Contro la legge

Il problema della legalit�

Il livello del moderno scontro di classe, scontro che è già in atto anche se in forme frammentarie e talora confuse, esige che i rivoluzionari prendano coscientemente e coerentemente posizione nei confronti del problema della legalità, poiché esso è contemporaneamente il problema dei nuovi connotati che la moderna lotta rivoluzionaria assume e delle strutture repressive in cui il potere tende a manifestarsi. I discorsi che straripano dall'ultra-sinistra relativamente alle attività clandestine, alla guerriglia armata e simili, impongono inoltre una chiarezza assoluta su questo punto, pena il ricadere in un volontarismo neo-resistenziale ed in una idolatria cieca della violenza. La violenza è certo la "levatrice della storia", ma a questa violenza che è già in atto i rivoluzionari devono dialetticamente sintonizzare la propria coerenza senza sperare, con procedimenti di tipo tupamaroide, di spacciare per organizzazione cosciente della violenza la violenza incosciente dell'organizzazione, sostitutiva del reale ed anzi spesso costitutiva di una realtà fittizia fatta ad immagine del capitale, anche se con segni di valore ribaltati.

La legge come struttura portante del potere

È dire cosa ovvia che la legge, in quanto manifestazione della conservazione del potere ed in quanto organizzazione materiale della repressione, è l'espressione fenomenica del livello dei rapporti di produzione, così come è la risultante delle linee contrapposte di classe. La legge è sempre stata strumento del potere, non solo come manifestazione formale e sanzionatoria dei rapporti sociali di forza, ma anche come materialità precisa in cui il potere si è espresso nella sua concretezza di amministrazione, cioè di governo. Nella società capitalista moderna la legge ha assunto un senso ancora più pregnante e preciso. Nella misura in cui la produzione e la circolazione di ideologia hanno coperto uno spazio sempre maggiore nella produzione e circolazione di merci, nella misura in cui l'ideologia (vale a dire falsa coscienza del reale, norme comportamentali, "visioni del mondo", etc.) si è affiancata crescientemente al denaro in quanto equivalente generale dello scambio, in questa misura la legge non si è più posta come secrezione fenomenica della gestione del potere, ma è divenuta essa stessa struttura portante del sistema di valori capitalista. Naturalmente in questo processo dilatatorio vengono a mutare anche le basi materiali su cui poggiava l'organizzazione amministrativa della legge. La "norma" (il "nomos" greco), come criterio informatore dei comportamenti degli individui così come dei gruppi sociali, ha perso sempre più significato con il mutare dei cosiddetti valori morali (essi stessi, ovviamente, valori di scambio, nello scambio di dignità e rispettabilità, fondamentali per la "credibilità" degli individui ridotti a spettacolo mercificato di se stessi). Attualmente è assai difficile stabilire i limiti della "normalità", poiché il prosperare di ideologie formalmente contrastanti conduce necessariamente ad una situazione di tolleranza nei confronti della molteplicità dei comportamenti. Ciò che ad esempio è "sconveniente" se non intollerabile, in una cellula sociale di tipo autoritario e repressivo "vecchia maniera" diventa addirittura titolo di accettazione in cellule sociali auto-definentesi progressiste. Insomma a livello sociale il concetto di anomia si è sfrangiato. La tolleranza repressiva (in quanto tollera ogni situazione ideologicamente giustificabile e reprime ogni condotta deideologica, cioè essenziale per la costruzione della vita) ha preso il posto, nella presente società spettacolare, dell'intolleranza autoritaria e limitatrice della società precedente, fondata sul dominio formale del capitale, cioè su un capitale che non si è ancora fatto uomo e società contemporaneamente. A questo punto, di fronte a questo differenziarsi della "normalità" e dei valori etici ad essa connessi, la legge assume sempre più il significato di punto fermo, ponendosi come costante nel (e del) procedere sociale. La società spettacolare si fonda sulla molteplicità delle ideologie per riaffermarsi come ineliminabile "summa" di essa. La legge è il punto di paragone e di limite nel gioco delle ideologie concesse.

