Numeri
Sospensione e ripartenza
Nel 1972, con la sentenza Furman v. Georgia, la Corte Suprema degli
Stati Uniti sospese tutte le esecuzioni. I giudici non dichiararono illegale
la pena di morte, ma ne proibirono la gestione incoerente e maldestra. Il
voto fu di cinque a quattro: i giudici Douglas, Brennan, Stewart, White e
Marshall scrissero motivazioni individuali a favore della decisione; i giudici
Burger, Blackmun, Powell e Rehnquist scrissero motivazioni individuali a sfavore.
Diversi stati si misero subito all'opera per adeguare le leggi sulla pena
di morte alle condizioni indicate nella sentenza della Corte Suprema. Per
anni, queste leggi furono messe alla prova nei tribunali. Alcune furono respinte
dai tribunali, al che gli stati le rividero in modo da renderle apparentemente
inattaccabili. A metà degli anni Novanta, un condannato che volesse
sporgere appello doveva farlo o sulla base di nuova lettura creativa della
legge o, più spesso, su qualche perversione della giustizia nella trattazione
del proprio specifico caso. La prima esecuzione successiva alla sentenza Furman
fu quella di Gary Gilmore, un assassino dell'Idaho che rifiutò di fare
appello, impedendo così che la legge sulla pena di morte in Idaho fosse
messa in discussione. Fu fucilato da un plotone d'esecuzione nel 1976. Norman
Mailer scrisse su questo evento una docufiction di mille pagine, The
Executioner's Song, che divenne prima un docudrama televisivo con
Tommy Lee Jones e Rosanna Arquette, poi un film distribuito in Europa. Per
quanto mi è dato di notare, l'unica differenza fra il docudrama
e il film visto in Europa è che nel film mancano le dozzine di spot
pubblicitari che punteggiavano le due puntate dell'originale, mentre è
stata aggiunta una lunga scena di nudo con la Arquette.
La seconda esecuzione post-sentenza Furman fu molto sgradevole e nessun famoso
romanziere si prese il disturbo di scriverci un libro, né ci fu un
docudrama con attori famosi che si spogliavano nella versione europea.
John Spenkelink si oppose con tutte le forze alla propria esecuzione, fino
a quando i funzionari dello stato della Florida non lo legarono alla sedia
elettrica il 25 marzo 1979 e abbassarono la leva.
Dopo i casi Gilmore e Spenkelink fino al 14 novembre 2002 negli Stati Uniti
sono stati messi a morte 807 uomini e donne. Il Texas guida la classifica con
286, seguito dalla Virginia con 87. La maggior parte delle esecuzioni, 658,
ha avuto luogo nel Sud. L'Ovest ne conta 59, il Midwest 87, il Nordest tre.
Parlarne
È raro che i discorsi sulla pena di morte negli Stati Uniti facciano
uso delle funzioni principali del cervello. Il linguaggio è più
viscerale, parte dal cuore e dallo stomaco. La gente si tocca il petto e dice
"so che funziona, e basta"; o si dà pacche sulla pancia e
dice "credo profondamente nella necessità di una giustizia
retributiva". È come quando Achille, che visse molto prima che
si sapesse a che serve il cervello, diceva "lo so nel mio thumos".
Non si discute con gente che "sa" che funziona o che "crede
profondamente" nella giustizia retributiva, come non si discute con
chi crede che l'aborto sia un omicidio o non crede che Dio si prende cura
dei gigli del campo. Quando le premesse sono così radicate nel cuore
o nelle budella la ragione, da una parte e dall'altra, non ha appigli.
