della punizione e della pena. Nella lunga storia del sistema
economico-culturale dell'Occidente bisogna cominciare a cogliere alcune delle
variazioni fondamentali nella sua complessa evoluzione.
Crimini e criminali
La realtà materiale e sociale nel Medioevo era quella dell'isolamento,
un fattore determinante anche delle attività umane, crimine compreso.
Le condizioni del lavoro e della produzione, che variavano sostanzialmente a
seconda dell'importanza del centro urbano che concentrava in sé il maggior
numero di attività localmente produttive, oscillavano sulla base delle
ondate di immigrazione che spopolavano le campagne in miseria o della minor
domanda di merci che sconvolgeva un ciclo commerciale. Le attività criminose
diventavano il mezzo di sopravvivenza nei periodi di concorrenza sul lavoro
e per il lavoro.
Il furto, come sarebbe accaduto anche in epoche successive, restava il crimine
più diffuso specialmente nelle grandi città, dove masse di poveri
affluivano cercando, in mancanza di meglio, un modo rapido per sbarcare il
lunario ai danni dei ricchi commercianti e possidenti. La violenza, al contrario,
sembrava essere l'unico modo adottato dalle classi elevate per risolvere le
controversie spesso indotte da pretesti politici che scatenavano lunghe e
sanguinose guerre. Ma era soprattutto il crimine sessuale ad essere maggiormente
rappresentativo delle elites urbane. Violenza e stupro erano tuttavia
mal tollerate in una società ancora fondata su matrimonio ed eredità.
Punizioni esemplari venivano comminate ai colpevoli, se non altro per spegnere
la sete di giustizia dei poveri ed offrire grandi spettacoli pubblici di carattere
liberatorio per le masse degli indigenti.
Anche nel mondo rurale, a causa delle condizioni di vita e delle necessità
della produzione, il furto (questa volta di attrezzi agricoli, cibo, semplice
vestiario per resistere agli inverni più duri) continuava ad essere il
crimine più largamente praticato. Si trattava, in questo caso, di un'attività
intraclassista più che interclassista come accadeva nelle città
e rimaneva rigorosamente limitata al piccolo villaggio escluso dai grandi circuiti
di comunicazione o troppo lontano dai centri urbani per risentirne degli effetti
economici.
Un altro reato diffuso era l'aggressione, caratteristica sia degli strati più
poveri che di quelli benestanti della comunità rurale: perlopiù
crimini individuali che soltanto più tardi si espressero nella violenza
di bande organizzate già da tempo operanti nelle città. Aggressioni
od anche semplici offese, come testimoniano molti documenti d'archivio, erano
più spesso portati all'attenzione della giustizia dai ricchi che potendosi
avvalere del sistema allora in uso del patteggiamento in denaro temevano certamente
meno la sanzione che poteva essere stabilita per il singolo reato. La distinzione
tra città e campagna è ancora nettamente delineata e la totale
assenza di una giustizia centralizzata in grado di stabilire un sistema omogeneo
di riconoscimento dei reati e di comminazione della pena ripropone ancora un
mondo violentemente lacerato da conflitti che oppongono individuo ad individuo.
Più tardi, a metà del '400, la prima grande crescita demografica
sconvolge gli assetti economici europei (anche se in percentuale l'incremento
sarebbe stato molto più sensibile dopo l'espansione successiva al 1750).
In aggiunta a ciò si verifica nello stesso periodo una enorme mobilità
della popolazione che, trasferendosi dalle campagne nelle città, sconvolge
completamente gli agglomerati urbani dei grandi centri. Nel settore rurale i
cambiamenti sono radicali: un allargamento del divario tra contadini ricchi
e poveri nel corso del XVI secolo diventa evidente. Le manifatture tessili sorte
nelle zone rurali contribuiscono ad indirizzare molta manodopera verso attività
che non hanno più nulla a che vedere con l'agricoltura tradizionale.
Edilizia, concerie di pelli, approvvigionamento alimentare stabiliscono in breve
tutta una rete di servizi che sorgono intorno al nuovo modello pre-industriale:
fiere commerciali con relativi mercanti e fornitori ambulanti sono il prodotto
della commercializzazione della campagna. Contemporaneamente gli imprenditori
urbani invadono i nuovi fiorenti mercati con le loro materie prime nel tentativo
di sfruttare la manodopera contadina infinitamente meno costosa di quella di
città ancora in mano alle corporazioni dei mestieri. A ciò corrisponde
un aumento dei crimini nel settore rurale in particolare dopo la seconda metà
del '500. La natura criminosa comincia a delinearsi come espressione dei conflitti
di classe ed i reati commessi, di nuovo essenzialmente furti, si verificano
in contesti sociali ben determinati. Le brusche impennate dei prezzi, l'assoluta
instabilità dell'economia, espansioni e crisi improvvise del mercato
creano scompensi traumatici per la popolazione dei lavoratori.
Il furto diventa una pratica costante delle classi inferiori nelle campagne.
Il livello di recidività lo caratterizza come elemento di un vero e proprio
disagio sociale in una fase schiettamente pre-capitalista. Ad un certo momento,
tuttavia, esso comincia ad assumere una connotazione diversa; si cominciano
a rubare articoli di lusso oltre agli oggetti classici di un'economia contadina.
Questo fatto implica immediatamente una considerazione ovvia, e cioè
che il ladro doveva certamente disporre di buoni contatti con la città
per poter rivendere refurtiva di un certo tipo e valore. A sua volta ciò
dimostra quanto il borgo fosse inserito in una rete agevolata di contatti e
commerci con la città. Il risultato di questa capacità di utilizzare
canali esterni di comunicazione fu che il furto non era più attività
interna ad una classe. Nell'Europa rurale il crimine si trasforma: l'interclassismo
produce un rapido mutamento nel tessuto di una società che sta cambiando
le strategie stesse del suo esistere nel mentre cambiano anche le forme della
devianza, la sua disposizione tattica, gli effetti della sua contrapposizione
alla legalità del potere.
Cosa stava accadendo, contemporaneamente, nelle città? La criminalità
urbana continuava a fare del furto un uso continuato e redditizio, anche se
ad esso si era aggiunta la rapina con aggressione in tutte le sue varianti.
Le strade del territorio cittadino erano diventate pressoché impraticabili
e qualunque ora della giornata era buona per l'esecuzione dell'atto criminoso:
la sicurezza non esisteva più. È il periodo in cui si sviluppa
un'altra più sottile forma di furto, la truffa, che garantisce l'accaparramento
di notevoli quantità di denaro senza violare il domicilio (attorno al
fenomeno fiorì addirittura un'intera letteratura che si espresse, ad
esempio, nel genere picaresco).
Le ballate o i romanzi che narravano le gesta dei picari erano in realtà
la denuncia, abbastanza precisa, e la critica dell'evoluzione culturale ed
economica della società europea immediatamente a ridosso del Medioevo.
La criminalità urbana si trasforma in gruppo organizzato, banda, malavita.
L'esistenza di quartieri popolati da ogni sorta di ladri e canaglie era in
parte il risultato di una politica pubblica che li tollerava ampiamente. E
che tollerava, in particolare, i quartieri più poveri ben presto luogo
di mercificazione del corpo. Prostituzione e vizio convivevano col mondo dell'istituzione.
La contiguità tra lecito ed illecito si spiega con i vantaggi economici
che una tale situazione offriva. La consapevolezza diffusa era che certamente
le continue richieste di manodopera producevano forme nuove di illegalità
che non potevano essere eliminate finché quelle richieste continuavano.
Se l'alternativa alla pressante domanda di braccia per il lavoro pesante era
talvolta l'offerta di piacere sessuale a buon mercato, allora esisteva un motivo
in più per tollerare un'attività di quel tipo. Le ragioni del
controllo sociale venivano comunque fatte salve.
Nel XVI e XVII secolo cominciano ad affermarsi sistemi moderni di giustizia
penale, assai diversi da quelli che conoscerà l'ottocento ma certo radicalmente
nuovi rispetto ai medievali.
Il problema era diventato, mai come in precedenza, il carattere di classe della
criminalità, elemento contingente alla definizione ormai indispensabile
di ceto inferiore. L'ordine sociale si sentiva irrimediabilmente minacciato
da una frattura che era in realtà il risultato dei suoi stessi mutamenti.
Tutto cambiava rapidamente: la piccola comunità feudale, in quanto struttura
politica circoscritta e frammentata, e in quanto nucleo sociale isolata da un
contesto generale, era scomparsa. Lo Stato nazionale incalzava. Era dunque necessario
trasformare la giustizia penale da affare privato in questione pubblica.
Nel XVI secolo sono due gli eventi di rilievo che caratterizzano il sistema
della giustizia: la diversa articolazione dell'azione penale e la promulgazione
di nuovi codici. È il momento in cui, in particolare nei paesi anglosassoni,
si costituisce la figura del giudice di pace, incaricato dalla corona all'applicazione
della legge. In un primo tempo semplice investigatore che vagliava la veridicità
delle accuse e rappresentava il re, il giudice di pace rapidamente sposta l'asse
del suo intervento sulla verifica della liceità delle condanne, assumendo
il pieno controllo della procedura penale. Quando si moltiplica la normativa
che disciplina il lavoro in tutti i suoi aspetti e che sostituisce la tradizione
con la costrizione legale nella regolazione di domanda e offerta, i nuovi rappresentanti
della legge svolgono un ruolo cruciale a garanzia del suo rispetto. Il diritto
penale si impone come misura di una serie di rapporti sociali.
Nel continente i poteri affidati al pubblico accusatore non furono così
ampi come quelli del giudice di pace inglese anche se in sostanza lo sviluppo
fu analogo. I codici di procedura penale rinnovati compaiono in Europa attorno
alla prima metà del XVI secolo; in quelli inglesi i criteri adottati
avrebbero condotto il sistema giudiziario dell'isola verso cambiamenti assai
diversi da quelli prodotti dai codici continentali e tuttavia in entrambi i
casi si pervenne sostanzialmente all'identico risultato dell'affermazione trionfale
del diritto pubblico ed alla istituzionalizzazione della moderna procedura penale.
L'insieme delle norme che puniscono i crimini diventa a poco a poco un aspetto
dell'autorità dello Stato e il risultato immediato di tale evoluzione
fu una revisione della definizione di crimine, un aumento degli statuti ed un
inasprimento generale della pena. La relativa mitezza della pena durante il
periodo feudale era conseguente alla funzione che essa aveva di risolvere essenzialmente
controversie tra uguali, anziché limitarsi a punire la parte giudicata
colpevole. Ma il carattere pubblico del nuovo diritto fa sì che la pena
assuma un significato diverso; la questione adesso è la punizione esemplare
del criminale. Ricompaiono subito le pene corporali, le esecuzioni in piazza,
cruentissime, si moltiplicano; la tortura diventa prassi comune.
La spinta a pene più severe fu certamente il segno dell'evidente carattere
di classe dei crimini e del loro costante aumento. Bisognava arginare in qualche
modo il dilagare della delinquenza, ma soprattutto fare qualcosa per impedire
che i ricchi diventassero sempre più oggetto delle rapine e delle vendette
dei poveri. La pena corporale è il mezzo idoneo a creare la deterrenza
necessaria: va seminato il terrore in quella fascia di popolazione che si
organizzava per rovesciare il rapporto di subordinazione secolarmente sancito
tra ceto dominante e ceto dominato. È così che la pena assume
una connotazione di classe; sanzioni pecuniarie vengono previste sempre più
spesso per coloro che in effetti potevano pagarle, liberandosi dall'onere
della punizione. Progressivamente si escludono dalle giurie i meno abbienti
e il sistema penale si avvia ad essere strumento di controllo di una classe
sul disordine dell'altra. Tale sviluppo raggiunge il punto massimo di razionalizzazione
con l'approntamento della legislazione sui poveri, le cosiddette poor laws
promulgate in Europa nella prima meta del '500.
Questo insieme di norme stabilisce un riassetto fondamentale delle strategie
di dominio elaborate dal sistema di potere occidentale. Le motivazioni che spinsero ad occuparsi
in maniera organica dei poveri, affrontandone il problema
dal punto vista sociale complessivo, furono molteplici. Il carattere religioso
di una serie di considerazioni sulla sorte delle masse di straccioni e mendicanti
che vagavano senza meta in città e campagne rifletteva certamente le
politiche sociali di alcune sette cattoliche e protestanti, ben disposte a
coniugare un atteggiamento caritatevole con una sostanziale preoccupazione
di ordine economico come ampiamente dimostrerà l'uso che di quei disgraziati
si sarebbe poi fatto nelle nascenti industrie manifatturiere. Il mercantilismo,
in secondo luogo, parallelamente alla nascita dello Stato nazionale, riaffermava
le sue esigenze di riordino sociale di una vasta area di possibile manodopera.
Ritrovare in mezzo a loro una massa indistinta e pericolosa di donne e uomini
che sfuggivano a qualsiasi autorità, fu per i ceti ricchi occasione
di riflessione, se non altro per i costi altissimi che la mendicità
produceva. La tradizione medievale aveva risolto la questione del pauperismo
con l'imposizione religiosa della distribuzione dell'elemosina, giustificando
l'esistenza dell'accattonaggio con l'esigenza delle buone opere di carità.
Ma nel mutare dei tempi un numero così elevato di individui completamente
improduttivi che ne generavano di continuo altri non poteva non costituire
una difficoltà seria, anche in termini di ordine pubblico. La precarietà
dei salari, i cicli instabili del mercato del lavoro, le carestie e le pestilenze
che affliggevano l'Europa di quegli anni imponevano perlomeno un tentativo di soluzione
. Si provvide immediatamente ad impedire la convergenza di troppi
poveri nei centri urbani, arginando il flusso ininterrotto che portava molti
di loro dalle campagne alle città alla disperata ricerca di una qualche
forma di sopravvivenza. Era necessario mettere in opera alcuni provvedimenti
coercitivi che circoscrivessero i movimenti della popolazione indigente: si
abolì, per prima cosa, la distinzione tra poveri meritevoli e non meritevoli,
affrontando il problema dal punto di vista del movimento e del luogo d'intervento.
