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Dentro i Cpt

Enzo Mangini

Carta, cantieri sociali, anno IV, n. 25, giugno 2004

L'ombra dei teloni produce solo l'illusione della frescura. Il sole si accanisce sulle roulottes. Schierate lungo una delle piste del vecchio aeroporto militare di Orta Nova, assomigliano a un'armata poco prima del rompete le righe. Attorno c'è la campagna di Borgo Mezzanone, Foggia. La stagione dei carciofi è quasi finita, presto comincerà la raccolta dei pomodori, richiamo per migliaia di braccia migranti. Un caporalato ottocentesco chiude, tra queste campagne, il ciclo di sfruttamento iniziato in qualche villaggio del Senegal, dell'Eritrea o del Rif marocchino. Quando va bene, molto bene, la paga è di due euro l'ora. Quando va male scattano le retate della polizia, che riapre gli occhi quando finisce la stagione della raccolta.
Vista dalle roulottes del vecchio aeroporto militare di Orta Nova anche la servitù della gleba sembra desiderabile. Meglio del limbo in cui vivono gli «ospiti» del centro di identificazione di Borgo Mezzanone. Ci si consuma in attesa che la burocrazia faccia il suo corso: arrivo nel centro, richiesta di asilo politico, primo colloquio con la commissione centrale a Roma, secondo colloquio, risposta. Una trafila che può durare mesi, anche anni. E che, novanta volte su cento, si conclude con una risposta negativa.
Il centro di Borgo Mezzanone ospita oggi poche decine di persone, 39, ma la quantità di roulottes sulla pista racconta che, nei momenti di emergenza, ci sono state anche molte centinaia di «ospiti».
«Problemi? No, qui va tutto bene», racconta il viceprefetto al senatore dei Verdi Francesco Martone, venuto per un'ispezione. Il quadro che la prefettura traccia è dominato dai toni di un paternalismo un po' pragmatico, un po' caritatevole. Gli «ospiti» hanno diritto, quando presentano la domanda di asilo politico, a un versamento di ottocento euro in tre rate, oppure a restare nel centro. Ma c'è una meridiana duttilità nell’applicare le norme. Ottocento euro, una tantum, non garantiscono un tetto nemmeno nelle campagne di Borgo Mezzanone e quindi capita che qualcuno si presenti al campo a notte alta o che magari ci passi qualche giorno in più, prima di essere sollecitati a lasciare le roulottes o la bassa palazzina che accoglie una parte degli «ospiti».

Vietato a Medici senza frontiere

Il centro è gestito dalla Croce rossa, che riceve 39 euro al giorno per ogni ospite. L’assistenza e la vigilanza sulle condizioni dei richiedenti asilo e sul rispetto dei loro diritti è garantita da un volontario del Programma nazionale asilo [Pna] e, fino a qualche tempo fa, da Medici senza frontiere. Poi, dopo che il Viminale si è irritato per il rapporto sui Cpt dell'organizzazione, a Francesca Zuccari, terminale locale di Msf, è stato vietato l'ingresso nel centro. Fonti della prefettura di Foggia, pur sorprese per quello che Msf ha scritto, hanno confermato che si tratta di una disposizione arrivata da Roma.
Le pagine dedicate a Borgo Mezzanone, nel rapporto di Msf, rilevano le carenze del centro di idenficazione: scarsa l'informazione sui diritti degli «ospiti» e sulla rete di associazioni di solidarietà presenti nella zona; carente, in alcuni casi più difficili, l'assistenza sanitaria; assente la possibilità di far rilevare, a qualcuno che non sia la questura, la prefettura o la Croce rossa, eventuali mancanze o abusi; scarsa l'assistenza ai minori. Inoltre, il campo è inadatto alla permanenza dei cosiddetti «casi Dublino», cioè rifugiati inviati in Italia da un altro paese dell'Ue.
Sono i casi in cui la burocrazia si aggroviglia in modo quasi inestricabile. Come nella vicenda di un ragazzo afghano di etnia hazara, rispedito in Italia dalla Svezia, e che rischia di dover tornare a Ghazni, una delle province più pericolose dell'intero Afghanistan. Il suo caso è a doppio taglio: se gli si concede l'asilo politico, si ammette implicitamente che, a tre anni dalla caduta dei Talebani, l'Afghanistan è tutt'altro che sotto controllo e pacificato. Magari si risolverà dopo l'estate, quando in Afghanistan sono previste le elezioni, fragile appiglio per dichiarare il «cessato pericolo».
La parrocchia di Borgo Mezzanone è il crocevia delle storie arenate fra i tre bar e le dieci case del paese. Due volte a settimana, il martedì e il venerdì, funziona lo sportello per i migranti e i richiedenti asilo. Per molti di loro, già essere ascoltati è un modo per uscire dal limbo, riconquistare un'identità personale più ampia del foglio formato A4 con foto che si devono portare sempre appresso.