Alcuni sostenitori della pena capitale parlano della funzione retributiva della
pena, ma l'argomento più diffuso è che funge da deterrente contro
la violenza criminale. Nessuno ha mai potuto fornire prove dell'attendibilità
di un'affermazione del genere in America. Non esiste una correlazione dimostrabile
fra i tassi di omicidio negli stati in cui vige la pena di morte e quelli in
cui non c'è, né fra stati con tassi di esecuzione elevati e stati
con tassi più ridotti. Negli ultimi venticinque anni gli stati con la
pena di morte hanno avuto un tasso di omicidi leggermente più alto di
quelli senza (9,3 contro 9). È forse perché gli stati con più
omicidi sono più portati a passare leggi sulla pena capitale? Di nuovo,
no: non c'è nessuna correlazione neanche in questo caso. La sola correlazione
sistematica che sia mai stata trovata fra la pena capitale e i tassi di omicidio
è che l'esecuzione sembra avere un effetto di "alone": per
qualche giorno o qualche settimana, dopo un'esecuzione particolarmente ben pubblicizzata,
nello stato in questione si verifica un picco di assassini insoliti e, solo
col tempo, si ritorna al tasso ordinario.
Ci vogliono quasi dieci anni per eseguire una condanna a morte, anche negli
stati che hanno varato leggi in proposito subito dopo la sentenza Furman. Questo
è dovuto al fatto che il procedimento è costellato di errori e
le conseguenze di un'uccisione sbagliata appaiono orribili anche a chi pensa
che lo stato faccia bene a uccidere persone che sono già sottoposte a
un controllo totale. Con pochissime eccezioni, anche i più accesi sostenitori
della pena di morte vogliono che lo stato uccida quelle che gli sembrano le
persone giuste e non chiunque capiti.
Un sistema a pezzi
Tutte le persone che conosco nell'industria della giustizia criminale, che
siano contro o a favore della pena di morte, dicono che la pena capitale è
un disastro. Ne sono prova la massa di processi arretrati nei tribunali statali
e federali e la popolazione crescente dei bracci della morte. Ma nessuno si
rese conto di quanto fosse grave la situazione fino al giugno del 2000, quando
un gruppo di ricerca diretto da James S. Liebman, professore di diritto alla
facoltà di giurisprudenza della Columbia University, pubblicò
A Broken System: Error Rates in Capital Cases, 1975-1995 ("Un
sistema a pezzi: tassi di errore nei casi di pena capitale"), uno studio
dettagliato di 5760 processi in cui era in gioco la pena di morte e di 4578
appelli ai tribunali statali e federali.
Nei ventitré anni di cui si occupa lo studio di Liebman, si sono verificati
errori gravi e reversibili nel 68 per cento delle sentenze capitali, con una
media di quasi sette su dieci. I tribunali statali hanno rovesciato il 47 per
cento dei verdetti e i tribunali federali hanno individuato errori reversibili
nel 40 per cento dei casi che i tribunali statali avevano ritenuto impeccabili.
"I processi capitali producono così tanti errori che per individuarli
ci vogliono tre gradi di revisione giudiziaria", scrive Liebman, "e
c'è da dubitare che si riesca a individuarli tutti".
Una delle cause principali della revisione delle sentenze (37 per cento dei
casi) è il fatto che gli accusati erano stati difesi da avvocati incompetenti,
che a volte non si erano nemmeno presi il disturbo di cercare possibili prove
della loro innocenza o di dimostrare che, se erano colpevoli, non erano passibili
di pena di morte. Un'altra causa invalidante (19 per cento) sono i pubblici
ministeri e gli agenti di polizia che hanno tenuto nascoste alla difesa e
alla giuria prove a discarico. In altre parole, il 56 per cento dei processi
sono stati annullati perché gli imputati non avevano avvocati in grado
di fare neanche un'ombra di difesa o perché si trovavano davanti a
un'accusa talmente decisa a ottenere una condanna a morte da essere disposta
a dimenticarsi della giustizia. Anche la seconda di queste ragioni di invalidità
è in parte un effetto della prima: è più facile che la
polizia e la pubblica accusa vadano oltre i limiti se sanno di trovarsi davanti
un'opposizione inetta. Gli altri processi sono stati annullati per confessioni
estorte, elenchi di giurati razzialmente distorti, informatori che avevano
rivelato conversazioni confidenziali fra imputati e avvocati e pregiudizi
o errori dei giudici.