La legge come paura della sanzione

La legge è essenzialmente la paura della sanzione che giunge ai trasgressori della legge stessa. La gestione sociale della paura - di qualunque natura essa sia - è privilegio del potere. Nessuno ormai crede più in significati intrinsechi e morali della legge, poiché la molteplicità degli atteggiamenti concessi non può che provocare sfiducia in una morale "superiore" che fondi la legge e ne giustifichi l'esistenza. La legge, pertanto, si autonomizza da uno dei suoi fondamenti storici: la morale. E può farlo in quanto essa stessa è divenuta, per il solo fatto di esistere, morale, cioè fondamento etico di sé medesima. Infatti essa è divenuta parametro sociale di "valore" morale non in quanto principio astratto o in quanto specifico ordinamento codificato, ma nella materializzazione della sua ideologia, cioè il carcere. È il carcere - la sua realtà determinata in quanto restrizione e coazione - che determina il senso della legge e non viceversa. Questo il processo di autonomizzazione dell'ideologia che diviene materialità precisa con incorporato in sé tutto il bagaglio morale, culturale, filosofico, ecc. (ideologico insomma) che storicamente la determinò e giustificò, in quanto ideologia particolare ed in quanto materializzazione di essa. La paura del carcere è, al pari, la conseguenza a livello sociale della semplice esistenza della struttura-carcere, come organizzazione materiale ideologia-legge. In altri termini, se la legge è comprensibile solo se vista in funzione delle sanzioni (il carcere), il carcere è comprensibile per la sua ideologia, la dequalificazione sociale che la permanenza in esso determina. E questo non per vecchi motivi come "il marchio del carcerato" che ormai non scandalizzano più nessuno (anzi in certi ambienti sono motivo di vanto), bensì per la privazione del consumo dì libertà, che determina la dequalificazione sociale contenuta nella limitazione della libertà di consumo. D'altra parte nei gruppi sociali che esaltano il carcere in quanto esperienza (e si pensi oltre alla malavita classica, ai gruppi dell'ultra-sinistra in cui - e non illogicamente - il compagno detenuto assume posizione di particolare prestigio) , il "recupero" avviene per la funzione propedeutica che esso può avere rispetto alle attività future, funzione quindi "formativa" che potrà accrescere le "capacità" degli individui ex-carcerati una volta reimmessi nelle libertà di consumo (quello di ideologia politica non escluso). Ma quando questa particolare forma di "qualificazione" non si prospetta, allora il carcere riprende tutto il suo pauroso senso di dequalificazione effettiva. Ciò può capitare anche per i malavitosi e per i politici: per i primi nel caso di condanne particolarmente pesanti (che, togliendo dal "giro" per molto tempo, diminuiscono conoscenze e capacità), per i secondi nel caso di condanne per reati comuni o comunque non utilizzabili ai fini della propaganda. In sintesi il carcere ha la funzione da un lato di costituire il timore di essere privati del proprio ruolo nella sopravvivenza sociale, dall'altro di fornire la credibilità e l'accettabilità alla sopravvivenza sociale stessa. La legge fonda il suo sinistro potere su questo profondo timore, basato sul consumo di merci come di immagini, racchiudente, però, in sé le contraddizioni che determineranno non solo il suo crollo in quanto timore, ma il crollo delle sue fondamenta : la legge, il consumo, l'organizzazione della produzione come la viviamo in questa fase storica del dominio del capitale. The ice hockey federation has worked out a special program for the development of volleyball betting with promo Parimatch and young ice hockey players. For example, there are special people who travel throughout Germany to monitor the training programs of young players and improve their quality.