Il viaggio dall'Eritrea a Lampedusa

Quarantacinque giorni di viaggio dall'Eritrea a Lampedusa, passando per il deserto della Libia. Le odissee si evocano accucciati sotto il porticato. E nascono anche teorie, tra l'arabo e l'inglese: i centri non vengono chiusi perché muovono un sacco di soldi, sono un affare. Uniscono il profitto con un meccanismo di controllo che, tirate le somme, favorisce il caporalato e i proprietari terrieri.
Gli «ospiti» di Borgo Mezzanone non possono lavorare, in attesa che la propria domanda sia accolta o respinta. Un anno o anche più senza lavorare. Chi accetta gli ottocento euro e lascia il campo, «spesso si rende irreperibile», dice il viceprefetto. Cioè, si arruola nella legione straniera degli stagionali. Qui o altrove, poco importa. Il cancello del campo segna il momento in cui da soggetto di diritti, per quanto attenuati, si diventa problema di ordine pubblico.
La storia di Borgo Mezzanone, però, è a una svolta. Il centro di identificazione e accoglienza, che funziona dal 1997 , potrebbe essere smantellato molto presto. Il nuovo Cpt è quasi terminato. A luglio, o al massimo a settembre, sarà in funzione.
Ufficialmente, non è ancora stabilito se il vecchio aeroporto militare di Orta Nova ospiterà entrambi, il Cpt e il Cdi. La solerzia dei lavori per il Cpt e l'abbandono delle roulotte, però, inducono a credere che la scelta sia stata fatta. Il decreto del ministero dell'interno, datato 13 febbraio 2002, dice: «Sono individuati quali centri di permanenza temporanea e assistenza, di cui all'articolo 1 del Testo Unico 25 luglio 1998 numero 286 le seguenti aree: [...] Foggia: area demaniale sita nell’ex Aeroporto militare posto in località Orta Nova Borgo Tressanti, a disposizione di questa amministrazione e utilizzata anche come centro di prima accoglienza». Seguono firme: Scajola, Maroni, Tremonti.
Le due strutture nuove di zecca sono astronavi nella campagna. I quadrati nel grano sono circondati da una rete metallica alta sei metri. La prefettura non vorrebbe il filo spinato, ma pare che la questura lo richieda. Le due costruzioni basse sono a ferro di cavallo.

