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Carcere e comunità
Il carcere è luogo delle privazioni e del controllo. La comunità
è luogo del controllo e delle privazioni. Entrambi territori dell'imposizione,
non sono però la stessa cosa. La galera costringe all'ozio forzato, la
comunità al suo contrario: il lavoro forzato, anche nei confronti di
se stessi. Il carcere è così fuori dal tempo da essere maledettamente
attuale; la comunità è talmente ripiegata sul qui e ora da legare
le proprie radici vischiose a un passato remoto. Ho conosciuto diverse galere,
in vari angoli d'Italia. A ogni intreccio di ruvidi sacchi in spalla lasciavo
qualcosa di più che compagni e cose. Davanti a un nuovo cancello mi assaliva
il timore dell'ignoto: eppure le sbarre, le divise, le celle, gli odori, gli
occhi fissi e vicini, la disperazione disseminata nella solitudine dei pensieri
e dissimulata nella sicurezza dei gesti erano esattamente gli stessi che avevo
perduto per un momento nelle catene del viaggio. Luoghi così uguali da
apparirmi diversi e sconosciuti. Ho poi vissuto dall'interno due comunità:
la clinica, costruita da un prete, e il rifugio, voluto da un frate; ne ho osservate,
con sguardo rapido o ascoltando racconti intrisi di gratitudine e rancore, molte
altre. Ancora oggi fatico a comprenderne il senso; o, forse, l'ho capito troppo
bene. Per un anno e mezzo ho vissuto una dimensione schizofrenica: detenuto
di notte, in prigione, e carceriere di giorno, in comunità. Ho sempre
odiato gabbie e prigioni, anche quelle di popolo, per i loro ristretti orizzonti;
ma il prigioniero non ha scelto la sua condizione: vi è solo, drammaticamente,
costretto. Entrare in comunità, in obliqua e pura linea teorica, è
frutto di una decisione autonoma, presa per disperazione; quindi per necessità,
come il lavoro in fabbrica o il ricovero in ospedale. L'annidarsi di questi
pensieri mi confondeva. Non alla sera, quando rientravo in carcere e l'agente
di turno mi perquisiva: lì la mia identità era certa e preziosa;
ma durante il giorno, quando il mio ruolo, depurato da ogni illusione giustificatoria,
era quello di controllare altri esseri umani. Con i miei compagni di detenzione
a metà nessun problema. Eravamo in undici in una camera, arredata con
quattro castelli da tre letti: le cuccette di un treno immobile e puntuale,
preso controvoglia ma con regolarità. Una branda era vuota, la selezione
naturale ne liberò in breve tempo altre due. Appartenevano a detenuti
di lungo corso, segnati da una ventina di anni di galera. Avevano lasciato fuori
un mondo con poche, essenziali regole: tra queste, il rispetto per chi stava
dentro. Ogni anno, una tacca; vent'anni, molte tacche. Ma, dopo tanto tempo,
anche quel mondo era cambiato: si era fatto, come tutto il resto, più
ricco e volgare. Li ammazzarono, a distanza di qualche mese. Il primo aveva
il piglio e il portamento del mafioso fuori tempo; il secondo invece portava
gli occhi tristi di un animale smarrito, intrisi di dignità e rassegnazione.
La notte in cui il suo letto rimase vuoto, fummo dettagliatamente e inutilmente
perquisiti; le indagini, si sa, vanno sempre in tutte le direzioni, spesso in
quelle sbagliate. Quella giusta era che aveva pestato i piedi a un piccolo boss
insulso e rampante, che di lì a poco, in assoluta coerenza, si sarebbe
iscritto a libro paga dello Stato. Tra i detenuti che dividevano con me stia
e turni di accesso al bagno, vi erano alcuni spacciatori. Consapevoli dei ruoli
diversi. Gianni era solito ripetere che in fondo lavoravamo nello stesso comparto,
con mansioni opposte: lui a far entrare i tossici nel tunnel, io a farli uscire.