Mendicità e vagabondaggio furono immediatamente equiparate diventando
un reato molto grave; in tal modo fu possibile impiegare la giustizia penale
nell'intervento normalizzatore su una povertà ridotta ormai a reato.
Le poor laws furono in sostanza una parte importante della legislazione
di classe ed approntarono un formidabile strumento di controllo sociale che
si inserì perfettamente nel più generale sistema del diritto
penale. Spazzati via gli ultimi resti del diritto feudale, la nuova giustizia
poté definire crimine e criminali in termini di distinzione e conflitto
di classe. Il diritto penale, ormai apparato pubblico sotto ogni profilo,
poteva essere utilizzato come vero e proprio strumento di una politica sociale
che, dal quel momento in poi, contava sull'approntamento di un'intera strategia
di sanzioni per controllare le classi inferiori.
Ad inizio '700 comincia a delinearsi lentamente il modello industriale. L'urbanizzazione
incrementa la classe povera e quella fascia di popolazione che Marx avrebbe
chiamato Lümpenproletariat, uno strato sociale impermeabile e
refrattario alle richieste del mercato. Il crimine diventa in breve l'unico
mezzo di sussistenza per questo folto gruppo di emarginati che finisce per
considerarlo vero e proprio sistema di vita.
Il progressivo declino delle forme produttive pre-industriali, la commercializzazione
dell'agricoltura, l'aumento enorme del commercio regionale, nazionale e internazionale,
il passaggio dalla bottega alla manifattura decreta la scomparsa della precedente
divisione sociale mercanti-commercianti-settore dei servizi. La partizione fondamentale
diventa quella tra borghesia e classi lavoratrici.
Nelle campagne l'agricoltura di sussistenza viene sostituita da sistemi agricoli
commerciali. I mercati regionali e nazionali sono in effetti il prodotto della
progressiva recinzione delle terre, di una produzione agricola più specializzata
e dello sviluppo di industrie di base. Il risultato di questi nuovi cicli dell'economia
è una netta ed irrevocabile distinzione tra proprietari terrieri e lavoratori
senza terra. Un terzo elemento influenzò l'andamento del fenomeno criminale
in Europa: la politica dei nuovi Stati nazionali che si espresse per lungo periodo
nell'approntamento di interminabili e sanguinose guerre. I conflitti quasi ininterrotti
diedero luogo alla formazione di eserciti permanenti e la mobilitazione militare
incise profondamente sui livelli del crimine con aspetti diversi: per prima
cosa i costi delle guerre che gravavano pesantemente sulla popolazione. Gli
stessi approvvigionamenti delle truppe consistevano nel dirottamento dei prodotti
dei mercati interni all'esercito. L'inevitabile inflazione che ne conseguiva
era impressionante e colpiva direttamente le classi più povere. Inoltre
blocchi ed embarghi di varia natura imposti dalle condizioni dei conflitti scatenati
privavano le classi inferiori dei prodotti necessari al minimo sostentamento,
degenerando nel crollo del commercio e nell'inevitabile crescita dei disoccupati.
E ancora, alla fine della guerra il rientro in patria dei soldati ansiosi di
tornare al loro originario lavoro creava disagi insormontabili. Per un uomo
abituato a combattere il passaggio alla condizione di criminale si rivelava,
a quel punto, più facile del previsto, in special modo quando ne andava
della propria sopravvivenza materiale.
La tipologia criminale rivela caratteristiche tradizionali accanto ad elementi
nuovi. Una continuità cruciale era data dalla prevalenza delle varie
forme di furto, di un reato, quindi, comunque legato alla proprietà.
Il brigantaggio restava il mezzo più rapido e sicuro per procurarsi denaro
o derrate alimentari e nell'ultima fase dell'età moderna subì
alcuni importanti cambiamenti che vale la pena di segnalare. Nelle regioni della
Champagne francese le bande di briganti erano composte da lavoratori stagionali
a giornata che, al termine dei raccolti, non potendo trovare altri mezzi di
sopravvivenza sbarcavano il lunario dedicandosi ad attività illecite.
Le bande organizzate, conseguenza del passaggio da un'agricoltura di sussistenza
ad un'agricoltura commerciale, scoprirono in fretta che era possibile partecipare
al ciclo economico-produttivo rischiando dal punto di vista penale il minimo
indispensabile con l'attivazione di una rete clandestina di commerci che ebbe
grande fortuna: il contrabbando. Con l'aiuto di molti imprenditori che vi lucravano
ampiamente il contrabbando divenne pratica diffusa nei ceti popolari ed in breve
si impose in tutta Europa come economia sommersa che consentiva un enorme volume
d'affari ed una circolazione consistente di capitale sul quale lo Stato non
riusciva ad avere alcun controllo. Artigiani e piccoli agricoltori travolti
dai grandi cambiamenti del ciclo produttivo furono presto abilissimi contrabbandieri
di merci e reagirono alle imposizioni tributarie vessatorie dei governi.
Anche nei centri urbani, pur in misura minore, il furto restava il crimine prevalente.
Esso, tuttavia, si andava organizzando in maniera completamente diversa dal
passato. Si rubavano vestiti, oggetti di valore, denaro e per rivenderli fu
necessario attivare una catena di complicità successive che portò
alla rapida costituzione di un traffico illecito articolatissimo. La formazione
di una criminalità organizzata in grado di controllare lo smercio della
refurtiva venne di conseguenza.
La città nel '700 subisce mutamenti consistenti. Il mercato delle merci
rubate getta le basi per una floridezza economica di quella criminalità
ormai padrona assoluta del territorio urbano. Accanto ed attorno ad essa si
sviluppano altre situazioni ai margini della legalità: aumento vertiginoso
della prostituzione, scippi e borseggi compiuti da quella fascia cittadina di
disperati che a malapena sopravvivono tra gli stenti e che sono esclusi anche
dai grandi circuiti del crimine.
Nel corso del XVIII secolo la quantità di merci prodotte da un'economia
in espansione cresce senza sosta e l'accumulazione da parte di pochi grava sui
molti. Il commercio d'oltremare crea grandi fortune. Alla proliferazione di
prodotti industriali e commerciali fa riscontro l'acquisto di articoli di lusso
come vestiario ed arredamenti che incrementano il prestigio e la potenza delle
classi abbienti. Grande ricchezza e grande povertà contraggono un legame
indissolubile proprio attraverso il crimine che costituisce il limite tra il
possibile e l'impossibile, tra l'avere e il non avere.
Tra fine settecento ed inizio ottocento i fattori che avevano contribuito a
far crescere la criminalità acquistarono forza. La dimensione delle città
aumentava di giorno in giorno e i nuclei urbani industriali in particolare offrivano
spettacoli sconsolanti di povertà, degrado e sporcizia, specialmente
nei quartieri operai. In questo contesto la graduale separazione tra i poveri
e quelli che il sistema sociale aveva chiamato Lümpen, rendendoli assolutamente
inutili ed improduttivi, divenne irrimediabile. Appartenevano a quest'ultima
categoria di emarginati tutti coloro che erano stati spazzati via impietosamente
dalla nascente società industriale perché non più collocabili
in alcuna mansione specifica. Essi entrarono automaticamente a far parte dell'esercito
di vagabondi che viveva in modo irregolare senza nessuna intenzione di procacciarsi
lavoro salariato come via d'uscita ad un'esistenza ai limiti dell'umano. I Lümpen
vengono presto impiegati proprio dai piccoli commercianti e negozianti che nei
quartieri operai prosperavano imponendo la loro economia di mercato caratterizzata
da prezzi altissimi e da ogni sorta di ruberie immaginabili. Il proletariato
operaio era dunque circondato da questo manipolo di nullafacenti che avevano
tutto il tempo, contrariamente a chi era sottoposto alla disciplina di fabbrica,
di impossessarsi della geografia del quartiere e del controllo dei suoi abitanti.
In Inghilterra e nel continente, come riportano i dati d'archivio, nel secondo
decennio del XIX secolo i furti erano commessi soprattutto ai danni degli strati
sociali più poveri.
Intere zone delle città cominciano a popolarsi esclusivamente di malfattori
e delinquenti di ogni specie: il crimine diventa una professione. Si moltiplicano
le aggressioni a scopo di rapina ed il furto con violenza. La società
dell'epoca viene investita dal problema in tutta la sua drammaticità
e reagisce in modi a volte opposti; da un lato una parte dell'opinione pubblica
giustificava i crimini compiuti a causa della assoluta povertà dai
cosiddetti delinquenti abituali; dall'altro l'intellettualità borghese,
i moralizzatori instancabili preferivano riesumare i concetti delle antiche
dottrine per affrontare la questione. Nel seicento criminali erano considerati
coloro che manifestavano il degrado della comunità urbana a cui si
opponeva la moralità dell'onesto e retto mondo rurale. Questa tradizione
viene ripresa in qualche modo dalla nascente società industriale e
riadattata alle nuove condizioni. Il punto di torsione, e non poteva che essere
così nell'economia capitalista, è l'idea di lavoro; così
l'onesto lavoratore diventa (deve diventare) la rappresentazione morale per
eccellenza dell'homo oeconomicus duttile al potere dell'industria che
nella fabbrica esprime il suo modello disciplinare di organizzazione.
Nella stessa epoca si fa avanti un'altra concezione del crimine destinata a
regolare con sempre maggior attenzione le strategie del dominio di classe. Si
cominciano a cancellare le distinzioni tra povero che lavora, quale era in effetti
l'operaio, e povero criminale per circoscrivere le agitazioni politiche di massa
che riconoscono se stesse come classe operaia dotata di un certo potere contrattuale.
La politicizzazione del ceto dei lavoratori salariati sfida apertamente la borghesia
e la sua egemonia politica negando la legge e l'ordine. Fu abbastanza semplice
per il sistema normativo borghese additare la classe operaia come pericolo per
la stabilità dell'intero sistema sociale e considerare violenza politica
e crimine una cosa sola. Se problema c'era, si trasformava adesso esclusivamente
in esigenza di controllo e disciplina; crimine individuale e politico nascevano
entrambi dal rifiuto di legge ed autorità, sdoppiando la funzione originaria
della criminalità: da una parte i lavoratori con i loro reati politici,
dall'altra i non lavoratori con i loro reati personali. Più che mai si
rendeva necessario l'approntamento di un metodo efficace per neutralizzarli.
La società europea del XIX secolo si trova dinanzi ad una violenza politica
che ha assunto delle schiette connotazioni di classe e che la differenzia completamente
dalle forme in cui era pur esistita in epoca precedente. A questo, come abbiamo
visto, si aggiungeva la persistenza della criminalità comune che andava
ugualmente repressa. Una volta ridotta la distanza al minimo tra i due tipi
di reato era urgente un intervento più articolato. Quell'intervento fu
la costituzione dei corpi di polizia.
Nel 1797 Patrick Colquhoun diede alle stampe un libro che divenne presto famoso,
Treatise on the Police of the Metropolis, e conobbe ben sette edizioni
in dieci anni. Esso apriva un territorio inesplorato: l'autore sosteneva che
la presenza di un corpo di polizia organizzato non avrebbe recato alcuna minaccia
alle libertà individuali, fatto questo che le classi al potere ebbero
modo di riconoscere presto. Sul piano amministrativo la proposta di Colquhoun
andava nel senso di una completa separazione tra polizia e magistratura; quest'ultima
casomai avrebbe controllato l'operato della prima. Dal lato del crimine, invece,
alla polizia sarebbe stato demandato il compito specifico di istituire un
servizio di informazione, un archivio dei criminali conosciuti ed addirittura
la pubblicazione di un bollettino per informare il pubblico intorno agli avvenimenti
criminosi ed alla loro investigazione. Per dimostrare la validità delle
sue teorie Colquhoun stesso creò un corpo di polizia fluviale, interamente
sovvenzionato dai mercanti londinesi, che in breve tempo ottenne un grande
successo nella repressione dei furti grandi e piccoli compiuti sui moli del
Tamigi. In dieci anni la città di Londra poté contare su un
corpo pubblico di polizia in grado di controllare con discreta efficienza
il mondo del crimine. La sua capacità di far fronte anche ai disordini
politici cresceva inoltre di pari passo all'acquisizione delle tecniche utilizzate
per il fiume. La polizia era l'organizzazione ideale per garantire la sicurezza
metropolitana nei periodi delle rivolte popolari proprio a causa dei mezzi
illegali ampiamente usati per combattere la criminalità. L'approntamento
di questa serie di strategie coercitive e di controllo, esemplarmente disciplinari,
disvelano in maniera inequivocabile i contorni di un sistema sociale in cui
l'ordine e il rispetto della legalità voluti dai codici borghesi dovevano
prevalere ad ogni costo. Nonostante il successo dei neonati corpi di polizia
si dovrà attendere la metà del XIX secolo per la loro definitiva
stabilizzazione nel panorama socio-politico e la moderna polizia comparve
in concomitanza con lo sviluppo della pena sotto la forma del sistema dei
penitenziari. Tuttavia gli effetti disciplinari conseguenti alla comparsa
di un'organizzazione deputata esclusivamente al controllo meticoloso di ogni
aspetto della devianza politica e criminale consentirono alla società
industriale di affinare ulteriormente il modello sorveglianza-punizione fino
a renderlo indispensabile alla sopravvivenza del sistema stesso.
Si è definito il crimine in modi molto diversi tra loro nel corso della
storia dell'Occidente, ma la sua specificità è sempre stata
strettamente legata a ciò che la società pensava dei fattori
sociali che determinavano quei comportamenti criminosi. Non si è mai
temuto il crimine in sé ma i conflitti che i comportamenti criminosi
generano.