Sedie inchiodate al pavimento

Il «cortile» interno è circondato da un portico sul quale si affacciano le stanze. La grande sala mensa sembra un’installazione della Biennale di Venezia: tavoli di metallo rosso e sedie bianche, ordinatamente disposti e imbullonati al pavimento. Non si possono spostare. L'installazione si ripete in ciascuna delle stanze: sei sedie bianche attorno a un tavolo rosso. Sono fissati al pavimento anche gli armadietti, con i cardini bloccati, e i letti.
Le stanze da sei posti sono divise in gruppetti di quattro: due porte da un lato del cortile-portico e due dal lato opposto. Tra un gruppo e l'altro, una cancellata grigia che riporta alla realtà i colori «dolci» scelti per intonacare pareti e colonne.
Oltre l'area recintata, i lavori procedono spediti anche in quella che diventerà la nuova infermeria, nelle sale comuni e in quelle per i colloqui privati con avvocati e magistrati. È già completata, invece, la garitta per i poliziotti. Anche questa, dice il geometra che dirige i lavori, è stata chiesta dalla questura.
La Croce rossa, che ha firmato la convenzione per gestire il campo il primo aprile 2003, dovrebbe prendere in gestione anche il nuovo Cpt. La costa foggiana non è più zona di sbarchi. La militarizzazione dell'Adriatico e dei porti albanesi ha trasferito le rotte. Sarà un Cpt di retrovia, dove dirottare gli «esuberi» da Otranto, Restinco [Brindisi], Crotone o Lamezia Terme.
Al tramonto, l'ombra delle reti si allunga sui campi. Quell'interruzione sulla pianura cattura sguardi obliqui che si alzano tra spighe e carciofi. Qualcuno già calcola che, quando sarà finito il Cpt, diventerà più difficile anche spuntare dai caporali due euro per un’ora di lavoro.

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Un viaggio da Trapani a Milano, per visitare le «galere etniche»