Conversioni a U incluse. Era particolarmente affezionato a Paolo, uno dei ragazzi
che stava in clinica in quel periodo. Completamente rovinato: la domenica prima
del suo ingresso in comunità aveva visto un gran premio di Formula uno
con la televisione spenta. Dal punto di vista del pusher, si trattava di un
cavallino di fiducia: quando veniva fermato, non se la cantava. Con ironico
rammarico, Gianni commentava: "Glielo dicevo sempre, "Vendi, non farti"".
Per quei pochi momenti che ci separavano dallo spegnere le luci era, nel complesso,
una buona compagnia. Quando uscimmo per bene, ci trovammo a consumare vino e
ricordi in alcune cene. Poi la vita risucchiò tutti: qualcuno cercò
di adattarsi al vortice di una difficile quotidianità, qualcun altro
continuò a inseguire sogni acchiappando tremule farfalle, la maggior
parte tornò a fare il pendolare del carcere. I problemi li avevo in clinica.
Per alcuni mesi osservai in silenzio, cercando di capire le ragioni di cose
che mi suonavano strane; o che forse, più semplicemente, mi apparivano
incomprensibili. Ogni sera si svolgeva un piccolo supplizio. A tavola, al momento
del caffè, invece di scambiare quattro chiacchiere venivano scambiate
accuse. Le più piccole mancanze: il passaggio da una mano all'altra di
una sigaretta, il panino sgranocchiato al di fuori degli orari canonici, la
sosta non autorizzata sul lavoro diventavano occasioni per processi istruiti
da piccoli, improvvisati, compunti Torquemada. Chi veniva preso in mezzo doveva
ballare, riconoscendo la gravità dell'errore e l'elevato grado di tossicità
presente nei suoi comportamenti. Cominciai timidamente a chiedere il senso di
quei processi, che ai miei occhi mettevano a nudo le miserie di chi vestiva
i panni dell'inquisitore e non le colpe dell'inquisito. Le risposte cambiavano
a seconda dell'interlocutore, a dimostrazione che non solo quei momenti, ma
tutta l'impostazione e i congegni del programma erano considerati cose buone
e utili in sé, quindi indiscutibili. Del resto, si era sempre fatto così
e i drogati non avevano mai mostrato particolari resistenze al trattamento.
I più accorti, in particolare il prete, mi rimandavano che il problema
era mio: essendo ancora pervaso da regole e linguaggi della galera, vivevo a
loro giudizio quei compiti catartici come esercizi infami. Peccato che queste
cose le pensassi anche prima e che non fossi il solo, tra la gente comune. La
galera comunque mi obbligava a continui raffronti, e, per certi versi, mi appariva
meno disumana: un'impressione neanche tanto paradossale, se nel corso degli
anni ho visto varie persone preferire il ritorno in carcere al soggiorno in
comunità. Il carcere è segnato dal rapporto tra delitto e castigo,
la comunità dalla relazione tra colpa e redenzione. Si può subire
il castigo senza una partecipazione attiva; un percorso di redenzione richiede
invece il passaggio dalla frusta al cilicio. L'ossessione del sistema penitenziario
è il controllo, non il cambiamento, anche se nobili principi alludono
a una doverosa finzione rieducativa e alcune leggi sostengono di renderla possibile.
Tutto si svolge attraverso giochi di ruolo. Un giorno un assistente sociale
va a casa della famiglia per verificare se è disposta ad accogliere di
nuovo il reprobo: anche e soprattutto se è stato costretto per anni a
centinaia di chilometri di distanza e i rapporti si sono sfilacciati, chi dirà
di no allo sguardo indagatore di un funzionario dello Stato? Uno psicologo sottopone
il detenuto al test delle macchie di Rorschach, in cui, se è poco furbo,
riconosce una formica invece di un elefante, mentre, se è più
accorto, devia su un pino, immaginando il contrario come possibile traccia interpretativa.
Un educatore, che forse lo conosce di vista, deve stilare la relazione di sintesi,
nella quale vengono sottolineati con la matita rossa gli episodi di intolleranza
al regime penitenziario. Infine un tribunale, significativamente definito di
sorveglianza, decide nel corso di una giornata in cui altri trenta disgraziati
tentano la sorte sul grado di merito a ottenere una misura alternativa. Ovviamente,
se nella sentenza di condanna erano affiorati rapporti con la criminalità
organizzata (ma esiste criminalità senza organizzazione?), non se ne
parla nemmeno.
