«Centri di permanenza» che sono carceri di massima sicurezza. Il caso di Lamezia, e due storie esemplari.
Un manicomio. Un inferno. Una gabbia per animali. Le voci si accavallano, cercando di trasmettere all'esterno, attraverso il cellulare, le sensazioni, l'angoscia, la rabbia per essere trattati come bestie. Senza vestiti, costretti in otto, anche dieci, per stanza, le lenzuola sporche, la puzza. L'acqua centellinata. Il cibo che sembra mangiare per cani e che si deve consumare in stanza perché non c'è nemmeno la mensa. Quello che queste voci vogliono denunciare all'esterno è la profonda ingiustizia, non solo per essere stati rinchiusi in questo carcere di massima sicurezza che qualcuno si ostina a chiamare «centro di permanenza temporanea» ma anche per essere spogliati quotidianamente, ora dopo ora, della loro dignità di persone. «Umiliarci - dicono le voci quasi all'unisono - questo è l'obiettivo. Farci vergognare di essere persone». Ma nonostante la repressione e le condizioni di reclusione non facili da sopportare (fisicamente e psicologicamente, specie quando sai di non aver commesso reati) quelle voci ripetono con fierezza, con orgoglio i loro nomi, le loro storie. Non chiedono pietà. Vogliono raccontare che cosa sono costretti a subire. Perché esigono giustizia. Lamezia Terme è uno dei tanti centri-lager per cittadini stranieri voluti dal governo di centrosinistra che sperava di renderli diversi da quello che sono, galere, chiamandoli centri di permanenza temporanei. I cpt, una sigla che dovrebbe addolcire una realtà fatta di violenza e privazione. Uomini e donne la cui unica colpa è quella di non `rientrare' nei criteri stabiliti dalla legge sull'immigrazione firmata dai postfascisti e dei leghisti. La Bossi-Fini. Una legge che ruota su un'idea non detta (almeno non esplicitamente): per queste masse di cittadini stranieri, di migranti, di profughi (i «clandestini», come si ostinano a chiamarli i media nostrani: non-persone, solo un aggettivo e negativo) non c'è posto in questa Italia. Raccontiamo due di queste storie.
Ferat è originario del Kosovo ed è rom. E' in Italia dal 1971. Ha sette figli (tutti nati in questo paese), una moglie sofferente di cuore e un padre anziano a carico. A Firenze lavorava come autista del furgone che portava i bimbi a scuola. Ha lavorato fino al 6 agosto, quando è stato chiamato in questura. Ferat si è presentato da solo, certo che si trattasse di una formalità. Invece quella visita è stata l'inizio della sua odissea. In questura l'hanno rinchiuso in una stanza senza permettergli di parlare con il suo avvocato, per ore. Nessuno gli dice nulla, poi comincia a trapelare qualcosa. Il problema sarebbe un vecchio decreto di espulsione. «Ma io sono regolare dalla legge Martelli - spiega Ferat - ho sempre lavorato e sempre pagato le tasse. I miei figli sono nati qui. La mia famiglia è cresciuta in Italia». L'espulsione sarebbe legata ad un precedente penale per il quale Ferat ha pagato. Anzi, dopo aver fatto un periodo di carcere, in secondo grado è stato assolto. In questura è rimasta però traccia di quell'ordine di espulsione. La legge Bossi-Fini è chiara: Ferat va mandato via. Da Firenze l'uomo è stato trasportato al centro di detenzione di Lamezia Terme. Il 23 novembre è fissata l'udienza. «Ma dove possono mandarmi? - dice - io vivo in Italia da trentadue anni, questo è il mio paese. In Kosovo non ho niente».
Mohamed è tunisino. Soffre di cuore. Ha un passato di militanza in
gruppi comunisti della Tunisia ed è stato molto attivo anche nell'associazione
studenti. Laureato in storia, è stato in Francia e in Italia, dove è
stato arrestato. Dopo undici mesi in un carcere della Lombardia è stato
trasportato a Lamezia: non ha permesso di soggiorno e quindi va espulso. «Nel
1994 - racconta - sono stato arrestato in Tunisia e torturato». I segni
di quelle torture sono visibili in alcune foto pubblicate su un sito internet
che si occupa di diritti umani e delle lotte della sinistra tunisina.
«Adesso mi vogliono rimpatriare: ma se mi portano in Tunisia rischio vent'anni
di carcere». Mohamed vuole chiedere asilo in Italia, ma la sua è
una corsa contro il tempo. Perché potrebbe essere imbarcato su un aereo
in ogni momento.