Così, quando ciclicamente i riformatori sono intervenuti a far chiaro
su questo o quell'aspetto del fenomeno, hanno riassunto uno stato di cose che
si era già verificato. Beccaria propone di abolire la pena di morte e
di riformare i codici quando pena capitale e procedure giudiziarie arcaiche
stavano ormai cadendo in disuso. Esiste, in aggiunta, una singolare coincidenza
di eventi nello sviluppo e nella trasformazione del crimine in tutta Europa
che rimanda direttamente alle variazione di un sistema complessivo di potere
colto, da questo angolo prospettico, nella sua totalità. L'Occidente
cristiano si rivela una struttura decisamente omogenea quando è investigata
come struttura di dominio.
Il rapporto tra ricchi e poveri non può che basarsi sullo sfruttamento
ed allo sfruttamento si risponde col crimine; è questo uno dei motivi
per i quali il sistema penale appare più spesso tollerante nei confronti
di chi commette reati ed in particolare nell'età moderna: la tolleranza
repressiva maschera quello sfruttamento. Un insieme di regole, di qualunque
tipo esso sia, nel nostro caso giuridiche, oltre a fare incessantemente i conti
col tessuto sociale che disciplina, si alimenta della sua stessa struttura.
La polizia ha bisogno di criminali a cui dare la caccia, le prigioni di detenuti
da incarcerare. Nell'inevitabilità dell'intero meccanismo c'è
qualcosa che va ben oltre la logica e la storia. In questo senso crimine e pena
rappresentano al massimo grado la società moderna ed il suo sviluppo.
Punizioni e pene
I metodi punitivi mutano gradualmente verso la fine del sedicesimo secolo quando
la possibilità di sfruttare il lavoro dei detenuti cominciò ad
apparire progressivamente come una possibile fonte di guadagno. Furono introdotte
la servitù sulle galere, la deportazione e il lavoro forzato: soltanto
quest'ultima forma di pena, in seguito, sarebbe giunta fino al XX secolo. Una
massa di ricchezza umana si rivela a completa disposizione di un apparato amministrativo
ben disposto ad usarne immediatamente le potenzialità economiche. Le
condizioni del mercato all'epoca, unitamente alla creazione di un sistema finanziario
in continua espansione, crearono una domanda intensa di generi di consumo costantemente
maggiore dell'offerta. Su un altro versante la crescita demografica non riusciva
più a tener dietro all'aumento improvviso delle possibilità di
occupazione; la Guerra dei Trent'anni, in particolare in Germania, causò
una vertiginosa diminuzione della popolazione che alcuni autori stimano vicina
al cinquanta per cento. In Olanda la situazione è tale che gli operai
vengono pagati con salari così alti da far abbassare lo stesso tenore
di vita dei proprietari. L'immobilità complessiva della forza lavoro
in Europa intorno alla seconda metà del '500, la mancanza di continuità
nell'offerta di lavoro e la sua ridottissima produttività provocarono
una crisi irreversibile nelle classi dei proprietari nel momento esatto in cui
l'aprirsi dei mercati e degli investimenti di capitale, uniti all'innovazione
tecnologica, non potevano contare sull'unica merce veramente indispensabile,
il lavoro. In sostanza l'emergenza riguardava l'impossibilità di rendere
produttivo il capitale e di contenere i livelli dei salari. Si tentò
di ovviare al problema con una serie di misure restrittive delle libertà
personali per far fronte ad una rarefazione di forza lavoro che stava seriamente
compromettendo la stabilità dello stesso ordine sociale.
Un altro tentativo riguardò l'incremento delle nascite; in tal modo si
sarebbe potuto sperare, nel giro di pochi anni, di aumentare effettivamente
il numero delle braccia da impiegare nella produzione. La politica degli Stati
assoluti in favore dell'industria non tralasciò alcun mezzo a sua disposizione:
dai diritti di monopolio alle restrizioni per le corporazioni, tutto un complesso
sistema di garanzie venne approntato per mettere il sistema economico moderno
in grado di svilupparsi e dare i suoi frutti. Il governo non lesinò nemmeno
i crediti che elargì con notevole generosità: questo meccanismo
del prestito fu caratterizzato, come era inevitabile, dalla ricerca di forza
lavoro a bassissimo costo per contenere le spese e la classe dirigente si impegnò
a favorire esclusivamente i datori di lavoro costringendo gli operai ad una
dipendenza con sempre minori garanzie legali ed a regolamenti di fabbrica progressivamente
più duri.
La società delle discipline approntò in breve, ed esempi da cui
prendere spunto ce n'erano attorno parecchi, dall'esercito agli ordini religiosi,
un apparato di coercizione materiale e morale che attraverso regole severe avrebbe
controllato l'attività del lavoratore. Una vita all'insegna del rispetto
dei regolamenti di fabbrica, senza svaghi eccessivi e con una giornata che toccava
punte massime di sedici ore lavorative, per esempio in Francia nel diciassettesimo
e diciottesimo secolo. L'organizzazione operaia era naturalmente vietata e i
lavoratori erano severamente puniti se chiedevano paghe più alte o anche
se, semplicemente, abbandonavano il posto di lavoro per cercare fonti più
redditizie di guadagno. Il lavoro infantile costituì un altro dei grandi
scandali dell'epoca; lo Stato si impegnò a fornire alle manifatture i
ragazzi degli orfanotrofi ed appena un bambino era utilizzabile fisicamente
si procedeva al suo impiego nella produzione. Appare chiaro che un processo
di non secondaria importanza, e cioè l'addestramento dei giovani all'industria,
dispose i suoi effetti nel processo educativo delle nuove generazioni: massimo
effetto del disciplinamento dei corpi nel rigore dello spirito. L'etica del
lavoro divenne sostanza della nuova società.
Ma la scarsità della manodopera continuava a costituire un assillo. Furono
varate misure straordinarie che oltre all'offerta di orfani all'industria consentirono
all'autorità addirittura il prelievo coatto di lavoratori, costretti
con la forza a rimpolpare gli organici delle imprese. Gli stessi soldati e le
loro famiglie poterono essere inviati obbligatoriamente presso gli opifici per
filare lino, cotone e lana ed erano a disposizione per ogni altro tipo di servizio
da rendere in fabbriche e laboratori. Un decreto del 1763, segnala Rusche, afferma
che la costruzione degli stabilimenti industriali avrebbe aiutato gli oziosi
a procurarsi da vivere, forzandoli se necessario con la detenzione nelle case
di lavoro.
Esistevano alcune categorie di persone, come mendicanti e prostitute ed in genere
coloro che esercitavano attività illegali, che lo Stato poteva meglio
controllare in termini di forza lavoro. La pubblica autorità adottò
delle politiche specifiche soprattutto con i vagabondi ed i poveri. Il trattamento
di quest'ultimi, in particolare, che abbiamo in parte già visto poco
sopra, può essere indagato anche dal punto di vista delle sue connessioni
con i cambiamenti della struttura sociale.
Il rapporto con la povertà ed il suo significato, in senso ampio, di
cultura di un'epoca intera erano stati secolarmente affare della Chiesa. L'esercizio
della carità era considerato da sempre un ineludibile dovere da parte
delle classi agiate che in tal modo potevano adempiere agli obblighi stabiliti
per il buon cristiano. Il mondo medievale faceva dell'elemosina una funzione
essenziale del proprio rapporto con gli uomini e con la divinità. È
certo che la dignità che veniva attribuita alla pratica della carità,
innalzata ad espressione di scelta di vita negli Ordini mendicanti, mise in
condizione molti, osservano alcuni studiosi, di preferire la mendicità
ed il vagabondaggio specialmente nei tempi, ed in Europa non mancarono di certo
nella prima età moderna, in cui procurarsi un lavoro diventava un'impresa
quasi impossibile. Non sono pochi quelli che, tra quindicesimo e sedicesimo
secolo, si accorgono che un formidabile esercito di riserva di individui abili
al lavoro si dedica a praticare la povertà, sfuggendo ad una proficua
utilizzazione in altri settori dell'economia.
In omaggio a Weber, non possiamo nemmeno dimenticare che la nascente borghesia
stacca di numerose lunghezze lo statico regime feudale se non altro per l'impronta
completamente diversa che assume l'idea di lavoro. La concezione tomistica della
necessità di lavorare solo quel tanto che è richiesto per la sopravvivenza
dell'individuo e della società, sottolinea Rusche, consente all'uomo
medievale di considerare l'attività produttiva una parte certamente non
consistente dell'esistenza individuale. Siamo ben lontani dal modo di vita borghese
che deve rispondere a criteri di operosità tali da fare dell'accumulo
di ricchezze non soltanto una condizione indispensabile per essere accettato
dal gruppo ma anche un rigoroso sistema meritocratrico. Secondo Lutero, infatti,
chiunque desideri la ricchezza non ha che da lavorare duramente. Con ciò
non fu mai negata, evidentemente, la buona disposizione d'animo nei confronti
del povero che va comunque aiutato a non morire; piuttosto si trattava di insegnare
al povero che il lavoro nobilita ed avvicina a Dio. Il calvinismo inglese ed
olandese raccoglie in sé una gran parte dei concetti che dà luogo
a questa nuova etica: in una situazione di sostanziale carenza di capitali,
la borghesia non aveva privilegi di origine reale e coloniale. Doveva esclusivamente
contare sulle proprie forze per procedere all'accumulazione di denaro e di profitti;
all'inizio il lusso e lo spreco furono banditi in favore del lavoro duro e del
risparmio. L'etica calvinista fornì alla borghesia che muoveva i primi
passi un riferimento teorico che in breve trasformò il rapporto tra individuo
e società: l'impulso ad acquisire era direttamente voluto da Dio e perfettamente
legale. Immense fortune cominciarono ad essere accumulate con sempre maggior
avidità e la circolazione di capitale diede forma ad un assetto economico
e culturale caratteristico di un sistema che aveva rotto definitivamente i ponti
con la logica del feudalesimo.
L'atteggiamento verso le classi inferiori risentì di questa concezione
così abilmente costruita dagli imprenditori, a metà tra la morale
e la pratica, che giustificarono immediatamente le loro tragiche speculazioni
sul ceto dei lavoratori. L'ineguale distribuzione delle ricchezze divenne
una specie di imperscrutabile volontà della Provvidenza che aveva messo
nelle mani di alcuni il destino del mondo ed in quelle di tutti gli altri
la fatica disumana di garantire un tale stato di cose. Non era insomma così
irragionevole che il popolo, per citare Calvino, rimanesse povero: questo
si armonizzava con la volontà divina, calata in terra a difesa del
capitale, che chiedeva agli operai un onesto e corretto rapporto con chi gli
consentiva di sopravvivere, nella coscienza del dovere compiuto, a cui mai
ci si sarebbe sottratti. Per l'homo oeconomicus essere e dover essere
coincidevano nel lavoro.
Ovviamente non esisteva spazio alcuno per i mendicanti che furono abbandonati
perfino dai religiosi cattolici che imponevano l'assistenza ai bisognosi. Il
peccato dell'ozio e dell'indolenza non producevano profitti ed i poveri abili
al lavoro dovevano essere riciclati nella strategia del capitale; a coloro che
non potevano esercitare alcun tipo di attività si provvide attraverso
misure di assistenza sociale. Ma le difficoltà non vennero aggirate tanto
semplicemente. La mendicità non risultò affatto controllata, né
controllabile con facilità e la situazione economica non riuscì
a stabilizzarsi subito in Europa tanto da poter consentire un relativo equilibrio
alle tensioni politiche e sociali. La repressione del vagabondaggio conobbe
una svolta intorno alla fine del '600 quando si decise di adottare misure più
umane di trattamento e criteri più razionali di sfruttamento della forza
lavoro. Si optò per le case di correzione che furono il diretto risultato
di mutamenti economici generali; al loro interno il contingente dei reclusi
veniva perseguito penalmente - la legge dello Stato dimostrava la sua potenza
coercitiva - ed utilizzato per il conseguimento dei fini specifici del nuovo
assetto produttivo.
Il primo esperimento di casa di correzione fu quello di Bridewell a Londra
nel 1555. Nelle istituzioni di questo tipo, che si affermano definitivamente
nel secolo successivo, vengono impiegati a scopo produttivo tutti coloro che
non sono riusciti ad inserirsi nel meccanismo del mercato tradizionale. Questa
prima forma di detenzione raggiunse la sua massima applicazione in Olanda
dove alla fine del sedicesimo secolo il sistema capitalista era il più
sviluppato d'Europa. Dentro le case di correzione si fanno confluire le riserve
disponibili di forza lavoro rappresentate dal popolo dei mendicanti, costretti
all'impiego produttivo e risocializzati in modo da essere in futuro
spontaneamente a disposizione del mercato. Il modello di Amsterdam conobbe
presto numerose imitazioni anche nel resto dei paesi europei. I reclusi erano
comunemente ladri, vagabondi e prostitute; ai colpevoli di reati meno gravi
si affiancarono presto i condannati a lunghe pene detentive, i marchiati,
i fustigati etc. Più tardi anche i figli considerati incapaci ed i
prodighi in generale vi furono rinchiusi dalle famiglie.
Poveri e bisognosi, quando non erano in grado di provvedere a se stessi andavano
ad ingrossare le file dei ricoverati in un'altra istituzione simile alla case
di lavoro, che nacque come rimedio di salute pubblica: gli hopitaux généraux,
dei quali il più famoso rimase quello di Parigi fondato nel 1656 sotto
la pressione dei padri gesuiti (ennesimo intervento del clero a fianco del
potere temporale).
