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La prigione dei clandestini

Tano Gullo

La Repubblica, 28 Giugno 2001

Cemento, filo spinato e occhi tristi di malinconia. Visita al centro di Agrigento dove vengono condotti gli extracomunitari scaricati a terra.

Non c'è un solo albero per chilometri e chilometri. Stoppie secche e terra brulla. La campagna agrigentina, in contrada San Benedetto è desolata: radi capannoni dell'area industriale e fitto deserto. Il centro accoglienza per i clandestini è in mezzo a questa landa. Un muro grigio alto tre metri e mezzo rende la grigia struttura diversa dalle vicine fabbriche e la fa somigliare a una prigione. Da qui non si esce. Ogni tanto, semmai si evade. E negli ultimi tre mesi i disperati del mare sono scappati per ben due volte, a grappolo; prima in dieci e poi in tre. Sempre ripresi. La città è a dieci chilometri e nei campi spogli è difficile nascondersi. Cancelli mastodontici, cortili spettrali e inaccessibili, cielo negato. Qui sopravvivono 108 persone, 12 donne, in fuga dal loro mondo, dalla miseria. Uomini miti e delinquenti, donne sole e madri in pena. La prima cosa che si percepisce, dopo lo squallore del luogo, è la tristezza degli sguardi. La malinconia accomuna, mentre la babele di lingue inaridisce le bocche e divide. Qui ci sono cittadini di almeno dieci nazionalità diverse provenienti da aree lontane: Nordafrica, India, Africa nera, Balcani. La mappa della povertà, antica e nuova. Uomini e donne sono chiusi in zone separate. «Altrimenti entrerebbero in 100 e uscirebbero in 150», dicono i responsabili. Un ampio capannone, ex fabbrica, è il salone dove i clandestini bivaccano annoiati, alcuni buttati per terra. Capienti tavoli e grandi panchine, tutti in cemento, per mangiare, panche immense, sempre in cemento, per vedere la televisione nel maxi schermo. Persino i letti sono inchiodati al pavimento. «Le panche in cemento e i letti fissi - dicono gli agenti di guardia - servono per impedire che vengano usati come oggetti contundenti. La gente non è felice di stare qui, quindi meglio evitare strumenti di rivolta». Una volta entrati, la prima cosa che colpisce sono i cortili interni asfaltati, senza un filo di verde, senza un velo di ombra. Gli "ospiti" non vi possono accedere. L'unico spazio collegato ai locali dove sono alloggiati, è il campo di calcetto. Qui sfogano la loro rabbia. «Ho girato diverse prigioni italiane - dice Djaouadi Faria, 35 anni, algerino - e posso dire che lì si sta meglio. Questo più che un centro di accoglienza è un carcere di massima sicurezza. Non possiamo fare niente. Siamo chiusi e abbandonati. Nella cella di Cosenza stavo meglio. Anche il cibo era migliore». L'uomo è sdraiato sul letto della stanza, dove in genere vivono in quattro. Le stanze si affacciano su un corridoio collegato con il capannone comune. In una fitta ragnatela di fili è stesa la biancheria ad asciugare: mutande, calzini, magliette e asciugamani. Per terra, nella stanza di Faria, ci sono altri due materassi, anch'essi occupati da clandestini. «Noi li sistemiamo quattro per ogni stanza secondo la nazionalità di provenienza - dice Gregorio Delfino, tenente della Croce rossa, responsabile sanitario del centro, mentre ci accompagna nel giro - ma poi sono liberi di sistemarsi come preferiscono. Magari capita che in una stanza dormano in sei, con alcuni materassi per terra, e in un'altra in due». Il reparto donne è più tranquillo. Le stanze sono linde, i letti rifatti, gli armadi chiusi. Due sono cinesi, le altre nigeriane, nordafricane e somale. Gli occhi sempre più tristi. Sul tavolo, in cemento, acqua minerale e biscotti. In alto il televisore, senza maxi schermo, che irradia telenovele, il mondo finto che ha spinto molte di loro a tentare la disperata avventura della traversata. «Guardavo l'Italia della televisione e sognavo - racconta Salam Habte, 18 anni, nigeriana - Una settimana fa finalmente sono riuscita a imbarcarmi. Sono fuggita dalla guerra e dalla miseria, con il mio fidanzato che però viene trattenuto a Lampedusa. Non sono libera, ma mi trattano bene. Qui mi fermerei per sempre, anche rinchiusa. Mi considero profuga politica e farò di tutto per non farmi rimpatriare».