La contraddizione insita nella libert� di consumo

Un qualsiasi timore per essere realmente efficace deve essere minaccia nei confronti di un bene effettivo (o supposto tale), ma, nella misura il cui risulta efficace, valorizza, sempre più, il bene minacciato. Quindi è precisamente la minaccia della privazione di consumo che qualifica al massimo il consumo stesso rendendolo più che mai appetibile. Ciò determina in parte il dilagare di "delitti" compiuti proprio nell'ottica di un aumento del tasso di consumo. Insomma il discorso spesso inconscio del ladrone è questo : "la proprietà di molte merci, ed il prestigio che ne consegue (spesso anche viceversa), è fondamentale, perciò viene tutelata dalla legge che, a questo scopo, giunge anche a minacciare l'unica proprietà di tutti: la libertà di vendersi-possedere. Se io cerco di impadronirmi di merci o del loro equivalente generale, il denaro, posso essere sanzionato duramente ed essere privato della libertà; d'altra parte se io non possiedo merci o denaro non posso esprimere alcuna libertà reale; quindi rischiando il carcere rischio un bene potenziale - il consumo di libertà - per ottenere un bene attuale - la 1ibertà di consumo; il gioco vale la candela e i conti tornano." Ciò determina un forte aumento della delinquenza che possiamo chiamare ideologica, cioè consumistica. Ed è grossa parte. È chiaro che non si può parlare di questi delinquenti come di rivoluzionari, tutt'altro. Essi sono una base della produzione di carceri, giudici, avvocati e gente simile. Tuttavia questa spirale, tendente a stringersi sempre più, determina una contraddizione oggettiva nel sistema di valori capitalista. Infatti la società non può ammettere la verità che sta sotto questi episodi: che questo tipo di delinquenza è produttivo al pari di molti altri lavori. Non può ammetterlo perché squalificherebbe il senso stesso della legge e del suo braccio armato : il carcere. D'altra parte non ammettendolo (e non accettando la delinquenza come normale professione) tende a renderla realmente fuori legge ed obbliga i delinquenti, inizialmente ideologizzati al pari di altri strati di lavoratori, a radicalizzare lo scontro per autodifesa accettando l'inumanità capitalista, fino in fondo, ma stravolgendola in direzione antisociale. In questo modo si spiega l'efferatezza di certi crimini e l'inumanità capitalista (il disprezzo per la vita, valutata solo in misura quantitativa,cioè mercificata) che si mostra in tutta la sua ferocia. Solo una società che nega assolutamente la vita, inchiodando tutti alla sopravvivenza più degradata, può generare dei "delinquenti" che, come gli attuali, abbiano una così profonda disistima non solo della vita altrui ma anche della propria. Insomma questa delinquenza, proprio perché riafferma sì l'ideologia dominante ma stravolgendola parossisticamente, non è certo la rivoluzione in atto e i suoi membri non sono certo dei rivoluzionari coscienti, ma essa è il sintomo di uno sgretolamento progressivo, di una contraddizione esplosiva (la società che stimola consumi che non è in grado di soddisfare) che può diventare una base materiale per l'organizzazione soggettiva della rivoluzione proletaria moderna.

La teppa come critica del consumo di libert�

Ma questo aspetto appena descritto è solo una, e nemmeno la più grave, delle contraddizioni che la legge, cioè il timore del carcere, contiene in sé. Un'altra in senso più esiziale per l'ordine capitalista sta scoppiando. Infatti se è vero che una minaccia può valorizzare un bene, d'altra parte questa minaccia, resasi costante, può indicare se è il bene stesso a non avere alcun valore positivo. Se avesse valore intrinseco non vi sarebbe alcun bisogno di tutelarlo attraverso l'organizzazione delle minacce. In altri termini, si è detto che il timore del carcere è in realtà timore per la privazione di consumo. Ebbene, questa libertà e questo consumo possono essere desiderati come "beni" solo nella misura in cui siano considerati materialmente tali, e perché questa avvenga, bisogna che essi siano realmente posseduti. Ma il disprezzo capitalista per la vita (e la carcerizzazione ne è un chiaro esempio) dimostra come la "vita" stessa in una società capitalista non sia molto stimata come bene, mentre la "vita" dovrebbe essere la base per il costituirsi in "beni" di libertà e consumo. Se la vita capitalista tale non è, e non è appetibile, libertà di consumo e consumo di libertà diventano concetti vuoti di senso. Il timore del carcere non è maggiore del timore della sopravvivenza imposta. Così il disprezzo della vita umana dimostrato dalla società nel suo insieme diventa il suo opposto negatore: il disprezzo della sopravvivenza e la richiesta impellente della vita. È ciò che molti proletari, resisi coscienti dell'impossibilità di morire giorno per giorno, stanno manifestando. Ed è questa la moderna criminalità che sta già ponendo le basi per la costruzione di quella comunità realmente umana che spazzerà via l'attuale disumanità organizzata. Alcuni di questi criminali non rientrano PIÙ nel parossismo dell'ideologia. Essi stanno invece mostrando un estremo disprezzo per le condizioni generali in cui ognuno è costretto a sopravviversi. Se il primo tipo di delinquenza (quella ideologico-comunista) è una base materiale per la rivoluzione, questa teppa, poiché di ciò si tratta e non di delinquenza storica, è GIÀ lo scontro rivoluzionario in atto. E ciò è dimostrato non solo dal fatto che il potere non riesce a spiegarsi questi gesti rivoluzionari, ma soprattutto da una lotta continuata contro ogni forma di carcere, da quello dato dalla "normalità" della vita quotidiana fondata sul lavoro (poco importa di che tipo, poiché anche il furto è una lavoro quando si professionalizza) sino al carcere vero e proprio. Le recenti rivolte carcerarie, che stanno dilagando ovunque, come le sempre più frequenti esplosioni di rabbia collettiva ed individuale che sconvolgono lo squallore della vita di tutti i giorni, non sono certo il frutto della delinquenza storica, bensì di quella teppa che ha già in sé l'embrione della coscienza rivoluzionaria.