Naturalmente la formazione di lavoratori specializzati nelle case scatenò
una feroce reazione da parte delle corporazioni che vedevano minacciati i
loro monopoli. In breve tempo questi luoghi di lavoro coatto divennero il
sostrato sociale ed economico su cui si sarebbe articolata la nuova dimensione
del capitale borghese; anzi, ne anticiparono schiettamente la comparsa come
sistema razionalmente fondato. Le domande sul significato della pena erano
ancora lontane: per il momento era sufficiente aver trovato la maniera di
realizzare una funzione produttiva col minimo dispendio dando modo a merci
e denaro di circolare col ritmo previsto.
L'utilizzo della forza lavoro dei condannati aveva a quel punto assunto il criterio
della reclusione come elemento positivo del suo dispiegarsi; la costrizione
sulle galere e la deportazione nelle colonie, i cui territori inesplorati stavano
offrendo stimoli di investimento, fornì ulteriori vantaggi. Il fabbisogno
di rematori, per restare al primo caso citato, fu largamente riequilibrato dalla
sostituzione della pena capitale in lavoro forzato sulle navi, anche se il fenomeno
non ebbe mai nulla a che vedere con qualsiasi forma di rieducazione possibile:
sulle galere raramente si riusciva a sopravvivere e ben pochi furono quelli
che tornarono a casa dopo aver scontato la commutazione di pena. Molti di loro
arrivavano persino all'automutilazione pur di non essere sottomessi al terrificante
regime delle galere, una vera e propria morte psicologica prima che fisica.
Gli stessi criteri di opportunità economica, ma stavolta con esiti diversi
per i condannati, spinsero i grandi Stati colonialisti, tra i primi certamente
l'Inghilterra, a deportare centinaia di braccia nelle colonie d'oltremare per
la coltivazione dei campi, la costruzione di strade ed altro ancora. Era talmente
consistente la richiesta di forza lavoro per le colonie che si giunse perfino
ad un nuovo tipo di crimine: il rapimento dei fanciulli da spedire al di là
dell'oceano. Specialmente nelle grandi città di mare i giovanissimi appartenenti
alle classi più povere venivano catturati e venduti come schiavi. Ma
presto si levarono alte le proteste in patria per la mancanza progressiva di
manodopera: si esportava senza riguardo una ricchezza che non dava in cambio
un ricavato sufficiente. D'altro canto le colonie finirono per accettare con
sempre minor entusiasmo l'aiuto della madrepatria che inviava delinquenti di
ogni risma. I lavoratori liberi tolleravano malvolentieri la presenza di individui
che minacciavano, a sentir loro, la vita della stessa colonia. La verità
stava invece da un'altra parte: l'introduzione della schiavitù negra,
negli ultimi decenni del '700 affare lucroso, consentì alle giovani colonie
di poter rinunciare tranquillamente alla deportazione che cessò improvvisamente
i suoi effetti vantaggiosi, nel mentre sempre più pressante cominciava
a farsi il desiderio di indipendenza. Non divenne possibile risolvere la questione
della criminalità, dunque, se non ripensando ad un adeguamento complessivo
del sistema delle leggi in tema di pena alle mutate condizioni sociali e politiche.
La funzione del carcere è quella di custodire gli uomini non di punirli,
recita il Digesto di Giustiniano. Fino al diciottesimo secolo, infatti,
le prigioni si limitano a trattenere i condannati in attesa del processo e
durante tutto il Medioevo la reclusione non ebbe altro scopo che impedire
ai condannati di darsi alla fuga sottraendosi al potere della giustizia. Centinaia
di straccioni e di mendicanti erano gettati a marcire in condizioni di vita
disumane all'interno di grandi edifici custoditi al massimo da quattro o cinque
persone. Catene ai piedi, come nelle raffigurazioni più classiche dei
galeotti, sopravvivevano se e quanto era possibile in luoghi di diffusione
di malattie e contagio. In balia di custodi che avevano fatto della prigione
il loro feudo e che si trasmettevano talvolta ereditariamente le funzioni
di carcerieri, folti gruppi di detenuti, ma sarebbe meglio dire internati,
mendicavano attraverso le sbarre delle celle un tozzo di pane e qualche soldo
per potersi procurare un piatto di sbobba o il favore dei guardiani. Paradossalmente,
e il lavoro di Ignatieff sulle carceri inglesi lo dimostra ampiamente, il
contatto con l'esterno era molto frequente, giacché i prigionieri contavano
per la loro sopravvivenza sulla carità di amici e parenti o sull'intervento
delle confraternite religiose a quello scopo istituite.
La maggior parte dei detenuti erano incarcerati perché non potevano
pagare le pene pecuniarie previste per la composizione della lite e una volta
dentro alla prigione essi contraevano un debito nei confronti del guardiano
che ben difficilmente riuscivano ad onorare: era dunque il carceriere a ricavare
un guadagno dai prigionieri. L'inversione totale di questa prassi nel carcere
moderno condusse invece all'opposto; dal lavoro dei detenuti era la collettività
a dover ottenere qualcosa. La pratica dell'opus publicum non era completamente
sconosciuta nel Medioevo e in alcune municipalità vigeva l'uso dei
condannati nel lavoro forzato o nel servizio militare; è tuttavia il
sistema carcerario successivo ad essere assunto come metodo per lo sfruttamento
di forza lavoro e, particolare non meno importante, come mezzo per l'addestramento
di nuove riserve di lavoratori. Secondo Rusche il carcere moderno fu la conseguenza
necessaria delle case di correzione.
La forma originaria del carcere che caratterizzò l'età moderna
discendeva direttamente dalle case di correzione manifatturiere e l'obiettivo
essenziale non era certo costituito dalla rieducazione dei prigionieri quanto
dallo sfruttamento costante della loro capacità lavorativa. Lo stesso
periodo di detenzione veniva determinato dal bisogno dell'istituzione o degli
appaltatori: l'occasione così ghiotta di avere a disposizione una folla
di indigenti da usare a proprio piacimento convinse gli imprenditori a trattenere
quanto più a lungo possibile i reclusi. In particolare la mancanza
pressoché completa di una legislazione sufficientemente chiara nel
precisare l'entità della pena creò situazioni al limite dell'incredibile:
alcuni detenuti potevano essere messi in libertà entro poche settimane,
mentre altri colpevoli di reati minori venivano trattenuti per anni interi.
La pratica dell'incarcerazione, inoltre, si diffuse anche per la necessità
di speciali trattamenti riservati alle donne ed ai membri di particolari classi
sociali. Le donne rinchiuse negli Hopitaux, ad esempio, scontavano
pene che per gli appartenenti al sesso maschile significavano normalmente
schiavitù nelle galere; i membri dell'aristocrazia o dei ceti privilegiati
venivano rinchiusi per evitare loro l'umiliazione delle punizioni corporali
o della deportazione a vita. Come si vede le connotazioni di classe di pene
e reati non abbandonano mai l'evoluzione della società europea e non
risparmiano i meno fortunati.
La casa di correzione riassume in sé i principi di un internamento reso
produttivo e di una pratica della punizione che consente anche allo Stato di
affermare la propria presenza senza ledere gli interessi di un'economia di mercato
indispensabile alla sua stessa sopravvivenza. Avanza lentamente nel tempo l'uso
di sostituire a provvedimenti di carattere repressivo, la messa al bando per
esempio, legati ancora al vecchio concetto dell'allontanamento dalla comunità
o comunque dall'espiazione violenta della colpa (i grandi supplizi destinati
a terrorizzare la folla), un'articolazione segnatamente più razionale
delle pene che preservasse il corpo del condannato per ricavarne profitto. La
morte non significava più l'esplicitazione dell'autorità del sovrano
o dello Stato: il dominio sui corpi, nelle nuove esigenze della società,
allungava piuttosto la vita per prendere da essa tutta l'energia possibile;
e il lavoro è quell'energia, quell'orizzonte inalienabile che pure rende
aliena la soggettività.
Il mercantilismo se da una parte organizzò il proprio statuto sociale
attraverso la diffusione di un'idea di profitto che stese una rete fittissima
sopra ogni aspetto della vita quotidiana, rendendola produttiva fino alla trasformazione
dell'intero sistema penale in una parte del suo programma, dall'altra smise
di occuparsi quasi subito delle istituzioni create allo scopo di diventare un
settore vantaggioso dell'economia. Il carcere, ormai forma punitiva per eccellenza,
divenne presenza marginale nel contesto sociale e trovò scarso sostegno
nelle teorie penali del seicento e del settecento. Ingranaggio redditizio di
un ciclo produttivo rinnovato e destinato a colossali sviluppi, ci si dimenticò
presto della precarietà delle sue pessime condizioni strutturali e dei
ritmi disastrosi, ai limiti della tollerabilità, imposti ai reclusi.
Il secolo dei Lumi, della riaffermazione dei valori di libertà e giustizia,
ne scoprì l'inganno mentre volgeva l'epoca delle grandi rivoluzioni.
A cavallo tra i due secoli, fu il padre benedettino Mabillon ad occuparsi
per primo dell'insieme dei problemi teorici legati all'incarcerazione. Le
sue Réflexions sur les prisons des ordres religieux, pubblicate
postume nel 1724, affrontavano sistematicamente la questione della natura
e degli scopi del modello carcerario; la Chiesa aveva dovuto porsi il problema
già da tempo disponendo della giurisdizione criminale dei chierici.
L'entrata negli ordini minori da parte di molti era infatti legata sostanzialmente
al vantaggio del cosiddetto privilegium fori; non potendo condannare
a morte gli autori di reati anche particolarmente gravi, le autorità
ecclesiastiche si erano trovate costrette ad optare per la soluzione carceraria
o per la pena corporale. Le osservazioni di Mabillon precorsero ampiamente
i tempi del dibattito moderno su criminali e prigioni; tutti gli interrogativi
che avrebbero assillato i riformatori settecenteschi vengono formulati dal
religioso con estrema chiarezza: la proporzione della pena al reato commesso,
la necessità di un recupero spirituale del reo, ben oltre il suo impiego
a fini puramente lavorativi, il rapporto tra pena e carattere del delinquente,
il livello di rigenerazione morale a cui deve essere spinto il prigioniero.
La comunità religiosa, intrinsecamente disciplinare nella sua chiusura
rispetto alla realtà esterna, poteva risolvere facilmente il problema
della riammissione del colpevole qualora fossero stati raggiunti il pentimento
e la conversione interiore. Ben diversa appariva la vicenda del reinserimento
in un ambito sociale laico del criminale abbandonato nelle prigioni dell'età
mercantile. La sua condizione era il punto d'incrocio di istanze di potere
e di sapere che dovevano rideterminare la funzione di un intero sistema giuridico.
La dolcezza delle pene
L'elaborazione teorica del modello carcerario è opera del periodo illuminista.
Viene costituito un complesso apparato di norme e di modi di valutare i reati
che fa del sistema penale un articolato meccanismo in grado di soddisfare le esigenze di una società che punisce secondo un metro il più vicino
possibile alla giustizia, o meglio a quella che si riteneva fosse giustizia,
contro la comminazione indiscriminata della pena di morte e l'arbitraria assegnazione
di condanne sproporzionate all'atto criminoso commesso. Nasce il concetto di
proporzionalità: l'ordine borghese si autoregolamenta, cerca di razionalizzare
le proprie necessità, compila dettagliatamente i suoi codici etici e
morali; e allo stesso tempo non nega l'evidenza del legame tra crimine e struttura
sociale dominante. Il furto, dichiara apertamente Beccaria assieme a D'Alembert
e Marat, è il nesso immutabile che unisce trasgressione alle norme e
proprietà privata come simbolo inequivocabile delle classi al potere.
Secondo Beccaria è la certezza della pena ad essere realmente importante
più che la sua durezza. La società borghese comincia ad interessarsi
alla completezza, alla rapidità ed alla sicurezza della giustizia penale
mettendo in secondo piano la sua severità. Mutamento del diritto sostanziale
e riconosciuta deficienza delle procedure legali furono i capisaldi della critica
dei riformatori illuministi. Ma il richiamo al progresso ed alla libertà
dell'uomo non servirono a diminuire la sproporzione degli effetti dell'applicazione
di quei principi tra le classi sociali, per definizione radicalmente diverse.
Aumentarono certo le garanzie generali ma continuarono a restare profonde le
differenze. I ceti inferiori non riuscirono quasi mai ad avvalersi delle nuove
garanzie processuali per indisponibilità finanziaria e difetto di conoscenza;
i vantaggi non si contarono invece per aristocratici e borghesi che furono risparmiati
dall'intrusione nella loro libertà di movimento e nelle loro poco rispettabili
attività lucrative.
Il movimento riformatore si espresse compiutamente nella seconda metà
del settecento, nel medesimo periodo in cui viene meno la ragione stessa del
nuovo sistema punitivo, il bisogno di forza lavoro. Le necessità dell'economia
dell'epoca coincidevano con i principi umanitari dei riformatori e nel momento
in cui si cerca di dare applicazione pratica alle sollecitazioni dell'Illuminismo
vengono a mancare i presupposti culturali ed economici che le avevano determinate.
Le ripercussioni di tale ennesimo sviluppo del modello produttivo sulle case
di correzione non tardarono a farsi sentire: esse si trasformarono in luoghi
invivibili di negligenza, intimidazione e tormento per i reclusi nel mentre
il lavoro assumeva una funzione meramente afflittiva. Da tempo si era fatta
strada l'idea, forse anche immediatamente a ridosso del loro sorgere ed in seguito
alla crescente diffusione in tutta Europa, di farle diventare istituti di carità
o case per poveri oppure ancora orfanotrofi ed ospizi che ospitavano gli elementi
più eterogenei. La situazione economica, come si è detto, stava
rapidamente modificandosi sin da inizio '700. La popolazione era aumentata vertiginosamente
e la richiesta di manodopera facilmente soddisfacibile; il mutamento delle condizioni
di vita nelle campagne (recinzioni e creazione delle grandi tenute) aveva fatto
affluire migliaia di persone in città, un flusso migratorio che avrebbe
toccato l'apice nei primi decenni dell'ottocento.
