La perdurante esistenza sul territorio italiano dei CPT, ossia dell'istituzione
di strutture detentive per migranti impone alcune radicali considerazioni critiche.
Ormai da sei anni, dietro tale acronimo vi sono i Centri di Permanenza Temporanea,
denominazione con cui si cerca di dissimulare dei campi d'internamento con evidenti
connotazioni razziali e razziste, che niente hanno mai avuto a che vedere con
l'accoglienza.
"Il campo - ha ben definito Giorgio Agamben in Homo Sacer - è lo
spazio che si apre quando lo stato di eccezione diventa la regola (…)
Se l'essenza del campo consiste nella materializzazione dello stato di eccezione
e della conseguente creazione di uno spazio in cui la nuda vita e la norma entrano
in una soglia di indistinzione, dovremo ammettere che ci troviamo virtualmente
in presenza di un campo ogni volta che viene creata una tale struttura, indipendentemente
dall'entità dei crimini che vi sono commessi e qualunque ne siano la
denominazione e la specifica topografia."
Per questo finché sussiste il "campo" non si può ipotizzare
né accettare alcuna sua cogestione umanitaria, come invece sostenuto
da certo volontariato sia laico che cattolico, operante fianco a fianco delle
forze dell'ordine.
L'esistenza di questi luoghi più infami delle stesse galere, in cui i
reclusi - "colpevoli" soltanto di aver varcato irregolarmente i confini
nazionali ed europei - sono isolati e rinchiusi in attesa di essere identificati
ed espulsi, smaschera in modo totale cosa significa in concreto il sistema democratico,
ma anche l'ideologia liberale e la politica riformista.
La loro creazione infatti risale al precedente governo di centro-sinistra, attraverso
la legge Turco-Napolitano approvata anche da quella sinistra che oggi si dichiara
pervasa da sdegno (inclusi Rifondazione Comunista e Verdi), in attuazione delle
direttive europee di Schengen in materia d'immigrazione, quali elementi fondamentali
della politica dei flussi contingentati. La legge Bossi-Fini ha quindi ripreso
pienamente tale misura, limitandosi ad allungare da uno a due mesi il tempo
massimo di detenzione previsto.
Per i detenuti non esistono né garanzie né diritti di sorta, ed
ormai non si contano più vessazioni, privazioni, violenze legalizzate
e tragedie impunite come il rogo avvenuto al "Serraino Vulpitta" a
Trapani; persino i più elementari diritti umani sono sistematicamente
negati nella completa legalità democratica, come più volte denunciato
anche da Amnesty International nei suoi rapporti annuali, oltre che recentemente
da Medici senza Frontiere.
La logica concentrazionaria dei CPT s'inserisce peraltro nell'imperante clima
emergenziale di guerra esterna/interna, una guerra in cui la sopraffazione e
l'annientamento sono la regola, come dimostrano gli orrori di Guantanamo, di
Bagram, di Abu Ghraib, dove in nome della lotta al terrorismo il terrore di
Stato diviene pratica normale, pianificata e legittimata.
Condizione essenziale per l'esistenza di tali non-luoghi è la loro "invisibilità"
all'interno delle società cosiddette democratiche, pronte a turbarsi
a telecomando per le immagini delle torture nelle galere in Iraq, ma atrocemente
cieche e sorde davanti agli orrori che quotidianamente avvengono a poca distanza
dalle nostre vite.
A tutt'oggi vige infatti questa sostanziale ed inquietante separatezza tra la
realtà interna e quella esterna dei CPT; una separatezza per certi aspetti
paradossale in quanto l'ubicazione dei CPT è in molti casi all'interno
del territorio urbano, vicino a case, strade e luoghi di lavoro popolati da
gente "normale" che sembra indifferente a muri, fili spinati, gabbie,
riflettori, carcerieri armati. Oppure la dislocazione dei campi si trova non
lontano dalle spiagge dove nella bella stagione l'italiano medio si reca spensieratamente
in vacanza.
Così proprio chi si ritiene "libero" è costretto ad
evadere, a conferma di quanto la distanza della consapevolezza sia slegata dalle
effettive distanze spaziali: niente è più lontano di quello a
cui non vogliamo accostarci.
Mentre ogni anno si celebra il Giorno della Memoria per non dimenticare la tragedia
dei lager nazisti, la società civile sembra convivere serenamente con
strutture che, pur non essendo i campi di sterminio ove furono annientati milioni
di ebrei, zingari, omosessuali, testimoni di Geova, etc., somigliano moltissimo
ai primi campi di concentramento in cui, nella generale indifferenza o complicità,
furono imprigionati oppositori politici e soggetti "asociali".
Attualmente in Italia, sono operativi una dozzina di CPT ma da tempo a livello
governativo si ritiene necessario che ve ne sia almeno uno in ogni regione e,
purtroppo, i lavori stanno andando avanti per giungere a tale risultato, pur
se non mancano proteste e resistenze attive.
Scrive ancora Agamben, in Quel che resta di Auschwitz, commentando le partite
di calcio che a volte si svolgevano nel lager tra SS e internati, che quella
rappresenta "anche la nostra vergogna, di noi che non abbiamo conosciuto
i campi e che pure assistiamo, non si sa come, a quella partita, che si ripete
in ogni partita dei nostri stadi, in ogni trasmissione televisiva, in ogni quotidiana
normalità. Se non riusciamo a capire quella partita, a farla cessare,
non ci sarà mai speranza".
Speranza per chi è prigioniero, sia dentro che fuori quelle recinzioni.