Stefano Galieni

Carta, cantieri sociali, anno IV, n. 25, giugno 2004

Il viaggio inizia a Trapani. Gennaio del 2000, avevano freddo, le decine di persone radunate davanti alle mura del «Serraino Vulpitta», un tempo ospizio per anziani, poi Centro di permanenza temporanea per migranti. Si ignorava ancora molto del mostro giuridico chiamato Cpt, un ministro dell'interno ripeteva che non si trattava di carceri ma che non si potevano pretendere «alberghi a quattro stelle»: era del centro-sinistra, siede ancora in parlamento, si chiama Enzo Bianco.
Eppure il mostro aveva già colpito, pochi giorni prima: un tentativo di fuga, gli inseguimenti nel quartiere illuminato a giorno dagli elicotteri, la cattura. E poi un gesto disperato: dare fuoco ad un materasso nella speranza di riprovarci. I forse aumentano a questo punto e si concentrano in pochi infernali minuti: ritardo nei soccorsi, una sbarra che non si alza, la paura di una fuga di massa, autorità latitanti. Fatto sta che di tre ragazzi restano solo i corpi carbonizzati, altri tre se ne vanno lentamente, dopo una inenarrabile agonia, che, per Nasim, dura tre mesi.
Quella sera di gennaio, una piccola delegazione entra nel Centro, vuole capire, ma c'è poco da capire. Le mura sono già state ridipinte, i testimoni rimpatriati, resta l'odore acre della gommapiuma bruciata misto ad un altro odore che fa male, resta la tensione dei poliziotti e dei reclusi, il sussiego dei funzionari, l'ambiguo atteggiamento dell’ente gestore, rappresentato dall'improbabile figura di Giacomo Mancuso, un droghiere convertitosi al volontariato.
La Sicilia è, insieme alla Puglia, una delle prime regioni in cui si sperimenta la detenzione amministrativa: pochi i controlli, scarne le pressioni della società civile. Sì, certo, capita che a Termini Imerese le condizioni di vita dei reclusi siano al di sotto di ogni limite accettabile. Lo si chiude in silenzio. La Sicilia è terra di sbarchi, ma è anche terra in cui il controllo del territorio e gli affari che si possono fare con le nuove galere etniche sono cospicui. Spuntano come funghi: Agrigento, Caltanissetta, Ragusa. A Lampedusa, ultimo avamposto degli sbarchi, nasce subito uno spazio ibrido che farà scuola. Ufficialmente è un centro di prima accoglienza destinato a soccorrere chi sbarca, 190 posti accanto all'aeroporto, d'estate la temperatura dei container supera i 50 gradi. Arriva a contenere anche 500 persone, un decimo degli abitanti dell'isola, militari ad impedire accesso ad esterni e fuga dall'interno. Strana isola: ci sono le risorse per militarizzarla in ogni cespuglio, persino una pattuglia sparuta di alpini, in compenso neanche un ospedale, e i collegamenti con la Sicilia che vanno e vengono ad ogni mareggiata. Ondate, ogni tanto, restituiscono ciò che resta di chi prova ad attraversare il canale che separa dall’Africa su vascelli troppo fragili.
Negli anni, gli esperimenti in Sicilia, soprattutto con l'approvazione della legge Bossi-Fini, si susseguono. A Trapani il «Vulpitta» chiude e apre con il pretesto di continui restauri. Rinviato il progetto faraonico del sottosegretario D'Alì, uomo potente, che immaginava una «città dell'accoglienza», si ripiega per una struttura in periferia, località Salina Grande, milioni di euro per un piccolo villaggio. Per un po' ci transitano i richiedenti asilo, poi si scopre che basta un temporale e l'acqua ristagna sui pavimenti. Resta il dubbio sul da farsi ma resta soprattutto la miriade di storie, «frammenti di non vita», come li definisce Valeria Bertolino del coordinamento trapanese per la pace, da anni lì ad affrontare una situazione durissima, isolata ma indomita. Aumentano però osservazione e monitoraggio, dossier, denunce, esposti, che rendono impossibile mantenere tutto sotto silenzio. Si succedono le visite dei parlamentari siciliani: arrivano a sorpresa. Gestori e funzionari sono costretti a mostrare la merda che esce da gabinetti che non hanno mai funzionato, i richiedenti asilo detenuti in maniera doppiamente illegale, nessuno informa quattro ragazzi somali del loro diritto alla libertà. Arrivano anche le minacce oblique ad avvocati troppo scrupolosi, mentre le autorità blandiscono i deputati che osano portare con sé una macchina fotografica: «Ci lasci il rullino che se no le cose si complicano per tutti».