In un panorama di questo tipo l'avvento delle macchine non poteva che produrre
eventi catastrofici. L'esempio dell'industria tessile fu significativo: le fabbriche
potevano adesso produrre da sole molte più merci di quanto non fossero
in grado di fare le donne impiegate nella filatura domestica. Poco a poco il
nuovo sviluppo industriale coinvolse anche gli altri settori della produzione
determinando una crescita improvvisa della disoccupazione; di conseguenza aumentò
subito il numero dei poveri e dei reati di cui essi si rendevano colpevoli,
in particolare il furto. Il proletariato non controllabile cominciò ad
impensierire i governi e si reagì sulle prime con un ritorno ai vecchi
metodi punitivi basati sulla violenza fisica. In questo modo soltanto si intese
far fronte all'aumento di una criminalità che era l'esatto prodotto di
quel sistema di potere. La borghesia decise di modellare con attenzione l'apparato
normativo che sarebbe servito a creare le leggi ed in particolare affrontò
la codificazione penale come insieme delle sanzioni da applicare per la trasgressione
di quelle norme, individuando con assoluto rigore i reati possibili e sottoponendoli
dichiaratamente al criterio della loro maggiore o minore contiguità al
reato amministrativo. Bisognava infatti tutelare il diritto di proprietà
e tutto ciò che gli gravitava attorno: il capitale protegge il proprio
denaro.
Le teorie dei filosofi di grande levatura, inoltre, da Kant a Hegel, contribuirono
a fornire un indispensabile fondamento razionale all'emergente borghesia che
si andava consolidando nella composizione di classe della nuova società
capitalista: il concetto essenziale era che allo Stato di diritto doveva corrispondere
un severo sistema di pene. L'Idealismo negò la possibilità di
considerare alcun elemento soggettivo nello stabilire il nesso tra fatto particolare
di reato e norma generale di diritto penale che ad esso si applicava; si aprì
in tal modo la strada alla concezione liberale delle pene. Fu possibile perciò
formulare tipologie di condotta rigorosamente prevedibili; il cerchio si chiude
dopo aver risposto proprio al programma teorico dell'Idealismo borghese: rispetto
del principio di legalità ed esclusività del principio retributivo.
Come scrive all'epoca Feuerbach, sintetizzando esemplarmente il pensiero di
un'epoca intera, la trasgressione della legge è in sé sufficiente
a far meritare la pena; non occorre altro, nessuna condizione soggettiva dell'imputato
merita attenzione.
Mentre in Germania le dottrine idealiste si affermano da subito come il mezzo
migliore per giungere ad una teoria astratta del diritto che tuttavia ne generalizzi
gli effetti, nel resto d'Europa il legame con la realtà è più
profondo e la funzione di classe del diritto penale manifesta, fino all'ammissione
esplicita, la sua utilizzazione in quanto strategia di potere dei ceti dominanti.
Con la progressiva scomparsa della casa di correzione il carcere diventa la
pena più diffusa nel Vecchio continente (ma vedremo che anche nel Nuovo
le cose non sono poi così diverse). Ma nessuna ipotesi di trattamento
alternativo dei detenuti viene immediatamente a sostenere il cambiamento di
situazione; lo stato della detenzione assurge subito a simbolo della corruzione,
della degradazione e dell'abbandono dei prigionieri ad un destino infelice.
All'inizio dell'Ottocento in tutta Europa la condizioni degli istituti di
pena è disastrosa. I riformatori del periodo attribuivano le disgrazie
dell'apparato carcerario all'inefficienza dell'amministrazione, alla gestione
privata che faceva delle prigioni imprese dai notevoli profitti, alla promiscuità
totale tra uomini e donne; inoltre si comincia a discutere ripetutamente sul
principio della less eligibility, vale a dire sulla necessità
imprescindibile di assicurare ai detenuti un trattamento comunque inferiore
alle più basse condizioni di vita esterne. I poveri, in sostanza, finiscono
per accorgersi che la vita del carcere è per certi aspetti sicuramente
migliore di quella che la società riserva loro in una quotidianità
fatta di continui stenti e, osserva un parlamentare francese, essi sono addirittura
spinti a cercare la detenzione attraverso il comportamento criminoso. Il vero
problema, viene dichiarato nel 1825 in un rapporto sulle condizioni carcerarie
della contea di Wood, è che la privazione di libertà non è
strumento sufficiente per la correzione delle classi inferiori.
Solo l'abitudine al rispetto assoluto dell'autorità, per il mezzo dell'accettazione
di un'esistenza tranquilla, laboriosa e regolare riuscirà a domare i
più riottosi. Abitudine alla sottomissione, dunque, che si tradurrà
direttamente in abitudine al rispetto delle regole sociali una volta rimessi
in libertà. Si chiede al carcere di assolvere a tutte le impellenti esigenze
di una società che vuole adesso rieducare, riabilitare, riadattare il
condannato sottilmente intervenendo sulla sua psicologia. Una proposta pratica
fornita da quello stesso documento consisteva nell'indurre i detenuti a risparmiare
sul valore del pane. Quello che non consumavano nella giornata veniva risparmiato
per le successive; in questa maniera l'amministrazione da un lato ne beneficiava
sul piano dei costi e dall'altro favoriva la predisposizione al risparmio. Implicitamente
si abituavano le persone alle ristrettezze ed ai sacrifici che avrebbero dovuto
accettare nella vita fuori dal carcere. La situazione restava comunque grave:
altissimi tassi di mortalità, denutrizione, stato di salute mentale vacillante
e talmente degenerato da colpire i detenuti in modo permanente anche dopo il
rilascio. La contraddizione tra una forma della pena ormai generalizzata e le
reali condizioni della sua applicazione, continuamente testimoniate da più
parti, si faceva evidente. Nello stesso periodo il lavoro carcerario cominciò
ad essere declinato perché poco produttivo. I nuovi ritmi dell'industria
lo rendevano troppo costoso per gli interessi del mercato. I sussidi statali
diventarono l'unica fonte di sopravvivenza per le case di correzione, come si
è detto in via di scomparsa, né lo Stato poteva far conto sul
lavoro dei condannati per ammortizzare i costi.
L'intervento della pubblica amministrazione nel mantenimento delle struttura
carceraria fu garantito anche dalla combinazione con un altro elemento essenziale
della società disciplinare: l'esercito. Le carceri prussiane si rivelarono
un modello perfetto; come agenti di custodia vennero impiegati ex militari in
pensione e si realizzò così l'accorpamento di due meccanismi disciplinari
destinati a convivere per lungo tempo.
Ma l'intervento nell'organizzazione degli statuti carcerari non risolveva il
problema economico, la concorrenza sul libero mercato tra lavoro in carcere
e lavoro libero dava origine a difficoltà che sembravano non avere soluzione.
Nel loro viaggio negli Stati Uniti Beaumont e Tocqueville analizzarono a lungo
questa situazione. Il sistema economico americano, in continua espansione, non
temeva concorrenza tra i tipi di prestazione lavorativa; se la massa della produzione
cresce continuamente, i prezzi diminuiscono in proporzione. Nei paesi nei quali,
invece, la produzione ha saturato il mercato e ridotto il prezzo delle merci
al livello più basso, il suo continuo aumento danneggia l'economia nel
suo complesso a cominciare dalla classe operaia, la prima a risentirne gli effetti
negativi. La produzione, osserva Rusche, si trova al prezzo minimo quando il
salario dell'operaio gli consente di procurarsi lo stretto necessario per la
sopravvivenza; il carcere, del resto, nella concezione capitalista produce per
diminuire i costi e non per il profitto, potendo abbassare di conseguenza i
prezzi senza compromettere la propria esistenza. La fabbrica, al contrario,
vivendo del suo guadagno, quando non riesce a ricavare alcun profitto semplicemente
cessa l'attività, non avendo la copertura del Tesoro pubblico che ammortizza
le perdite.
Peraltro togliere ai detenuti il lavoro significava, ed in taluni casi fu questo
l'esito, metterli in uno stato d'ozio che scatenò le proteste più
esaltate da parte della stessa borghesia che vi riconosceva un incitamento al
dolce far niente oltreché la completa assenza di carattere punitivo in
un'istituzione creata con quello scopo specifico. I conservatori non tardarono
a reclamare l'uso del carcere per la deterrenza più feroce contro le
indomabili classi inferiori e in Inghilterra quelle sperimentazioni trovarono
pratica attuazione fin dai primi anni del XIX secolo. Il lavoro penale fu trasformato
da fonte di profitto in metodo di punizione giustificata da argomenti morali.
L'introduzione di macchine azionate dall'energia umana (treadwills) e perfettamente
inutili nella riproduzione ossessiva del loro ciclo interno divennero presto
il simbolo del sadismo della nuova prigione. Esse costituivano una terribile
ingiunzione a riconsiderare il carcere come ultimo rifugio dalle insidie di
una società classista che affamava i poveri.
La pena detentiva mutò dunque significato e divenne chiaro che essa non
rappresentava più la semplice privazione di libertà ma anche una
certa dose di sofferenza e di asprezza. In Germania la pratica penale si uniformò
immediatamente a questo concetto della durezza della carcerazione. Non si distinsero
più i livelli della detenzione, i principi della rieducazione erano informati
alla logica dell'intimidazione spietata. Il carcere fu presto luogo di orribili
torture fisiche e psicologiche che davano una risposta precisa, continua, inflessibile
all'unico principio valido: sorvegliare e punire.
La possibilità che il carcere potesse perdere quegli effetti intimidatori
era al di là della sfera del pensiero razionale.
Le cose cambiano in fretta anche in Europa a seguito agli stravolgimenti politici
che interessano le colonie. Dopo la rivoluzione americana l'Inghilterra non
poté più deportare i condannati che vennero per la maggior parte
impiegati nel paese d'origine (a Londra, per esempio, estraevano vicino al
Tamigi ghiaia e sabbia). In breve i famosi hulks, i battelli dove venivano
ospitati i detenuti, divennero serbatoi di delinquenza e malattie. Le polemiche
che si scatenarono a livello parlamentare condussero ad un provvedimento di
riattivazione della deportazione. Il governo Pitt fu costretto a cedere alle
pressioni politiche di una vasta fetta del Parlamento ed autorizzare il primo
invio di deportati nella baia di Botany in Australia nel 1787. Passato il
primo anno in condizioni di vita disastrose, la situazione per i nuovi coloni
cominciò a migliorare: essi furono impiegati oltre che nell'esecuzione
di opere pubbliche anche nell'agricoltura. Terminata la giornata lavorativa
ufficiale i detenuti potevano offrirsi con corresponsione di regolare salario
agli imprenditori locali che li utilizzavano nelle attività più
varie. Molti dei prigionieri, amnistiati dal governatore per buona condotta,
rimasero in Australia a coltivare terra di proprietà che veniva loro
concessa gratuitamente con sementi ed attrezzi di lavoro.
Nonostante le alterne vicende del fenomeno della deportazione, ci si rese conto
che alla fine gli interessi coloniali e i problemi di giustizia erano stati
confusi. Come all'epoca del mercantilismo il detenuto era, più o meno,
considerato in base alla sua capacità lavorativa e non in base al reato
commesso. Per molti la deportazione fu, infatti, una via di fuga dalla miseria
che affliggeva le classi inferiori in patria.
Nel 1852 la situazione era tale nel Nuovo Galles del Sud da condurre un'altra
volta all'abrogazione dell'istituto della deportazione. Si era avviata una forte
tendenza al libero mercato che rendeva inutile, quando non dannoso, l'arrivo
di condannati, cioè di forza lavoro che bisognava pur mettere da qualche
parte.
In Europa si cominciò a discutere, per l'ennesima volta, del problema
della criminalità e della sua repressione. Non bastava più liberarsi
dell'incomodo scaricandolo in paesi lontani e quasi rimuovendone socialmente
la presenza ed il ricordo. L'economia dei nuovi Stati procedeva ormai secondo
le proprie rotte e non era più possibile affrontare la questione carceraria
se non assumendone in pieno l'onere.
Nel diciannovesimo secolo la segregazione cellulare si diffonde in tutta Europa.
Arriva dagli Stati Uniti dove le particolari esigenze del mercato del lavoro
fanno rapidamente mutare la politica penitenziaria.
In America erano la considerazioni di carattere strettamente economico a prevalere.
Il sistema della segregazione cellulare, introdotto dai Quaccheri a Filadelfia
nel 1790, prevedeva l'isolamento dei detenuti in singole celle dalle quali sarebbero
usciti soltanto a pena scontata o per l'intervento di cause di forza maggiore,
quali morte o pazzia. Motivazioni di ispirazione religiosa condussero i Quaccheri
a pensare che la preghiera e la meditazione fossero gli unici strumenti pedagogici
adatti ad avvicinarsi a Dio ed ai prigionieri era concesso di non lavorare e
di leggere la Bibbia come indispensabile strumento di riabilitazione morale.
Inoltre la diffusa convinzione che il lavoro carcerario non avrebbe mai costituito
un vantaggio economico portò a ritenere il modello filadelfiano uno tra
i più avanzati del mondo, se non altro per l'approccio rieducativo altamente
umanitario. In realtà sarà il modello di Auburn a prevalere con
l'abbandono progressivo della segregazione cellulare. All'inizio del XIX secolo
si assiste negli Stati Uniti ad un aumento di domanda di forza lavoro di notevoli
proporzioni; le condizioni sociali complessive erano migliori di quelle europee,
come Beaumont e Tocqueville videro benissimo durante il loro soggiorno. L'indice
di criminalità era a quell'epoca davvero basso: la stragrande maggioranza
della popolazione poteva lavorare e mantenere anche un'intera famiglia con un
solo salario. La stato delle carceri rifletteva la vita sociale esterna improntata
all'efficienza ed alla cura della persona. Per l'ex detenuto non esistevano
soverchie difficoltà per trovare un'occupazione dopo l'uscita dalla prigione.