Antilegalit� come eversione

È evidente a questo punto che il problema della legalità non si può più porre (se mai si è potuto) nei termini in cui le ultra-sinistre lo stanno ancora ponendo: Non si tratta cioè di giungere all'illegalità poiché essa già esiste. Casomai si tratta di trovare-inventare le forme specifiche dell'organizzazione eversiva affinché questi gesti criminali non si riducano alla rivolta, ma giungano alla rivoluzione. D'altra parte l'illegalità proposta dagli ultra-sinistri (con le tentazioni gappistiche e tupamaroidi) è in fondo una forma rovesciata di legalità, poiché si richiede di infrangere la legge per un'ideale particolare, per una nuova ideologia. MENTRE INVECE LA RIVOLUZIONE MODERNA È CONTRO OGNI LEGGE (compresa la sedicente legalità socialista), poiché ogni legge è estraniazione, mentre è già la affermazione dell'unica "legalità" possibile: la coerenza permanente con la propria essenza umana. Insomma se la lotta politica può divenire legale (poiché non riconosciuta da questi governi, ma riconoscibile da altri governi futuri), la lotta rivoluzionaria è essenzialmente antilegale, poiché mai potrà riconoscere alcun governo ed alcun potere che non sia la Comunità umana realizzata. È chiaro perciò che nella nostra condotta non solo devono essere battute tutte le remore di tipo legalistico, ma del pari tutte le tentazioni di tipo politico-illegalistico o, nuova mostruosità, gli scimmiottamenti di tipo teppistico o criminale (sarebbe il colmo che all'idiozia del "servire il popolo" si sostituisse quella di servire la teppa!) Non si tratta perciò di organizzare noi stessi e gli altri in bande di guerriglieri armati che mimino scioccamente la realtà di quello scontro armato che dovrà prodursi quando le forze proletarie saranno soggettivamente organizzate ed organiche, così come non si tratta di trasformarci in bande di ladroni che si danno ad ogni tipo di teppismo per imitare acriticamente una realtà antilegale che duri lo spazio intero del tempo, lo stravolga e ne rifiuti le determinazioni castranti dei tempi misurabili quantitativamente. Si tratta di non essere mai gli specialisti di una forma di lotta antilegale, non tollerare MAI che esista una separazione tra un nostro tempo legale ed un tempo antilegale, poiché sarebbe riprodurre una delle divisioni fondamentali in cui il dominio del capitale ci costringe. Essere antilegali nelle ventiquattrore non è ancora essere antilegali in assoluto, poiché esserlo in assoluto significa distruggere determinatamente ogni forma di legalità esterna, tempo compreso. Questa è l'organizzazione antilegale che è necessario costruire e vivere.

LA LOTTA RIVOLUZIONARIA È ESSENZIALMENTE ANTILEGALE POICHÉ NON POTRÀ MAI RICONOSCERE ALCUN GOVERNO ED ALCUN POTERE CHE NON SIA LA

COMUNITÀ

UMANA

REALIZZATA

 



Tratto da:
COMONTISMO - Per l'ultima Internazionale - 1972
Pubblicato integralmente su http://www.nelvento.net