I tribunali di grado più alto non annullano le sentenze per il solo fatto
di avere rilevato degli errori nel procedimento; è necessario che l'errore
possa avere alterato l'esito del processo. Quindi quel 68 per cento di annullamenti
riguarda solo i casi in cui gli avvocati difensori sono stati in grado di convincere
le corti d'appello che l'errore o la manipolazione erano talmente gravi da contaminare
l'intero procedimento. Un manager aziendale il cui lavoro dovesse essere rifatto
nel 68 per cento dei casi sarebbe licenziato in tronco.
I risultati di queste revisioni delle sentenze sono altrettanto spaventosi.
Quando le corti d'appello statali hanno rimandato indietro i processi per gravi
errori nel primo procedimento, l'82 per cento degli imputati ha ricevuto sentenze
diverse dalla pena capitale e il 7 per cento è stato riconosciuto del
tutto innocente. L'intera procedura, dal verdetto alla revisione, è durata
in media fra gli otto e i nove anni, il che significa che la maggior parte delle
persone che passano quasi un decennio nel braccio della morte non ci sarebbero
dovute entrare nemmeno per un giorno.
Gli uomini e le donne condannati a morte negli Stati Uniti hanno diritto a
tre gradi di appello (appello diretto statale, appello statale post-condanna
e habeas corpus federale), ma in molti stati e a livello federale le
risorse per rendere possibili questi appelli sono state seriamente ridotte.
I fondi dei gruppi di difesa che potrebbero aiutare i condannati a formulare
i ricorsi stanno diminuendo dappertutto; eppure, nonostante la riduzione delle
risorse, gli avvocati d'appello ottengono lo stesso tasso di annullamenti
di cinque o dieci anni fa. Questo significa che anche se i difetti del sistema
sono ormai noti, gli errori vengono ancora commessi e scoperti con la stessa
frequenza.
Certi stati hanno tassi di annullamento più alti di altri, ma si sono
verificati annullamenti in tutti gli stati. Tre in particolare (Kentucky,
Maryland, Tennessee) hanno un tasso di annullamento del 100 per cento: tutte
le condanne a morte emesse in questi stati sono state annullate. Dopo che
si scoprì che tredici condannati a morte in Illinois erano stati condannati
ingiustamente, e dopo che gli studenti di un corso universitario di giornalismo
dimostrarono l'innocenza di una persona a meno di due giorni dall'esecuzione,
il governatore dell'Illinois - il repubblicano George Ryan - ha sospeso tutte
le esecuzioni, ha nominato una commissione per rivedere tutto il sistema e
ha ordinato sedute di clemenza per 142 degli attuali 159 condannati a morte
in Illinois. Il governatore del Maryland ha sospeso le esecuzioni e ordinato
uno studio dei casi passibili di pena di morte dal 1978 a oggi, per verificare
se la razza era stata un fattore decisivo (il suo successore, Robert Erlich,
che entrerà in funzione il prossimo gennaio, ha annunciato che revocherà
la moratoria, quali che siano i risultati dello studio).