Salendo più a nord le cose non migliorano: Lamezia Terme, ci si perde, per arrivare al «Malgrado tutto». A volte i nomi... Una volta era una cooperativa specializzata nel recupero per tossicodipendenti, federata Arci, ci lavoravano persone convinte di poter fare qualcosa di buono. Poi la scoperta di un nuovo business, e la vecchia struttura persa fra le colline fuori dall’abitato cambia in pochi mesi. Alte sbarre e grate, le palazzine disposte a ferro di cavallo, un cortile, le porte divelte, l'intimità garantita da un lenzuolo appeso all'uscio. La rabbia dei reclusi è devastante, un cazzotto nello stomaco più forte del puzzo di escrementi, del degrado e dello sguardo di alcuni che camminano quasi come automi.
Si respira violenza appena mitigata dalla quantità industriale di sedativi che i reclusi chiedono o che - come dicono - vengono somministrati a loro insaputa. Ma poi, quando si è lucidi, ci si ricorda che non c'è alcun motivo per restare rinchiusi, che un giorno o una sera qualcuno ti ha prelevato a centinaia di chilometri di distanza e sbattuto in un inferno.
Dall’altra parte della costa, la spiaggia di Isola Capo Rizzuto. Negli anni settanta era una sorta di comune balneare, la sabbia finissima e il mare limpido. Poi la crescita di un polo industriale e la schiera di villette abusive, di villaggi turistici che si affacciano sulla statale 106. Al comune non hanno mai censito gli edifici, del resto il consiglio è commissariato per infiltrazioni mafiose. Durante l'emergenza del Kosovo, nei pressi dell’aeroporto militare venne realizzata una struttura di accoglienza gestita dalla Croce Rossa. Roulottes e container che tornarono a riempirsi durante l'ondata di sbarchi del 2001. Famiglie di kurdi, di tamil, di cinesi.
Ci fu un momento in cui al Sant'Anna, - anche i santi danno un nome alle brutture - ci vivevano 1500 persone, come un intero comune del crotonese. Capitarono momenti di tensione, arrivavano carabinieri e agenti di polizia che bloccavano per settimane intere, in spazi riservati e con le solite maniere spicce, i più recalcitranti.
Ma ora che gli sbarchi non ci sono più, il «centro di accoglienza» si è sdoppiato: da una parte i richiedenti asilo, dall'altra un Cpt. La statale è a pochi metri, l'aeroporto per i rimpatri si vede dalle palazzine verdi, i soldi per aprire e rinnovare le strutture sono stati equamente ripartiti secondo criteri clientelari. Alfredo Mantovano, il sottosegretario che formalmente aveva mantenuto, dopo le dimissioni dell'avvocato Taormina, la delega all'immigrazione, ha proceduto all'inaugurazione: «Sarà il più grande in Italia e darà lavoro a tanti crotonesi», ha annunciato.
In Puglia, terra di accoglienza, i centri di detenzione proliferano in ogni provincia: silenzio sul Cpt Restinco, a Brindisi, gestito dalle Fiamme d'Argento, i Carabinieri in pensione. Rocca Canosa, di Psichiatria democratica, ne parla come di una prova di come si possano creare istituzioni totali. Non riesce a togliersi di dosso lo sguardo vitreo di persone balbettanti, assenti: l'ombra dei sedativi utilizzati per evitare problemi è una costante di questo viaggio. Poche e disarticolate informazioni su luoghi ibridi come Borgo Mezzanone, nei pressi di Foggia e poi Otranto, Bari Palese, a due passi dall’aeroporto. L’estate scorsa, eludendo i controlli assicurati ad una zona militare, c'è stato chi, fra i militanti antirazzisti, ha tagliato le reti di recinzione, e la fuga di un gruppo, ma soprattutto l'impatto con persone che chiedevano a gran voce libertà. Non resterà un gesto isolato.
Più cupe le vicende del Cpt «Regina Pacis», e del suo signore e padrone, Don Cesare Lodeserto. Il centro sorge a San Foca, di fronte ad una costa rocciosa e ad un mare di un azzurro profondo. Una costruzione bianca e celeste, oasi di pace, se non fosse per il continuo andare e venire di militari. Un pesante cancello, il muricciolo sormontato da alte inferriate, nel cortile è normale vedere bambini che giocano, madri che li osservano con sguardo vigile, agenti in divisa.
Il cortile esterno è riservato alle ragazze che beneficiano dell'articolo 18, quello che permette a chi denuncia i propri sfruttatori, di guadagnarsi un permesso di soggiorno. Le si vede uscire, attraversare il cancello, salire su un furgone che le porta verso un nuovo lavoro. Qualcuna torna al proprio paese, qualcuna si «innamora», come racconta Don Cesare, ma nessuno ha mai conosciuto il padre di quei bambini.