Una sana lotteria sarebbe più equa.
Al di fuori di questi movimenti imposti dalle regole della scacchiera, il carcere
è inerte, pura forza di conservazione. La branda è il luogo dell'ozio
forzato, dove si consumano televisione, a volte i pasti e spesso le nevrosi
del sesso solitario: i corpi, gradualmente e inesorabilmente, si rattrappiscono
e si ammalano; gli sguardi si spengono. In una cella di Canton Mombello i detenuti
aspettavano, per addormentarsi, la fine dei programmi, ma la televisione rimaneva
comunque accesa: macchie grigie e gracidio cantavano loro la ninna nanna. Forse
anche per questo la giornata televisiva si è allargata a 24 ore. Il tempo
del carcere è vuoto. Il tempo è valore d'uso, appartiene alla
soggettività: portarlo all'esterno, attraverso l'imposizione, lo trasforma
in valore di scambio. Non a caso il tempo di Aristotele, misurato correndo da
un prima a un poi, è anche l'unità di misura del lavoro salariato.
Questa dimensione, nelle prigioni, distrugge l'uomo in maniera feroce: nei suoi
punti estremi diventa la goccia insistente che separa la distanza dall'esecuzione
delle condanne a morte o l'angoscia che sovrasta il fine pena mai dell'ergastolo.
il valore di scambio tende a uccidere il valore d'uso. Esiste, però,
un altro modo di vivere il tempo, senza subirlo, ed è quello descritto
da sant'Agostino nelle Confessioni: "Tre sono i tempi: il presente del
passato, il presente del presente, il presente del futuro. Queste ultime tre
forme esistono nell'anima, né vedo possibilità altrove: il presente
del passato è la memoria, il presente del presente è l'intuizione,
il presente del futuro è l'attesa". Il prigioniero riempie i giorni
di ricordi, esaspera le rare emozioni, viaggia nelle fantasie. Possono strappargli
il cuore, ridurlo a un numero di matricola, vivisezionare i suoi gesti, ma soltanto
il loro tempo può inesorabilmente erodere il suo tempo. Se questo accade,
è la fine: di tutto. il tempo che scorre dentro è l'amico immaginario
dei bambini: se lo scacci, ne distruggi l'identità. Quando il carcere
prende il tempo del detenuto, lo ha vinto: non per un momento, per sempre. Soprattutto
oggi, quando le prigioni da luogo di segregazione di piccoli Barabba si sono
trasformate in ospedali generali per ì poveri, senza possibilità
di cura. La povertà è una malattia fastidiosa, che richiede, come
cura, il dispiegamento di opportunità e l'acquisizione di reddito: risulta
decisamente meno impegnativo distribuire un po' di minestra riscaldata sulla
strada o una coperta dietro quattro mura. L'autismo delle immagini, il consumo
di sperma su carta impiastricciata, la diffusione massiccia di psicofarmaci,
la noia somministrata in dosi massicce sono l'altra faccia di un villaggio turistico
che promette oasi di pace tra cavalli di frisia, bungalow cubicolari e guardiani
armati. Il carcere, come un'agenzia di viaggi, è diventato imposizione
di tempo talmente libero da risultare inutilizzabile rinunciando ai fogli illustrativi
che organizzano la giornata: spegne senza rubare l'anima; al massimo, la consuma.