In fondo si trattava del trionfo del libero mercato in un paese dichiarato libero.
Il sistema filadelfiano era inaccettabile nelle sue forti connotazioni non produttive
e nell'onerosità degli effetti sul corpo stesso del recluso: dopotutto
perché continuare a privarsi di ciò che poteva comunque, anche
se in maniera diversa, essere oggetto di profitto, impiego di forza lavoro?
La decisione di impiantare dentro al carcere un apparato produttivo pose dei
problemi di carattere organizzativo; non era certo possibile competere con
le esigenze del mercato servendosi di una struttura come quella rigorosamente
cellulare. Al carcere quacchero si oppose l'esperimento di Auburn, in breve
tempo adottato ovunque. Tale sistema si articolava essenzialmente sulla segregazione
cellulare notturna e sul lavoro in comune di giorno. L'introduzione delle
macchine fece il resto: il carcere americano venne riconvertito in impresa
economicamente vantaggiosa. Sopravvisse del vecchio metodo filadelfiano il
silenzio obbligatorio, per ragioni di ordine interno e per costringere i detenuti
a concentrarsi sul loro lavoro. Lo scoppio della guerra civile fu la prova
generale della nuova fabbrica carceraria; aumentò il bisogno di divise
e di calzature per l'esercito e la produzione garantì regolarmente
le esigenze belliche proprio grazie all'impiego del lavoro penale. E per ragioni
legate alla produzione si cominciò anche a distinguere tra condannati
a pene lunghe e pene brevi, disponendo sapientemente del tempo dei reclusi
e programmandone l'attività. I visitatori europei ritennero tuttavia
il sistema auburniano poco severo: si concedevano riduzioni delle pene sulla
base del parametro oggettivo del rendimento sul lavoro e del comportamento.
La disciplina ad Auburn era assoluta perché grande era il desiderio
di uscire in anticipo per buona condotta, dimostrando di aver lavorato sodo.
Col venir meno della frontiera la situazione peggiorò. La classe
operaia, vecchio problema irrisolto della prima economia capitalista, non
tollerava che la manodopera internata vivesse in condizioni migliori e nei
luoghi in cui i sindacati si rivelavano più forti, si arrivò
all'abolizione totale del lavoro carcerario. I disagi si moltiplicarono: quando
furono tolte anche le macchine, la popolazione detenuta si ritrovò
a prestare la propria in certi casi acquisita professionalità in condizioni
di difficoltà estrema. Dal canto suo l'amministrazione del penitenziario,
costretta a lavorare soltanto con commesse governative, non riusciva a contenere
le spese di mantenimento dei prigionieri e della struttura stessa. Le fluttuazioni
dell'economia di mercato continuavano a fare del carcere una palestra indispensabile
per i propri esperimenti, un luogo in cui si agitavano tensioni sociali e
politiche che erano lo specchio di una realtà esterna sottoposta al
cambiamento continuo. Nella battaglia incessante che agitava la società
il carcere allungava la sua ombra spesso maligna di spettro, eterno riattualizzarsi
di un potere punitivo tanto necessario quanto dissimulato.
In Europa la segregazione cellulare conobbe vicende molto diverse da quelle
statunitensi anche se il dibattito sui modelli filadelfiano ed auburniano impegnò
per anni giuristi e uomini di cultura. Ciò che occorreva alla società
europea era una pena adeguatamente terrorizzante per le masse affamate, riproduttrici
instancabili della minaccia criminale. Il senso di completa dipendenza e di
bisogno determinato dall'isolamento cellulare veniva considerato il tormento
più insopportabile che si potesse infliggere; valutazioni di carattere
strettamente psicologico interessarono il modello detentivo europeo della rivoluzione
industriale. Soltanto nella solitudine della cella il condannato avrebbe potuto
essere assalito dai rimorsi della coscienza e tormentato dalle proprie emozioni.
Soltanto a confronto con se stesso avrebbe riflettuto sulle sue colpe e si sarebbe
pentito rigenerando lo spirito. È fuor di dubbio, inoltre, che il metodo
cellulare serviva anche alle amministrazioni carcerarie per mantenere con poco
sforzo una disciplina rigorosa, specialmente dinanzi all'aumento del numero
dei detenuti conseguente al cambiamento nelle ragioni della produzione. Abbiamo
osservato prima come fosse cresciuta la quantità di coloro che erano
stati marginalizzati dall'introduzione del lavoro meccanico.
Il primo congresso internazionale di Francoforte sui problemi penitenziari,
nel 1848, decretò l'uso definitivo del sistema filadelfiano. La salute
psicofisica della popolazione carceraria fu gravemente minacciata, come ampiamente
si denunciò negli anni successivi. Il livello dei suicidi accrebbe in
maniera sensibile a causa dell'isolamento completo dagli altri carcerati e dell'ozio
forzato che sfociava in stati di depressione cronica; per la quasi totalità
dei detenuti l'esperienza della segregazione cellulare rappresentò malattia,
sofferenza, follia ed emarginazione sociale. Secondo Rusche, la scelta per cui
si optò in Europa fu il prodotto preciso di un'analisi economica che,
in presenza di un surplus di forza lavoro conseguente al riassetto industriale,
abbandonò ogni e qualsiasi razionale politica rieducativa, nascondendosi
sotto la maschera dell'ideologia morale. Comunque fosse andata, erano fatte
salve le esigenze del controllo. E come andò veramente lo riportano gli
archivi. Non si rinunciò all'idea di usare il lavoro, anche nelle forme
minimamente produttive, per rieducare i detenuti: in molti stabilimenti di pena
esso servì soltanto a liberare lo Stato dagli oneri delle spese per il
mantenimento dei condannati, ma fu comunque adottato. In Francia, nonostante
i tentativi di riforma in quasi un secolo di progetti di legge il recupero attraverso
il lavoro restò una costante dell'internamento nelle prigioni. L'impegno
lavorativo significava assiduità nella prestazione giornaliera, privazioni,
disciplina, creazione di rigide gerarchie e rapporti di subordinazione inflessibili:
simbolo emblematico dell'organizzazione produttiva, dell'instancabile operosità
industriale. È dalla seconda metà del XIX secolo che si fissa
il modello di prigione che ancor oggi conosciamo. Si dà forma ad un insieme
di tecnologie che sostituiscono ai filantropi i professionisti del carcerario
e che si danno unità coerente. Individualizzazione della pena, socializzazione
del criminale, riabilitazione attraverso il lavoro produttivo sono i tre cardini
della nuova strategia. Che, in un'ultima istanza, diventa una sola: conversione
produttiva della povertà. Il modello della prigione delinea un primo
dispositivo di educazione e normalizzazione della massa, circoscrivendo la devianza
ed impedendo i rigurgiti politici che minacciano la stabilità del potere.
Un sofisticato sistema di individuazione dei crimini e dei criminali agisce
in profondità nel sociale, lo seziona, lo divide in comparti, appronta
una tassonomia del deviante; lato oscuro di una società che per esistere
avrà costantemente bisogno dell'opposizione tra buono e cattivo, giusto
e ingiusto, onesto e delinquente. Si fa più stretto, osserva acutamente
Michelle Perrot, il controllo dell'identità al quale le tecniche moderne
conferiranno quell'efficacia che la dolcezza delle pene permette.
La società punitiva
La storia della prigione è una parte dello svolgimento della pratica
della punizione in Occidente. L'età classica aveva conosciuto quattro
grandi forme punitive: l'esilio (cacciata dal proprio territorio d'origine,
messa al bando, distruzione della casa, confisca dei beni, ecc.); il riscatto
(obbligazione patrimoniale a titolo di risarcimento del danno provocato); il
segno (marchio a fuoco sulla pelle di chi ha commesso il delitto, amputazione
di arti, iscrizione sul corpo del condannato della visibilità del potere);
l'incarcerazione. Secondo Foucault ognuna di queste forme rappresenta una società
e rispettivamente quella greca, quelle tedesche, quella occidentale fino a tutto
il medioevo e quella moderna. Ma la società che imprigiona è veramente
la nostra? A partire dalla fine del XVIII secolo sembra di sì. È
intorno agli anni che vanno dall'ultimo ventennio del '700 al primo dell' '800
che la detenzione entra a far parte del sistema penale europeo. I grandi riformatori
del XVIII secolo sono poco inclini a considerare la prigione come realmente
appartenente all'edificio concettuale del diritto, come proveniente da quell'insieme
di norme. L'imprigionamento sta ai margini del sistema penale e non è
comunque deciso dal potere giudiziario. La sua durata non è stabilita
da criteri univoci, come succederà in seguito; ci si preoccupa più
di correggere che di infliggere una pena. Soltanto cinquant'anni dopo la prigione
è diventata la forma per eccellenza dell'espiazione della pena. Un sistema
articolato di forme dell'incarcerazione occupa rapidamente tutto lo spazio disponibile
all'interno del regime delle penalità. La punizione, adesso, è
tutta ragionata sulla base delle potenzialità rappresentate dall'internamento
in luoghi sicuri, luoghi da approntare servendosi di tecniche da sperimentare,
di edifici da costruire, di un intero modo di procedere che necessita di continue
verifiche. Non più forche, patiboli, complicate macchine per la tortura,
ma prigioni, città nelle città con un ritmo di vita quotidiana
scandito dalla sovrana esigenza del punire sorvegliando e riabilitando, se ciò
sarà mai possibile.
L'introduzione della prigione come elemento essenziale del sistema penale
è subito oggetto di critiche violentissime. Si accusa l'incarcerazione
di essere elemento perturbante della società e di introdurre pericolose
disfunzioni. Mettere insieme condannati diversi, riunirli in uno stesso luogo,
darà origine soltanto a pericolose commistioni che finiranno per vedere
uniti insieme, in modo omogeneo, in comunità, prigionieri divenuti
gruppo durante il carcere e pronti a mantenere salda questa loro solidarietà
anche all'esterno, quando saranno di nuovo liberi. Ma cibo, vestiario e lavoro offerti nel carcere consentono al prigioniero di vivere una condizione quasi
migliore di quella dell'operaio, attirando molti alla delinquenza nella sostanziale
esiguità della pena. Queste ed altre ancora le preoccupazioni di chi
intuiva, nel fondo, i rischi a cui ci si esponeva sostenendo la validità
della pratica della prigione. Osservazioni perfettamente calzanti, del resto,
che disvelavano in modo inequivocabile effetti di potere che siamo in grado
di additare. Da subito si riusciva a riconoscere nella prigione il ruolo che
poi in effetti avrebbe avuto, cioè di riproduttrice della delinquenza,
della sua moltiplicazione, fabbrica operosa per intere popolazioni
di marginali. Paradossalmente la pratica della prigione è del tutto
esterna alla teoria penale, si affianca semplicemente da un certo momento
in poi al sistema giudiziario finendo per diventarne l'espressione principale,
anche se continuamente negata ed attaccata. Tuttavia i giuristi si sentirono
ad un certo punto in obbligo di giustificare la presenza di questo elemento
estraneo ma così forte da aver generato un vero e proprio regime penitenziario.
Sono molti e diversi i fattori che contribuirono all'accettazione più
o meno coatta della prigione come modello punitivo. Se esiste una geografia
del potere, implicitamente sostenuta dalla necessità di avere sotto
controllo la popolazione in un determinato territorio, la prigione interviene
certamente ad aiutare la distribuzione spaziale degli individui; questo fu
tanto più vero nel caso di mendicanti e vagabondi che costituivano
un popolo di viaggiatori dediti alle pratiche della sopravvivenza, quali che
fossero, e che rappresentavano un pericolo contingente per la nuova società
che si affacciava agli albori dell'età industriale con tutta l'intenzione
di mettere ordine tra le sue cose. Li si imprigiona, osserva Foucault,
per spostarli più che per rinchiuderli.
In secondo luogo con la prigione è più semplice intervenire al
livello della condotta etica e morale degli individui, imponendo norme del vivere,
comportamenti sessuali, ideologie politiche e via di seguito. Cosa può
significare tutto questo se non l'introduzione, lenta ma inesorabile, di un
sistema capillare di controllo, di riproduzione dell'ordine, al di là
dello stesso apparato delle leggi? Nessuno poteva rifiutare la praticità
della prigione, la sua perfetta adattabilità alle esigenze multiformi
e sempre sortibili di aggiustamenti di una società che nell'era industriale
doveva entrare a patto di notevoli trasformazioni strutturali. Sorveglianza
e controllo diventano in breve il meccanismo di potere che caratterizza la neonata
società capitalista. Questo dispositivo penetra lentamente la composizione
sociale e fa dei corpi l'obbiettivo principale della sua intrusione. Il modello
del Panottico, osservare incessantemente senza essere visti, non sarebbe potuto
diventare più utile, nemmeno nelle speranze di Bentham che nel 1791 ne
espose pubblicamente le caratteristiche. È la società che deve
diventare una prigione, ormai: scuole, ospedali, fabbriche, città saranno
dominio di raffinate strategie di controllo che ne comporranno instancabilmente
le strutture, ne saggeranno la consistenza, ne decideranno i ritmi. Ma più
il potere espande la sua morsa in un tessuto capillare e più si potranno
attivare delle resistenze. È un gioco di rapporti di forza destinato
soltanto ad autoriprodursi inverosimilmente. Le rivolte popolari, adesso, in
un diciannovesimo secolo tutto progresso e civiltà, la presa di coscienza
operaia minano alle fondamenta il potere politico, ne chiamano in causa, annota
Foucault, la distribuzione e la struttura, possono pretenderne il possesso e
l'esercizio. Il pericolo, al pari del meccanismo di dominio, è interno
alla società: è il pericolo perpetuo che minaccia la ricchezza
investita nel sistema produttivo. Una nuova forma d'illegalità sta facendo
la sua comparsa. È quella dell'operaio sottopagato che vive in condizioni
di deprezzamento del lavoro a causa dell'introduzione delle macchine, costretto
ad incredibili orari e ad un indebitamento progressivo per sopravvivere. I comportamenti
da circoscrivere sono quelli dell'assenteismo, la rottura del contratto, l'emigrazione
verso terre più ricche, l'irregolarità della vita. Bisogna riuscire
a compattare questa forza lavoro senza disperderla, dislocandola lì dove
si rende necessario averla e imponendo contemporaneamente dei ritmi inflessibili
di vita, assiduità nella prestazione lavorativa, sottomissione completa
alle esigenze della produzione. Regolarità contro devianza, ordine contro
anarchia. In questo contesto la delinquenza, costantemente riprodotta dal circolo
carcerario, viene indicata come lo sbocco naturale, la conseguenza inevitabile
per chi non si assoggetta, trasformando così la marginalizzazione dovuta
ai meccanismi di controllo in strumento pratico di pressione su coloro che ancora
resistono.