In tutto il paese crescono movimenti per la moratoria. Quello che chiedono
non è tanto l'abolizione della pena capitale, quanto una maggiore equità
del procedimento. Harry Blackmun, uno dei quattro giudici della Corte Suprema
che avevano dissentito dalla sentenza Furman, ha finito col pentirsene, non
solo perché si è convinto che la pena di morte è in sé
inaccettabile, ma più ancora perché si è reso conto che
non c'è modo di applicare con giustizia i requisiti della sentenza
Furman, per quanto accurate siano le leggi e per quanto sinceri coloro che
cercano di applicarIe. Blackmun ha espresso con chiarezza questo suo ripensamento
in un'altra opinione di minoranza, nel caso Callins v. Collins, il
22 febbraio 1994, poche ore prima che Bruce Edwin Callins fosse giustiziato
dallo stato del Texas:
Da oggi in poi, non mi occuperò più del macchinario della morte. Per quasi vent'anni ho cercato - anzi, ho lottato - insieme con la maggioranza della Corte, per istituire regole procedurali e sostanziali che conferissero alla pena di morte una giustizia che non fosse solo apparente. Non posso più continuare a condividere l'illusione di questa Corte, che il livello desiderato di giustizia sia stato raggiunto e la necessità di regolazione esplorata a fondo. Mi sento piuttosto moralmente e intellettualmente costretto a riconoscere che l'esperimento della pena di morte è fallito. Penso che non abbia virtualmente più bisogno di dimostrazioni il fatto che nessuna combinazione di regole procedurali o sostanziali può mai riscattare la pena di morte dalle sue carenze costitutive. La domanda fondamentale, se il sistema riesca in modo accurato e coerente a decidere quali imputati "meritano" di morire, non può ricevere una risposta affermativa. Questa Corte ha autorizzato l'applicazione di circostanze aggravanti generiche, l'esclusione di specifiche circostanze attenuanti, e il blocco di revisioni giudiziarie di importanza vitale; ma il problema più grave è che gli errori fattuali, legali e morali, sono talmente inevitabili che, come ormai sappiamo per certo, questo sistema è destinato a uccidere ingiustamente alcuni imputati e non è in grado di emettere le sentenze capitali giuste, coerenti e affidabili, come richiede la Costituzione.
L'opinione pubblica
Nell'opinione pubblica cresce il numero di quanti cominciano a pensarla come
Blackmun. Nel gennaio 2000, un sondaggio della rete televisiva ABC ha mostrato
che il 64 per cento degli statunitensi erano a favore della pena di morte per
omicidio ma che il consenso cala al 48 per cento se si propone l'alternativa
dell'ergastolo senza possibilità di libertà provvisoria. Questa
tendenza dell'opinione pubblica è costante da sei anni a questa parte:
declino del consenso alla pena di morte in sé, ancora più accentuato
quando è posta in alternativa all'ergastolo. Neppure il massacro commesso
dal reduce del Golfo Timothy McVeigh in OkIahoma e la serie di omicidi commessi
a Washington dal reduce del Golfo John Allen Muhammad con il suo giovane complice,
hanno influito significativamente su questa tendenza.
Nell'ottobre 2002, la Gallup dava il sostegno alla pena di morte al 70 per cento,
contro un 72 per cento a maggio dello stesso anno e un 80 per cento nel 1994.
Il punto più basso è stato raggiunto nel maggio 2001 col 67 per
cento; l'attacco dell'11 settembre ha prodotto un leggero incremento. Ma è
difficile dire in che misura questo picco, che appare già in discesa,
derivi dal fatto che gli americani hanno più voglia di uccidere e in
che misura sia semplicemente una risposta alle dosi massicce di retorica politica
del presidente Bush e del ministro della giustizia Ashcroft sulla necessità
di catturare e giustiziare i malvagi. Come già nel 2000, quando si propone
l'alternativa dell'ergastolo il sostegno scende al 50 per cento; i due terzi
degli adolescenti preferiscono la soluzione non letale.
Altri sondaggi hanno dato gli stessi risultati. Secondo il Pew Research Center,
a marzo del 2002 il 67 per cento degli statunitensi era a favore della pena
di morte per omicidio, contro il 66 per cento nel marzo 2001 e il 78 per cento
nel giugno 1996. In altre parole, mentre il sostegno dell'opinione pubblica
alla pena capitale diminuisce, aumenta il numero degli uomini e delle donne
che i tribunali spediscono nei bracci della morte.
Ancora i tribunali
Le leggi sulla pena di morte sono fatte dai parlamenti, ma il procedimento si
conclude nelle corti federali. Dalla sentenza Furman in poi, fino a poco tempo
fa, i tribunali federali hanno per lo più evitato di mettere in discussione
le basi della pena capitale in America. Si sono mostrati disponibili a esaminare
casi singoli di procedura scorretta o imperfetta, ma sono riluttanti a esaminare
il sistema in quanto tale.