Le comunità rappresentano invece un punto di ibrido incontro tra etica
religiosa e spirito del socialismo reale. L'etica religiosa si esprime nell'assoluto
della regola, lo spirito rieducativo nelle frementi ansie di adeguamento alla
norma, attraverso percorsi di riabilitazione sociale. Le comunità terapeutiche
sono in generale un formicaio frenetico, nelle ore dedicate al lavoro ma anche
in quelle di non lavoro. Fluisce un attivismo sconosciuto alle prigioni: questo
non significa che vi scorra attività. Sedute di psicoterapia, preghiere,
corsi di formazione o di ginnastica, riflessioni guidate, momenti ricreativi
riempiono le persone di informazioni e convinzioni senza, di contro, ascoltare
nulla. Si svolge un condizionamento operante che, nelle intenzioni, dovrebbe
poi proseguire all'esterno, come una sveglia capace di mantenere a lungo la
carica. Temi cari alle vecchie case di lavoro, pensate per richiudere vagabondi
e licenziare operai, prima ancora che al comportamentismo americano. Il tempo
della memoria, dell'intuizione e dell'attesa, in altri termini il tempo di Agostino,
appartiene alla città proibita. Cercare spazi individuali è peccato,
trovarli comporta l'espulsione.
Non è data la linea di fuga lungo questo percorso che il carcere, sia pure in condizioni estremamente difficili, permette. La comunità sottrae l'anima: l'ansia dominante è di distruggere il tossico, fino ai suoi pensieri più reconditi, per costruire l'uomo nuovo. L'automa integrato. Decisamente altro dall'aiutare una persona a ritrovare se stessa. Le prigioni sono segregazione di tempo vuoto, le comunità imposizioni di tempo pieno, privato di ogni possibile autonomia. In comunità ti devi alzare alle sette del mattino, quando passa la sveglia: ogni malessere viene processato, ogni ritardo sanzionato. In carcere conviene farsi trovare in piedi, quando entra in cella il gruppo di guardie della conta, per puro istinto di sopravvivenza. Con il fornello da campo, ci si può pure preparare il caffè: quando va bene, anche con la moka. All'inizio degli anni Ottanta, nelle prigioni di massima sicurezza le avevano sequestrate: riempite di esplosivo, potevano assurgere al ruolo di piccole e incisive bombe a mano. A Fossombrone ne avevamo salvata una dalle perquisizioni: valeva quanto l'appropriazione di una reliquia per un pellegrino. Marco si era aggregato alla nostra banda: operaio veneto trapiantato a Tori no, annegava nelle lotte e nell'alcol un'esistenza disperata. In un momento di bruciante spaesamento, utilizzò la caffettiera, approdata alla sua cella, per farvi bollire del profumo ad alta gradazione: l'ultimo suo rifugio. Quel giorno, la tentazione di fargli del male fu decisamente forte. Ci aveva distrutto un piccolo piacere. Ma l'idea della vendetta, almeno a noi, appariva in quel momento sconosciuta. Era un brutto periodo: nelle carceri la burocrazia brigatista aveva decretato la condanna a morte per gli infami. Negli speciali non ce n'erano: quelli che si apprestavano a diventarlo si buttavano alle celle di isolamento prima che un soffocante cordino potesse rigargli il collo. Tra la fauna detenuta si era aggiunta negli ultimi tempi una specie prima sconosciuta o sfuggente: i pentiti di essersi pentiti. Coloro che, di fronte alle torture dello Stato democratico, o ai rituali schiaffi di uno sbirro, o a suadenti parole di libertà, avevano denunciato i propri compagni; ma che poi, di fronte alla coscienza o alla vergogna, avevano ritrattato le accuse. Con sublime cinismo, lo Stato li mandava nella fossa dei leoni; con cinismo amministrativo, le Brigate rosse li condannavano a morte. Tempi e modi della sentenza ed eventuali grazie erano erogati a discrezione del governatore collettivo di turno. Dispensatore di pesanti ingiustizie. A Trani si trovavano, precariamente in vita, due militanti che sotto tortura avevano parlato: il primo vantava legami con l'apparato dirigente; il secondo era solo un ragazzo di borgata. Ovviamente, il cappio al collo toccò a lui. In quel periodo, a Fossombrone erano rinchiuse una ventina di persone che avevano collaborato per poi ritrattare: a voler essere macellai pignoli, ci sarebbe stato solo l'imbarazzo della scelta. La situazione determinava continue oscillazioni di toni tra il drammatico, il grottesco e il patetico. Un giorno, all'aria, stavamo giocando a pallone, con la solita grinta da ultima spiaggia, valvola di sfogo estrema e innocua delle tensioni accumulate. Uno di questi personaggi fece l'imperdonabile errore di non darmi la palla mentre mi trovavo solo davanti al portiere. "Spia, passa quella palla", gli gridai. In preda all'ira, avevo dimenticato per un attimo che, al momento dell'arresto, quello aveva detto oltre ogni limite, come un fiume in piena; poi, per farsi perdonare, aveva cominciato con tenacia a professarsi irriducibile. Esagerato, sempre. Così, dopo essere stato in un carcere per pentiti, aveva toccato il circuito normale, acquisendo infine i titoli per entrare nel girone degli speciali. Tappe bruciate in breve tempo, insultando e schiaffeggiando giudici non come rimprovero al loro mestiere ma per guadagnare punti. Così era stato mandato tra noi a rovinarci il fegato e a romperci i coglioni con i suoi ringhi da cane addestrato: in grado di fare rumore, non di permettergli il riscatto. Come per il Milan: neppure vincere decine di scudetti può cancellare la vergogna di aver assaggiato la serie B.