Nel XIX secolo la società industriale inaugura l'epoca del panottismo,
della disciplina e della normalizzazione. Il potere penetra i corpi e sancisce
su di essi il nuovo dominio, soggiogandoli internamente ed esternamente. Il
dentro del corpo, il soggetto psicologico risulta dall'incontro tra
potere e corpo, è l'effetto della fisica del potere. La repressione
attraversa un momento di passaggio cruciale situandosi ormai sul versante
della sorveglianza più che della punizione. L'economia del potere stabilisce
facilmente un rapporto preferenziale con il meccanismo del sorvegliare, irregimentare,
avere sotto controllo: all'interno di essa le pratiche dell'osservazione,
dell'utilizzazione dei corpi e delle loro energie, della definizione delle
norme, dell'aggiustamento dei mezzi della correzione hanno già prodotto
un sapere che non attende nient'altro che la sua definitiva applicazione.
La prigione è dunque legata ad un progetto massiccio di trasformazione
degli individui che era cominciato nel XVIII secolo, con la creazione di un
regime di potere che si esercitasse nel corpo sociale e non più
al di sopra di esso, e che proseguiva nel XIX la sua opera di assoggettamento
come modello disciplinare. La delinquenza gioca, dentro a questo meccanismo,
il ruolo indispensabile di veicolo delle istanze di controllo; la sua integrazione,
sempre possibile, nello stesso sistema di potere che la genera e la combatte
dimostrano che essa stessa poteva diventare strumento di sorveglianza dell'illegalità
in una circolarità senza fine.
Quando il potere definisce il delinquente, il criminale descrive in realtà
una parte di se stesso, affida ad una soggettività esterna il compito
di riprodurlo continuamente, distingue tra buono e cattivo ma solo per confondere
le idee. Condotta legale ed illegale finiscono per assumere la stessa valenza,
la differenza sta nella polarità, per così dire. Positivo e negativo
sono istanze che provengono, a ben guardare, dalla stessa parte, sono gli effetti
di spostamenti in un unico asse di rapporti di forza.
Il nodo centrale del meccanismo punitivo moderno si può ritenere questo,
la definizione di una soggettività in grado di reggere alle contraddizioni
del modello industriale. Il soggetto-corpo, soggetto assoggettato (è
interessante sottolineare la duplice valenza del termine soggetto in
tal senso), risponde alle molteplici esigenze di un apparato di potere, di
un dispiegarsi del dominio che nel carcere, da un certo momento in poi, trova
un formidabile laboratorio per plasmare i corpi, renderli docili avrebbe detto
Foucault, dare la misura di una nuova umanità reificata continuamente
dalla produzione per la produzione. Ma nel sistema del Capitale non si produce
soltanto profitto, o denaro, o merce in un quadro strettamente economico:
si produce anche sapere. Il concetto di merce, a questo punto, si dilata coinvolgendo
un intero campo epistemologico, assunzione pura di un radicamento culturale
che diventa, come era stato senz'altro prima in forme e modi diversi, società.
Nella geografia di un potere che, dal XIX secolo, vuole fare i conti con una
popolazione che sa riconoscere in un territorio (nascita del censimento in quanto
ineludibile sistema classificatorio che è simile a quello della medicina,
della biologia, più tardi della criminologia e della psichiatria) ed
a cui attribuisce una sovranità sostanziando un vincolo duraturo tra
cittadino e Stato, tra individuo e nazione, il carcere trova la sua indispensabile
collocazione di unità territoriale di controllo, luogo, tra breve, dell'incontro
delle discipline che si andavano costituendo in quel periodo. Esso afferma soprattutto
l'esistenza di un ordine della legalità, diffusività imperativa
della norma, che lascia ampi margini di sorveglianza sulla massa; la Rivoluzione
francese aveva dimostrato che il sistema politico di una nazione era alla portata
della rivolta, il popolo poteva reclamare la sua fetta di potere. La distribuzione
delle strategie moderne di conservazione del potere si irradia nel tessuto sociale
e ne occupa tutti gli spazi: ma più si espande e più si necessita
la moltiplicazione funzionale del controllo, di sapere sempre il come e il dove,
il quanti sono e cosa fanno. Eccola la disciplina-meccanismo che ha abbandonato
l'antica veste del blocco, dell'annientamento fisico del trasgressore, del marchio
visibile della potenza del re. Una fabbrica silenziosa piuttosto, nascosta al
chiasso dell'esecuzione pubblica che incita al sangue ma di cui tutti sanno,
nella quale giorno per giorno, pazienza infinita di un potere che non ha bisogno
di manifestarsi per esistere, anzi si riproduce meglio nell'ombra dello scivolare
dappertutto, si forgia il soggetto ideale della grande macchina industriale,
qualunque forma essa sviluppi poi nel corso degli anni. Un individuo sottomesso
che lavora instancabile in mezzo agli altri e si ritira la sera nella propria
cella (o nella cella che condivide con due o tre compagni) a riposare per riprendere
la mattina successiva il filo del ritmo produttivo: e non è forse il
penitenziario auburniano tutto ciò, riepilogo, in buona sostanza, della
vita quotidiana che attende il recluso oltre le mura della prigione?
Le variazioni, successivamente, sono infinite anche se la sostanza della pratica
carceraria possiede alcuni elementi caratterizzanti. Seguendo le indagini foucaultiane,
elenchiamoli brevemente: le forme della penalità che si vengono a creare
nell'arco di un secolo, da metà '700 a metà '800, mettono in gioco,
al di là delle infrazioni definite dal codice che sostanzialmente non
sono cambiate (ad eccezione di alcuni delitti come quelli religiosi che scompaiono
per lasciare il posto ad altri di carattere economico), il corpo e la sua materialità.
È questa la rivoluzione della pratica morale legata non tanto ad una
nuova percezione dei costumi quanto ad una storia del corpo: corpo come forza
produttiva, in una parola. Corpo che deve essere ricomposto e pienamente utilizzato
per la sua destinazione eccellente, il lavoro. La prigione si sostituisce al
supplizio, eliminazione del corpo del condannato, e diventa forma generale della
punizione; la penalità, registra efficacemente Foucault, si dà
forma nella prigione esattamente come il lavoro ha la sua forma nel salario.
C'è un corollario: la medicina, scienza della normalità dei corpi,
si insedia nella pratica penale come strumento essenziale della guarigione.
Secondo elemento: il rapporto tra potere politico e corpi. La costrizione
sui corpi, i modi dell'intervento su di essi, controllo, assoggettamento,
dominio materiale, origina una fisica del potere che fa da contrappunto
allo sviluppo di nuove strutture statali, concrezioni giuridiche di una nascente
economia. Intorno a questo spazio della pena si dispongono alcuni meccanismi
che sono istanze del potere stesso. Vedere: tutto deve essere osservato, scrutato,
trasmesso; organizzazione di un corpo di polizia (ogni evento è corpo
ormai), approntamento di un sistema d'archivi, istituzione del panottismo
come funzione generalizzata dello sguardo che controlla senza essere visto.
Costruire: bisogna isolare e raggruppare gli individui attraverso una meccanica
del corpo che utilizza le forze, migliora il rendimento, disciplina tempo,
vita ed energie. Normalizzare: è indispensabile creare un sistema di
norme, escludere e respingere tutto quanto non è conforme, ristabilire
l'equilibrio correggendo e punendo.
Terzo, ma non meno importante fattore, l'istituzionalizzazione della delinquenza.
Messa in opera di una categoria sociale continuamente richiamata dalla prigione
e continuamente marginalizzata nel momento stesso in cui se ne dichiara il recupero.
Un circuito in realtà cortocircuitante che richiama sempre gli stessi
esercitando una pressione sull'illegalità; l'istituzione penale conduce
per il tramite della delinquenza l'irregolarità all'infrazione e quindi
alla punizione, trasforma i delinquenti in strumento di sorveglianza dell'illegalità
(arruolando provocatori, informatori, poliziotti. Ricordate Vidocq?), dirotta
le infrazioni verso i ceti più importanti da controllare.
La prigione produce devianza, criminalità per esercitare la sua funzione
di tattica perenne del dominio sui corpi; essa è parte integrante di
quella fisica del potere che ha suscitato, dice Foucault, la psicologia del
soggetto.
Scienza
Finita l'epoca dei grandi viaggiatori, John Howard, che nel volgere di dieci
anni visita le prigioni dei maggiori Stati europei, Tocqueville e Beaumont,
col loro viaggio di studio in America quasi un trentennio più tardi nel
1831, e conclusosi il tempo dei riformatori filantropi del secolo dei Lumi,
da Beccaria a Bentham, la seconda metà dell'ottocento conosce il fiorire
delle scienze umane, di campi del sapere che specializzano via via un insieme
di conoscenze in stretta relazione tra loro, un'intersezione fitta di discorsi
che danno regolarità e giustificazione all'assetto sociale e politico.
Il diritto penale, il complesso intreccio delle norme giuridiche che sanzionano
il comportamento criminale e le esigenze della società civile, società
punitiva si è detto prima, si incontrano in almeno due discipline destinate
a notevole fortuna: psichiatria ed antropologia criminale. Per coglierne assieme
gli effetti e constatarne le valenze nella disposizione che assunsero in quel
periodo che chiudeva un secolo e ne apriva un altro, il nostro, racconteremo
di Cesare Lombroso, antesignano del moderno criminologo e padre indiscusso della
scienza dei devianti.
Quando apre il cranio del brigante Vilella, Lombroso non sa ancora che sta
per fare la scoperta che lo porterà presto a formulazioni fondamentali
di un nuovo discorso sul corpo. Ma nel momento in cui l'occhio si posa, irrinunciabile
potere dello sguardo che taglia, seziona, cataloga, nel punto dove si erge
normalmente la piccola cresta, qualcosa appare lì dove non dovrebbe
essere: è una vistosa anomalia che ha l'aspetto di una fossa, Lombroso
la chiamerà occipitale mediana, e che occupa il posto della cresta.
Questa diversità accomuna il cervello del brigante a quello degli animali
inferiori.
"Così si spiegavano anatomicamente le enormi mandibole, e i grandi
zigomi, e le arcate sopracigliari spiccatissime, le pieghe palmari uniche, la
maggiore ampiezza dell'orbita, le orecchie ad ansa o sensili che si trovano
nei criminali come nei selvaggi o nelle scimmie, e l'insensibilità dolorifica,
la grande acutezza visiva, il tatuaggio, l'eccessiva pigrizia, l'amore dell'orgia,
il bisogno del male per il male, il bisogno di uccidere, non solo, ma di inferocire
sulle vittime, di beverne il sangue." (Lombroso)
L'idea di personalità tipica del criminale lo aveva colpito per la
prima volta, singolare intreccio di istituzioni che hanno molti caratteri
in comune, osservando i tatuaggi dei soldati, quelli disonesti, a detta della
sua esperienza (era stato medico militare presso l'ospedale di Torino e nell'esercito
per circa sette anni), molto più tatuati degli onesti. Con il processo
che si svolse in quegli anni contro il soldato Misolla, epilettico e uccisore
di otto commilitoni, Lombroso arriva alla definitiva conclusione che esiste
un legame intrinseco fra epilessia e delitto; proseguendo negli studi si convince
che il pazzo morale e il delinquente nato possono essere identificati coll'epilettico.
La ricerca dello psichiatra italiano che si inventò l'antropologia
criminale, divenuta cattedra universitaria nel 1905 ed affidata allo stesso
Lombroso, è minuziosa e pervicace: le notizie sull'imprevidenza dei
criminali, sulla loro mancanza di rimorso, sulla maniera di contenersi prima,
durante e dopo il delitto in modi diversi a seconda della diversità
del reato, forniscono a giudici ed avvocati un insieme di criteri per desumere,
con certezza assoluta, la colpevolezza o l'innocenza dell'accusato. Come afferma
Zerboglio, stimato biografo lombrosiano, nel suo volumetto del 1912, è
dagli studi di Cesare Lombroso che la polizia ha tratto gli spunti addirittura
per la sua riforma ed è dalla sua descrizione positiva della
delinquenza, attenta nosografia del deviante, che la scuola austriaca ha potuto
fondare la cosiddetta criminalistica. Il travaso dell'antropologia
criminale nelle aule di giustizia diventa marea; nei dibattimenti penali non
si riesce a fare a meno del supporto dello psichiatra e del criminologo per
investigare, frugare, accertare intorno alla figura del reo che finisce per
essere oscurata dallo stesso dire su di esso, incitamento ossessivo al pronunciare
i discorsi della scienza. I congegni dello svolgersi della psicologia del
criminale, i sentimenti che accompagnano il formarsi della coscienza criminosa
sono indagati con cura meticolosa. Alle discipline penitenziarie, desiderose
di riaffermare il proprio ruolo assecondando l'emergere di altre purché
funzionali, l'analisi naturalistica del delitto vuole insegnare fino
a che punto la pena possa intimidire o correggere i delinquenti e quanto la
repressione sia utile alla difesa sociale oppure procuri effetti negativi.