Cinque casi recenti, due al livello più basso del sistema federale
e tre al più alto, suggeriscono che forse questo atteggiamento sta
cambiando. (3)
Che succederà adesso?
La Corte Suprema sembra divisa in parti più o meno uguali sulla questione
della pena di morte. Alcuni giudici hanno dubbi sulla sua utilità e validità;
uno o due sono da molto tempo del tutto contrari. Altri, favorevoli alla pena
di morte quando sono entrati a far parte della Corte, sembra che adesso ci stiano
ripensando e considerando impossibile applicarla in modo equo, ritengono che,
utile o meno, debba sparire.
Sulle questioni della legge e della giustizia, Bush è a rimorchio della
destra estrema. Il suo ministro della giustizia, John Ashcroft, è un
fondamentalista cristiano che parla con la pacata sicurezza dello zelota istruito:
con buone maniere ma con la certezza di chi si sente depositario del bene e
del male, per cui nessuno può dire o fare niente per influenzarlo. Non
ho dubbi che, se potesse, Ashcroft sostituirebbe il Bill of Rights coi Dieci
Comandamenti. È raro che Bush faccia una nomina giudiziaria sia pur vagamente
centrista; anche su questo, favorisce la destra estrema, compresi i fondamentalisti
cristiani.
Gli oppositori della pena di morte temono che, se Bush avrà l'opportunità
di sostituire qualcuno dei pochi liberali che restano nella Corte Suprema, anche
l'attuale divisione tra i giudici sulla pena di morte scomparirà per
decenni. Suo padre ha lasciato la presidenza con uno scherzo crudele all'America,
designando Clarence Thomas alla Corte Suprema sul posto un tempo ricoperto da
un grande giurista e sostenitore dei diritti civili, Thurgood Marshall. All'epoca
della sua nomina, Thomas sembrava un mediocre uomo della destra con pochissima
esperienza. Da allora, ha scritto poche sentenze e per lo più si è
limitato a condividere le opinioni scritte dall'altro giudice nominato da Bush
senior, Antonin Scalia, giurista coltissimo e uomo fortemente di destra. Per
la famiglia Bush, i tribunali sono strumenti ideologici e questa è una
cosa terrificante, perché le nomine giudiziarie sono a vita.
A breve termine è prevedibile che la Corte Suprema e gli stati, anziché
abolire la pena di morte, si limitino a ripulirla, appianando le imperfezioni
più evidenti. Il parlamento dell'Illinois farà proprie alcune
delle ottantacinque proposte della commissione nominata dal governatore Ryan,
ma non eliminerà la pena di morte in quanto tale. Il Texas non potrà
più giustiziare gli psicotici, o gli imputati che hanno avuto avvocati
peggiori della mancanza di avvocato, ma non smetterà di giustiziare una
quantità di altre persone. Il 10 gennaio 2003, il governatore dell'Illinois,
Ryan, ha concesso il perdono giudiziale a quattro detenuti che, ha concluso,
si trovavano in carcere solo in base a false confessioni ottenute con la tortura
dalla polizia di Chicago. Il giorno dopo, compiendo il più spettacolare
atto di sfida alla legittimità della pena di morte in America da trent'anni
in qua, ha commutato le condanne a morte di 167 uomini e donne in Illinois perché,
ha detto, il sistema non era equo né giusto, e il fatto che da tre anni
a questa parte il parlamento statale avesse rifiutato di cercare di migliorarlo
lo ha convinto che ai politici non interessa la giustizia.
La frequenza delle sentenze capitali è diminuita negli ultimi anni, in
parte a causa di una diminuzione del tasso di omicidi, in parte perché
pubblici ministeri e giurie sono stati indotti a essere più cauti dal
numero crescente di casi in cui le sentenze sono state smentite dalla prova
del DNA. Solo gli ipocriti più appassionati possono continuare a sostenere
che la pena di morte è equa o accurata.
Una volta fatte queste revisioni di facciata, la Corte Suprema esaminerà
il sistema e deciderà che la morte di stato non può mai essere
giusta ed equa, oppure che questi ritocchi marginali l'hanno resa accettabile.