Il mio insulto di gioco non era comunque voluto.
Purtroppo.
Il tipo sbiancò, si fece avanti impettito e, giunto a un palmo di naso,
riuscì a dire, eccitato: "Sì, sono una spia. Sputami almeno
in faccia". Lo mandai a cagare. in quel periodo avevamo ben altro per la
testa che prestare attenzione alle ossessioni allucinate degli andati a male.
La nostra banda, per una serie di fortuite coincidenze, era riunita tutta lì,
al Fosso. Sergio ci aveva fatto sapere che sarebbe venuto a prenderci. Con lui,
fuori-erano rimasti Diego, Rosario e qualche altro. Pochi, ma buoni. L'attesa
era dolce e leggera. Nelle giornate di sole comunicavamo, attraverso le rifrazioni
sugli specchietti, con loro, che stavano appostati sulle colline vicine a studiare
i movimenti della custodia; di sera Taboga, un comune che lavorava in cucina,
ci portava vino bianco fresco delle Marche che conciliava l'impatto malinconico
con le ombre del buio; all'aria correvamo con l'esplosivo adagiato nel culo
e i detonatori in bocca. L'uscita non sarebbe stata una festa: tanto valeva
arrivarci con i nervi rilassati. La tensione andava tenuta per quel giorno.
Ma il piano venne scoperto e in breve fummo dispersi in altri istituti. L'attesa
dell'uscita, in carcere, è una bella sensazione, sia quando ha la cadenza
dei tuoi tempi sia quando si avvicina la fine della pena. In questo caso, si
accompagna anche a qualche rimpianto: sai cosa lasci, non sai che cosa ritrovi.
Normalmente, un mondo più incattivito rispetto a quando sei entrato,
poco propenso a perdonarti il tempo che hai perso. La prigione riproduce gli
schemi di partita del gatto con il topo: se il topo fugge, il gatto, al massimo,
ci rimane male. Per sé, non per l'altro. L'evasione fa talmente parte
delle regole da non essere neppure contemplata, in alcuni codici, come reato.
Quando il Cinto e il Lino, detenuti per contrabbando, fuggirono dal carcere
della Stampa, a Lugano, saldarono il loro conto con la giustizia svizzera restituendo
le divise da carcerati allo Stato, evitando così l'imputazione per furto.
La comunità vive invece l'abbandono come un tradimento o come un sintomo,
semplice e secco, di debolezza e fragilità. Sempre e comunque. Lucio
aveva soggiornato in clinica per quasi tre anni, passando tutte le fasi e superando
tutti gli esami previsti. Poi, a due mesi dal traguardo, da altri prefissato,
si era deciso a uscire, avendo trovato una donna, un lavoro e una casa: i tre
elementi ritenuti essenziali dalle comunità per definire una felice integrazione.
Chi li possiede, che motivo dovrebbe mai avere per tornare a fare uso di sostanze?
A quanto pare molti, visto che di drogati integrati e scontenti, persi nei percorsi
di alienazione quotidiana, è pieno il mondo. Lucio, comunque, questi
obiettivi se li era sudati, al prezzo anche di qualche scappatella, regolarmente
sanzionata. Li sentiva suoi, per cui, ormai pronto al distacco, se ne andò.