Figura onnipresente, quella del sacerdote, protetto dalla Curia locale e osannato da leader di partito, di destra e di centrosinistra. Solo qualche piccolo incidente: un processo per peculato, strane aggressioni subite, un sequestro lampo che lo ha portato in tribunale per simulazione di reato, e poi la storia più fastidiosa. Un tentativo di fuga, da parte di «ospiti ingrati», che si è trasformato in una notte da incubo, almeno a detta dei fuggitivi.
Botte date a freddo, la testa sbattuta contro il muro, insulti e la sofferenza per chi, di religione musulmana, è stato costretto a mangiare carne di maiale cruda con un manganello che aiutava a spingere il cibo in gola, tecnica adottata anche nel carcere iracheno di Abu Ghraib. Lodeserto è stato rinviato a giudizio per lesioni gravi e gravissime. Le vittime intendono testimoniare, hanno trovato il coraggio.
A San Foca domina ancora incontrastato questo «Muccioli salentino» e milioni di euro sono elargiti grazie all'evidente benevolenza dal ministero dell’interno. Scarsi i controlli, e del resto la Corte dei Conti denuncia da almeno un paio di anni l’opacità dei bilanci gestionali dei Cpt.
Ogni volta che si prova ad affrontare questo tema, a chiedere i testi delle convenzioni che le prefetture locali stipulano, per conto dello Stato, con la Croce rossa, le Misericordie, oppure con fondazioni e cooperative sorte ad hoc, si incontra un muro. Medici Senza Frontiere, missione Italia, ha provato a violare il segreto, ne è risultato un rapporto voluminoso e problematico che molto ha irritato il ministero e il suo Dipartimento libertà civili e immigrazione.
Ma i centri non sorgono solo a ridosso dei luoghi di frontiera geografica, anzi, la loro relazione territoriale con gli sbarchi va via via affievolendosi. È territorio di frontiera anche una città come Roma, crocevia internazionale di storie che spesso confluiscono nel Cpt di Ponte Galeria, non a caso sulla strada che conduce all’aeroporto. La struttura è stata allargata e ora può contenere fino a 300 persone. È stato ingrandito il reparto femminile perché è da Roma che transitano più frequentemente i voli charter che riportano le ragazze scovate in strada senza documenti. Casette e gabbie, uno standard ripetitivo in tutto il paese, pavimenti in cemento grezzo, sbarre e mura altissime.
All'interno, come da regolamento, solo il personale in divisa della Croce rossa, fuori agenti di polizia, carabinieri, persino due uomini della polizia municipale a regolare un traffico inesistente. Si somigliano anche nell'odore, i Centri, sanno di stantio anche quando sono stati appena ripuliti. D'estate le ragazze prendono il sole nei cortili, sdraiate su teloni da spiaggia. I loro corpi vengono spiati dagli agenti di guardia. Piacerebbe pensare ad un atteggiamento di sfida: «Chi è fra noi ad essere in gabbia?».
Dal sole romano alle inquietanti esperienze emiliane. Quando venne approvata la legge Turco-Napolitano, la Regione si propose come modello per la realizzazione di Cpt umani e funzionali. A parlare sono i risultati: Bologna, via Mattei, non si contano i casi di autolesionismo, i tentativi di fuga, le rivolte. I racconti documentati di come ogni sommossa viene repressa sono da brivido, ma c'è dell'altro.
Anche in via Mattei i reclusi accusano persistente sonnolenza, scarso appetito, difficoltà motorie. Il direttore del centro si difende: «Sono loro a chiedere il Valium o altri farmaci». Poi arrivano i primi esami clinici fatti da laboratori privati a spese dei legali che difendono quelli che si possono strappare al rimpatrio. Dopo 15 giorni il sangue non ha ancora smaltito una sostanza chiamata fenobarbital, un barbiturico che si usa solo sotto ferreo controllo medico per l'epilessia. C'è una irruzione dei Nas, e gli armadi che contengono i farmaci vengono perquisiti, il processo è in corso.
A venti minuti di treno c'è Modena, dove un sindaco Ds, per rendere la città più sicura, ha trovato un accordo con il direttore della Misericordia locale. Un Cpt tutto nuovo, che è costato per l'edificazione 13 milioni di euro: difficile accertare come al solito i costi di gestione, mentre l'affitto annuo è di circa un milione di euro. Il tutto per contenere 50 persone, 60 sono i dipendenti e una ottantina gli agenti impegnati nella sorveglianza 24 ore al giorno.
Modena è più sicura? Difficile crederci. In compenso sembra soddisfatto il direttore, che non ha ben capito a cosa serva il Centro ma trova normale trarne degli utili. Una dimenticanza: il signore è il fratello del ministro Giovanardi.