Come hanno mostrato le elezioni presidenziali del 2000, quando si arriva al
dunque la Corte Suprema è un organo politico come tutti gli altri. Nessuno
può prevedere che cosa farà, in questi tempi di febbrile paranoia
guerresca e xenofobica e di crescente interferenza del governo federale in tutti
gli aspetti della vita dei cittadini.
Fonte: Pubblicato su Ácoma 25, Rivista Internazionale di Studi
Nordamericani, inverno 2003, pubblicazione quadrimestrale, Shake edizioni
undeground, traduzione di Alessandro Portelli.
* Bruce Jackson è Distinguished Professor e Samuel
P. Capen Professor of American Culture alla State University of New York a
Buffalo. Autore di molti libri, è inoltre curatore e regista, con Diane
Christian, di Death Row (1979), libro e documentario sulla vita quotidiana
degli uomini in attesa di esecuzione nelle carceri del Texas.
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Note:
1. Le prigioni statali e federali scoppiano per il
numero di piccoli spacciatori condannati a sentenze epiche. Nel 1965 il Texas
teneva chiusi in prigione circa diecimila suoi cittadini; ad aprile del 2002
le prigioni del Texas ne contenevano centocinquantamila. La California ha
239.000 detenuti. Gran parte della popolazione carceraria è "non
bianca": circa l'11 per cento dei maschi neri fra i venti e trent'anni
sono in carcere, a fronte di un 4 per cento degli ispanici e di un 1,5 per
cento dei bianchi. Questo dato non è privo di profonde conseguenze
politiche: in molti stati, fra cui la Florida, le persone condannate non possono
votare, indipendentemente da quanto lieve sia il reato o da quanto tempo sia
trascorso. Nel 2000, in Florida molti non bianchi sono stati esclusi dal voto
a causa di condanne penali. Molti degli esclusi in realtà non erano
nemmeno stati condannati: gli è stato negato il voto per sciatteria
o errori della burocrazia statale. Se gli esclusi avessero potuto votare,
la Corte Suprema degli Stati Uniti non avrebbe avuto la possibilità
di designare George Bush alla presidenza degli Stati Uniti.
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2. Certi politici sembrano adorare la pena di morte.
Gli accusati della recente serie di delitti dei cecchini nell'area di Washington
D.C. John Allen Muhammad, di 41 anni, e Lee Malvo di 17, potevano essere processati
in Maryland o in Virginia. I delitti commessi in Maryland erano di più,
e il procuratore distrettuale del Maryland aveva depositato per primo gli
atti processuali. Il ministro della giustizia John Ashcroft è intervenuto
e, con una serie di intricate manovre legali, ha ordinato che i processi si
svolgano in Virginia. Perché i delitti commessi in Virginia sono provati
in modo più convincente? No: ha detto che in Virginia c'erano più
possibilità di arrivare a una sentenza capitale. La Virginia può
giustiziare legalmente i diciassettenni, e ha eseguito molte più condanne
a morte del Maryland (86 a 3). Da quando è ministro della giustizia,
Ashcroft ha insistito almeno una dozzina di volte che i pubblici ministeri
federali chiedessero la pena di morte, anche quando gli stessi pubblici ministeri
ritenevano che sentenze detentive fossero perfettamente adeguate. In un caso,
ha persino annullato un concordato che tutti, compreso il giudice, ritenevano
giusto e ragionevole.
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3. Esistono tre gradi di tribunali penali federali.
I processi sono condotti dalle 94 corti distrettuali che hanno anche la facoltà
di emettere ordini su materie come la segregazione scolastica e le condizioni
carcerarie per il proprio distretto. Il primo grado di appello sono le 13
corti d'appello federali (ne esiste anche una per i casi di origine militare).
Il livello più alto, il tribunale con giurisdizione finale per le questioni
penali e tutte le questioni legali, è la Corte Suprema, composta di
nove giudici.
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