Fu bollato come un disertore. Per due mesi, due mesi su tre anni. Ma la vera
ragione era che aveva deciso in autonomia, disobbedendo alle direttive del padrone.
Rosalba è cresciuta fragile e ribelle. Capace di lottare contro i mulini
a vento delle ingiustizie e di soccombere al fascino avvolgente dell'eroina.
A 25 anni, sempre più disorientata dallo scontro tra la navigazione dei
sogni e le acque stagnanti della realtà, ha cominciato a darci dentro
di brutto con l'alcol. L'alcol non è soltanto il surrogato povero dell'eroina;
è anche la deriva estrema di chi scivola dalla sconfitta alla dissoluzione.
In un momento di lucidità, Rosalba si è ridotta a chiedere aiuto
al servizio per le tossicodipendenze del suo paese. Dopo essersi sottoposta
per mesi a colloqui di rito e toni inquisitori, è stata inviata in una
comunità. Inflessibile nel far rispettare le regole, efficiente nell'imposizione
dei tempi, massiccia nella somministrazione di dosi quotidiane di psicoterapia.
Rosalba ha retto per sei mesi; poi ha cominciato a fantasticare piani di fuga.
Ha, naturalmente, trovato una complice, animata dagli stessi sogni. Le evasioni,
anche dal carcere, riescono meglio d'estate: d'inverno, a parte la nebbia, niente
sembra favorirle. Arrivati giugno e i primi, attraenti caldi, Rosalba e l'altra
se ne sono andate. Come cicale, per un'estate da scialare in riviera. Lavori
fritti da majorettes della cucina romagnola ridotta a fastfood, bagni rubati
nei rari turni di riposo, discoteche impastigliate come momenti di ripresa dall'overdose
di piadine, sesso molto occasionale. Ma con, dentro, il profumo intenso e breve
di una precaria libertà. A settembre tutto decade, come le foglie. Con
i primi brividi di freddo e di solitudine, il desiderio di trovare un rifugio
cominciava a farsi largo, stringente e sottile. Pensarono, di nuovo, alla comunità
da cui se ne erano andate. Sapevano, da codici non scritti e ramificati, che
avrebbero dovuto mostrarsi umili e contrite. Lo ritenevano il prezzo da pagare;
non immaginavano che sarebbero state sottoposte a un processo. Appena rientrate,
chiamarono l'altra davanti a un gruppo traboccante di invidia; confessò
anche i peccati che non aveva commesso e, alla prova del nove, accusò
Rosalba di aver ideato l'evasione. Poi, toccò a lei. La giuria, soprattutto
quella popolare, la innervosiva. Ma recitò la parte, fino a quando le
chiesero di accusare la compagna. Presa da un conato di vomito, si alzò
dalla sedia per andare in bagno; la invitarono alla porta. Fuori, l'aspettavano
una brumosa giornata padana e la strada. A parte la divisa, che cosa differenzia
un operatore di comunità da un agente di custodia? Il secondo è
un carceriere del corpo, il primo lo è dell'anima: a volte, di tutti
e due.