Lombroso si occupa anche direttamente e del resto come non avrebbe potuto
essere?, della questione carceraria. Raccoglie persino una serie di documentate
testimonianze andando a decifrare le grafie rozze ed incerte con cui i detenuti
incidono sulle pareti delle celle i loro pensieri e le loro angosce. Nel 1891
le riunisce in uno stesso volume, Palimsesti dal carcere, accanto ad
alcune considerazioni sulla struttura penitenziaria e ad alcune biografie
originali di detenuti di ambo i sessi, rinchiusi nelle prigioni del Regno.
Sistematizzate per temi (la giustizia, il detenuto, le passioni, i crimini
etc.) le iscrizioni vengono analizzate statisticamente, corrispondenza interdisciplinare
con un altro effetto della scienza positivista, con un'ampia tavola di riferimenti
in percentuale. I palinsesti criminali, sostiene Lombroso, ci rivelano quel
che più conta e cioè che gli scopi del carcere cellulare quasi
mai si raggiungono; si crede di impedire l'associazione tra i prigionieri,
il compagnonaggio, quando invece appare il contrario. Nel carcere si
realizza quella forma di cameratismo che forse prima mancava: si origina una
vera e propria tradizione carceraria che diventa linguaggio ed organizzazione
del vivere e che si trasmette di volta in volta ai nuovi arrivati. La prigione
è luogo della comunicazione e dell'apprendimento della delinquenza
per chi sta dentro, per chi sta fuori e per chi passa dall'una all'altra condizione.
Le osservazioni si fanno ancora più critiche quando Lombroso analizza
il ruolo dell'impresa, "tiranno nascosto che domina tutte le carceri";
l'articolazione necessaria del lavoro dell'imprenditore che usa dei detenuti
per attività che vanno dalla sartoria alla falegnameria crea collegamenti
inevitabili con l'ambiente esterno che non isolano assolutamente nessuno.
Allora nei laboratori del carcere cellulare, appunto per impedire le comunicazioni,
non si permettono che pochissimi lavori; questo intervento forzoso continua
ad opporre difficoltà a difficoltà. Oltre al danno materiale
che ne viene allo Stato ed alle persone costrette all'ozio forzato senza altro
sfogo che l'onanismo, ne consegue anche un danno futuro; infatti gli individui
attivi si abituano a non fare niente o molto poco e quando ritornano alla
vita esterna sono spinti a delinquere per ritornare a quella condizione d'ozio
che hanno finito per apprezzare.
Nemmeno il problema dell'istruzione nelle carceri sfugge al prolifico antropologo:
meglio potenziare le attività manuali consentendo al prigioniero di
migliorare le proprie qualità di lavoratore piuttosto che perder tempo
a consegnargli una scolarizzazione che comunque userebbe per continuare con
maggior profitto a commettere crimini. La criminalità sta non nel difetto
di intelligenza ma nel difetto di sentimento.
La conclusione del libro di Zerboglio, attento biografo, degna della miglior
dottrina positivista, dà schiettamente voce alla società disciplinare
ed al nuovo secolo (il '900) che da quel modello disciplinare riceve stimoli
e suggestioni.
"Quando si sarà composto il dissidio fra la libertà, l'autorità
e la difesa sociale; quando avremo mezzi superiori agli odierni per accudire
la pianta uomo; quando in una parola il consorzio degli uomini sarà
governato da una più grande solidarietà di lavoro, di bisogni,
di intenti, quelle teorie potranno più sicuramente reggere il costume
e la legge. Il colossale lavoro di Cesare Lombroso non andrà mai perduto;
sarà titolo perenne di gloria al maestro aver studiato l'uomo,
aver invitato noi tutti a riconoscere che vani sono i conati di semplice rivoluzione
delle cose, al di là e contro la natura dell'uomo, cristallo di rifrazione
delle cose stesse, che deforme, le deforma, che limpido e puro, le riverbera
limpide e pure."
L'umanità rinnovata dal paradigma di una scienza che ne assume il possesso
fin dentro ai recessi del corpo e della mente, riflette in quel cristallo anche
le sfaccettature, mobili ed irrequiete, di un potere che la domina instancabilmente.
Continuità e contiguità
Lo svolgersi della storia del carcerario, definitivamente sistema dotato di
caratteristiche ben individuabili da metà ottocento in avanti, prosegue
nel XX secolo con ritmi e procedure che questo abbozzo di ricerca non riesce
a delineare per il momento. Tuttavia una traccia per la futura indagine è
sempre possibile.
Nell'America degli anni '30 si avverte per la prima volta la necessità
di un carcere di massima sicurezza. Originariamente si tratta di una
semplice idea architettonica per impedire le rivolte. Il famoso carcere a
palo telefonico, progettato dallo statunitense Hopkins in quegli anni,
è uno dei primi esperimenti concreti di massima sicurezza. Non più
vedere senza essere visti, come nel modello di Bentham, ma reprimere, incasellando,
chiudendo, isolando: ritorno inaspettato di una violenza che i riformatori
di due secoli prima escludevano con forza. Militarizzazione progressiva non
soltanto all'esterno, ma anche dentro al carcere, difesa immediata, quando
non attacco senza preavviso sono le caratteristiche dell'ennesima macchina
del potere. La quotidianità di questa istituzione riflette i suoi caratteri
architettonici. L'isolamento totale accascia il detenuto, lo spoglia di qualsiasi
riferimento psicologico, annulla la volontà; l'unico recupero ammesso
è quello di una morte che liberi dalla sofferenza della deprivazione
sensoriale, dell'angustia della cella insonorizzata, dell'immobilità
del corpo.
Le linee di discontinuità, dove esistono, o quelle di continuità
che hanno fatto arrivare sino a noi il carcere speciale, come è
definito nel nostro linguaggio sociale da quasi vent'anni ormai, possono essere
riprese, ritrascritte, rimarcate nei solchi di un racconto che si intreccia
con altri luoghi della società contemporanea, con altri progetti ed
altre strategie, con tecniche sofisticate del controllo su cose e persone.
Questi figli mostruosi, parto doloroso di una società che nel secolo
delle democrazie ha conosciuto guerre e scontri tra i più sanguinosi,
sono una parte consistente di quel rumore sordo di battaglia che a Foucault
sembra di sentire nella chiusa a Sorvegliare e punire ed i cui echi
non si spengono ancora.
La ritualizzazione del potere in Occidente assume aspetti insoliti, torsioni
inaspettate che rinnovano antiche pratiche o ne predispongono di nuove. Il
soggetto politico che risulta dagli anni della contestazione di un sistema
culturale e sociale nel suo complesso è radicalmente diverso dagli
altri finora conosciuti. Esso stravolge radicalmente il patto stabilito tra
liberi, attenta alla sicurezza della società perché ne vuole
l'annullamento, non la trasformazione. Questo deviante che diventa piccolo
gruppo in tutt'Europa mina dalle fondamenta il senso stesso dei principi dell'ordine
democratico, tenta di svelarne le complicità col potere dell'economia
capitalista. E che cosa produce nella compostezza delle tecniche del controllo
borghese, se non disagio, se non terrore? Perché porta alle estreme
conseguenze, violenza fisica dello scontro, una ribellione che serpeggia ormai
da tempo nell'apparente compostezza della maggioranza silenziosa?
In assenza di un contratto sociale che viene annullato immediatamente dallo
svolgersi degli eventi, la risposta dell'apparato di controllo è decisa.
Il carcere di massima sicurezza è il luogo di quell'annullamento, quello
spazio della segregazione che diventa vuoto normativo, mancanza di regole
nella loro presenza assoluta. All'interno della sua architettura estrema,
soffocamento della psicologia individuale, moltiplicazione degli effetti della
deterrenza e frammentazione della coscienza, soluzioni estreme: puro
annientamento dell'oppositore, per ripristinare l'equilibrio politico esterno;
un campo di concentramento che denuncia la presenza di una guerra interminabile.
Questa guerra silenziosa, le cui disposizioni tattiche non sono conosciute
se non da chi sta dentro, incita drammaticamente la violenza e la perpetua
in un tessuto sociale che è apparentemente pacificato, ne è
palestra continua.
La militarizzazione del territorio, seguita alla fine dell'ultimo conflitto
mondiale, la spartizione delle aree essenziali all'equilibrio tra potenze
sono l'esempio più evidente del controllo totale richiesto da
un potere che cerca la sua definizione totale. Potere sulla vita che la allunga
e la preserva dall'imminenza della morte e proprio per questo se ne impossessa
completamente.
Nello scenario politico del controllo non c'è posto per la devianza
che annuncia l'imminente presa del potere, il cambiamento stesso della fondatezza
delle norme. Il circolo carcerario chiude la sua trappola mortale rinnovando
in se stesso, fino al limite estremo, il disordine del conflitto. Disordine
dello spirito, annientamento dell'alterità irriducibile, riproduzione
incessante della violenza. Disarticolare le ragioni dell'introduzione della
massima sicurezza, valutarne le conseguenze, disegnare la cartografia di un
territorio così frastagliato, è un'operazione complessa, non
c'è dubbio; ma è anche l'unico modo per tentare di scavalcare
il muro che separa l'interno dall'esterno, probabilmente ritornare ad essere
società.
Bibliografia
C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Feltrinelli, Milano, 1991.
J. Bentham, Panopticon, ovvero la casa d'ispezione, Marsilio Editori,
Venezia, 1983.
P. Camporesi, Il pane selvaggio, Il Mulino, Bologna, 1973.
- Il paese della fame, Einaudi, Torino, 1980.
- Il libro dei vagabondi, Einaudi, Torino, 1983.
R. Canosa, Storia del carcere in Italia, dalla fine del '500 all'Unità,
Sapere 2000, Roma, 1984.
A. Capelli, La buona compagnia, Utopia e realtà carceraria nell'Italia
del Risorgimento, Franco Angeli, Milano, 1988.
C. Cattaneo, Della riforma penale, Milano, 1907.
D. Chapman, Lo stereotipo del criminale, componenti ideologiche e di classe
nella definizione del crimine, Einaudi, Torino, 1978.
L. Chevalier, Classi lavoratrici e classi pericolose a Parigi nella rivoluzione
industriale, Laterza, Bari, 1976.
S. Cohen, Uno scenario per il sistema carcerario futuro, in Crimini
di pace (a cura di F. e Fr. Basaglia), Einaudi, Torino, 1976.
P. Colquhoun, Treatise on the Police of the Metropolis, London, 1800.
A. de tocqueville, G. de Beaumont, Système penitentiaire aux Etats
Unis et de son application en France; suivi d'une appendice sur les colonies
pénales, et de notes staistiques, in Ouvres complètes,
Gallimard, Paris, 1984, t.IV.
R. Dubbini, Architettura delle prigioni, i luoghi e il tempo della punizione
(1700-1880), Franco Angeli, Milano, 1986.
A. Fontana, Dall'oggetto polizia al piano di guerra, Aut Aut n.167-168,
1978.
M. Foucault, Microfisica del potere, Einaudi, Torino, 1982.
- Les mots et le choses, une archéologie des sciences humaines,
Éditions Gallimard, Paris, 1988.
- Surveiller et punir, naissance de la prison, Éditions Gallimard,
Paris, 1992.
- Histoire de la folie à l'âge classique, Éditions
Gallimard, Paris, 1992.
- La société punitive, in Résumé des
cours, 1970-1982, Julliard, Paris, 1988.
E. Gallo, V. Ruggiero, Il carcere in Europa, Bertani Editore, Verona,
1983.
U. Henriques, The rise and decline of the separate system of prison discipline,
Past and present, n.54, 1972.
E. Hobsbawm, Banditi, Einaudi, Torino, 1971.
J. Howard, The State of prisons in England and Wales, 1792.
M. Ignatieff, Le origini del penitenziario, sistema carcerario e rivoluzione
industriale inglese 1750-1850, Mondadori, Milano, 1982.
C. Lombroso, Palimsesti dal carcere, Bocca Editori, Torino, 1891.
- L'uomo delinquente, Bocca Editori, Torino, 1897.
- La funzione sociale del delitto, Sandron Editore, Milano-Palermo,
1899.
D.J. Mabillon, Réflexions sur les prisons des Ordres religieux,
in Ouvrages Posthumes, Paris, 1724, t.II.
H. Marcuse, L'autorità e la famiglia, Einaudi, Torino, 1982.
D. Melossi, Pavarini D., Carcere e fabbrica, Alle origini del sistema penitenziario,
Il Mulino, Bologna, 1982.
I. Mereu, Storia dell'intolleranza in Europa, Bompiani, Milano, 1988.
P. Pasquino, Theatrum politicum, Aut Aut n.167-168, 1978.
M. Perrot (a cura di), L'impossible prison, Seuil, Paris, 1980.
- Alexis de Tocqueville e le prigioni, ovvero: il cattivo odore del liberalesimo,
Aut Aut, 195-196, 1983.
C. Petitti di Roreto, Della condizione attuale delle carceri e dei mezzi
di migliorarla, in Opere scelte (a cura di G.M .Bravo), Torino,
1969, t.I.
L. Radzinowicz, Alla ricerca della criminologia, Giuffrè, Milano,
1964.
- Ideologia e criminalità. Uno studio del delitto nel suo contesto
storico sociale, Giuffrè, Milano, 1968.
G. Rusche, O. Kirchheimer, Pena e struttura sociale, Il Mulino, Bologna,
1978.
F. Venturi, Settecento riformatore, Einaudi, Torino, 1969.
M. Weisser, Criminalità e repressione nell'europa moderna, Il
Mulino, Bologna, 1989.
R. Villa, Il deviante e i suoi segni, Franco Angeli, Milano, 1985.
A. Zerboglio, Cesare Lombroso, Formiggini Editore, Genova, 1912.