La giunta regionale emiliana sta tornando sui suoi passi, gli stessi amministratori parlano di fallimento del sistema. Dicono che bisogna trovare alternative. E che bisogna esercitare intanto una funzione di controllo sui Centri: ma come farlo, se anche ai deputati regionali viene proibito l'ingresso? Non parliamo poi dei giornalisti.
A Milano esiste un osservatorio che comprende legali, associazionismo, forze politiche e sociali. Il centro è in via Corelli, periferia ovest. Chiuso, ristrutturato e riaperto infinite volte, ora è caratterizzato da un fenomeno che la scienza non riesce a spiegare. Nonostante sorga su un solo piano, gli ospiti cadono continuamente dalle scale, procurandosi contusioni del tutto simili a quelle che capitano sbattendo contro qualcuno dotato di manganello. L’osservatorio non può fare molto: gli operatori hanno affisso sulle mura interne i numeri di telefono a cui rivolgersi in caso di emergenza: i reclusi si aiutano fra di loro, preannunciando una espulsione o un rimpatrio, chiamando per conto di chi sta male o di chi non parla ancora l'italiano.
Almeno un interlocutore, non come a Torino, dove è sempre la Croce rossa a imperare. Via Brunelleschi, i lampioni nella notte comunicano ancora di più il clima carcerario. Le gabbie in cui sono tenuti i container hanno una maglia molto fitta, impossibile stringersi la mano, grossi topi scorazzano indisturbati sotto il giallo dei neon. «Sono orgoglioso del mio lavoro»: petto in dentro, pancia in fuori, a parlare è un colonnello della Cri che comanda qui dentro. Una grande manifestazione, nel novembre 2002, si concluse con l'ingresso nel centro di delegazioni di massa, e un gruppo di ragazze dei social forum hanno circondato il comandante, lo hanno stretto in un girotondo sempre più veloce, urlando «vergogna vergogna». Man mano che il cerchio si stringeva e che la velocità del gruppo aumentava, la risata di scherno del dirigente si spegneva, essere chiusi in una gabbia umana fa paura.
Fuori, appoggiato ad un lampione, un uomo forse della stessa età, che invece tratteneva a stento le lacrime. Aveva partecipato al corteo con un cartello al collo e la scritta «La legge è uguale per tutti». Dopo essere entrato in quel girone dantesco si domandava: «Ma è possibile che nel mio paese esista tutto questo?».
Da quel dicembre 1999 molte cose sono cambiate: la Bossi-Fini ha aumentato il periodo massimo di «trattenimento» nei centri: 60 giorni. I finanziamenti per interventi sociali non ci sono, in compenso la finanziaria ha destinato 105 milioni di euro ai vecchi centri e 25 a quelli in costruzione. Nel 2003, hanno oltrepassato le porte di quelle gabbie circa 14 mila persone.
I progetti sono ambiziosi: aprirne uno in ogni provincia, e, utilizzando anche contributi europei, costruirne in paesi fuori dall’«area Schengen», per bloccare le persone prima che si avvicinino all'Europa. Un progetto con il governo libico è già in via di realizzazione. Sui centri che apriranno in Italia vige il segreto: è pressoché certo che se ne faranno a Bari, Genova, Padova. Il ma è però d'obbligo: in Umbria e a Corridonia, nelle Marche, l'opposizione popolare ha bloccato la loro apertura, a Genova è già sorto un coordinamento che tenterà di evitare che il Centro si faccia.
È l'altra faccia della medaglia, quella di una opposizione più sistematica ai Centri, non basata su ragioni esclusivamente umanitarie ma sul principio che la detenzione per un reato amministrativo contiene la negazione dello stato di diritto. Una consapevolezza che cresce nelle città in cui i Centri ci sono e che gli stessi amministratori vorrebbero chiudere, una consapevolezza che ha portato ad un lavoro continuativo gruppi di deputati e di senatori, affiancati da scaglie di società civile e di movimento, che si preparano ad elaborare un libro bianco da portare a Bruxelles. Mozioni, interrogazioni parlamentari, denunce ed esposti, la Corte costituzionale che dovrà decidere su centinaia di eccezioni di costituzionalità. E il lento svelarsi di un meccanismo costoso e fallimentare. Un disvelarsi che ha imposto, anche se in sordina, di togliere la delega all'immigrazione all’onorevole Mantovano.
Né qui né altrove, scandiva un manifesto stampato due anni fa a Trapani. Eppure l'unico imputato per il rogo del Vulpitta è stato recentemente assolto con formula piena. Nessun colpevole, né lì né altrove.