Nicola era stato in una comunità dell'infinita campagna francese: dopo
sei mesi aveva deciso di svignarsela. Se ne andò al buio; quando gli
operatori se ne accorsero, gli sguinzagliarono dietro i cani. Rimase per due
giorni, senza acqua e senza cibo, acquattato in un campo di granturco: stremato,
si arrese ai ringhi che gli chiudevano il cerchio attorno. 1 piccoli racconti
di caccia quotidiana narrano lo stesso di altre comunità in Italia, pubblicamente
portate a virtuoso esempio. Flavio è stato a lungo in carcere: le perquisizioni
in cella gli lasciavano sulla pelle una scia di rabbia. Una volta, insieme alle
poche cose di poco valore rovesciate per terra, ritrovò i detersivi a
disegnare piste che intersecavano i vari colori: prese dell'acqua, la fece scaldare
in un pentolino, la versò sulle polveri. Così, per far sbollire
la rabbia in schiuma. Un'altra volta, le guardie infierirono sulla foto di una
delle sue fidanzate: non che gliene importasse molto ma reagì allo sgarbo
sfasciando tutto. Lo mandarono per un mese in isolamento. In comunità
non c'erano pericoli: non si poteva tenere nulla che riguardasse il fuori, neanche
una fotografia. Bisognava lavorare su se stessi e, per farlo, era necessario
dimenticare gli altri. Le perquisizioni, nelle prigioni, hanno l'ovvio obiettivo
di trovare materiale necessario per le evasioni, utile per traffici illeciti,
funzionale ai regolamenti di conti: la caccia riguarda quindi seghetti, corde,
esplosivo, droga, siringhe, soldi, coltelli. Ogni angolo viene esplorato, dal
tubetto di dentifricio al buco del culo, con l'altro obiettivo, non dichiarato,
di umiliare i detenuti. Le perquisizioni in comunità hanno raramente
la capacità di recuperare droga, ma dalle camere si porta via di tutto:
caramelle, dolci, qualche bottiglia di vino o di birra generalmente già
scolate, sigarette, riviste pornografiche. La battaglia dei porno comporta il
loro sequestro e l'accompagnamento con guanto ai bidoni della spazzatura o in
qualche angolo oscuro degli uffici in cui vengono dimenticati per anni. Perché
tanto zelo antimasturbatorio? Gli ospiti non possono avere relazioni sociali
e rapporti affettivi, perché devono pensare al proprio dissestato io.
Ma non possono neppure farsi una sega: un'azione che, anche secondo Woody Allen,
rappresenta un gesto d'amore nei confronti di una persona a cui si vuole bene.
In una comunità, ci si poteva masturbare una volta la settimana, riempiendo
un preservativo: doveva poi essere riconsegnato ai superiori, dentro una probabile
interpretazione letterale del divieto a disperdere il seme. Dietro i tentativi
di reprimere l'onanismo non c'è la preoccupazione materna verso l'abuso
espressa con il classico: "Non toccarti il pisello che diventi cieco",
ma la furia distruttiva verso ogni fonte di piacere. il tossico ha esagerato
nella ricerca: per questo deve espiare privandosi di tutto.
L'albero della conoscenza tentatrice torna a essere l'albero del peccato. Il lavoro dei secondini in divisa non contiene ipocrisie, facili idealità, tristi secondi fini. È custodialistico nel midollo. Ogni tanto qualcuno dei 15 sindacati dei 40.000 agenti, per smarcarsi teoricamente da una tenace identità corporativa, rivendica un'indefinita funzione rieducativa. Difficile a cogliersi in ogni loro azione, persino nell'agevole uso del manganello. Il lavoro degli operatori di comunità è piena di buone intenzioni, ideali difese, pure e semplici violazioni dei diritti umani. Tutto è lecito, perché viene,fatto per il bene dell'altro: per questo hanno sempre ragione. La tossicodipendenza è solo il sintomo di una personalità deviante alla quale imporre significative correzioni. E, se l'altro sbaglia, la colpa è soltanto sua. Quando una comunità rinuncia a imporre i propri valori, assumendo quelli dell'umanità, diventa scomoda. Una sera di alcuni anni fa mi è capitato di assistere a una riflessione di gruppo nella comunità di San Benedetto al Porto, a Genova. Quel giorno, un ragazzo se ne era andato, svicolando nei carrugi e morendo di overdose. Negli interventi, da quello di don Andrea a quello dell'ultimo dei disperati di strada, nessun giudizio: solo un essenziale ricordo e un aspro dolore per la scomparsa di uno di loro, della loro gente. In quel momento mi passarono davanti le immagini di episodi simili, vissuti ai tempi della clinica. Quando si veniva a sapere che un ragazzo uscito da lì era morto di overdose, la notizia poteva essere soltanto sussurrata; se non era possibile vincolarla al silenzio ufficiale, se ne parlava come di un pirla. Che non aveva saputo usare le occasioni per redimersi regalategli su un vassoio di argento. Se si vivessero le emozioni senza necessariamente dividersi per dovere di ruolo, forse nessuno preferirebbe il carcere alla comunità.