Cosa fa un russo in attesa dell'arresto? Per ogni evenienza, dispone in una valigetta un cambio di biancheria pulita e qualche pezzetto di pane nero secco. È buono, il pane secco col sale. Mia madre ancora oggi me lo prepara: così, quando scrivo, invece di fumare succhio qualche pezzetto di pane secco. Il cibo principale del mio Paese è sopravvissuto fino ai nostri giorni.
Mosca, 1937. Il periodo del Grande Terrore. Le tre di notte. Suonano alla porta. Sono tutti svegli. Il pane nero è già nel forno. Tutti si aspettano di essere arrestati. Mandano il nonno ad aprire la porta agli agenti dell'NKVD (precursore del KGB): ritorna di corsa ed esulta come un ragazzino: "Evviva! Sono i pompieri! La casa brucia!". La morale è che il popolo russo, storicamente, teme meno le catastrofi naturali del potere statale.
Sorgono spontanee alcune domande. Per quale scopo da
conseguire il potere russo ha straziato il suo popolo? In che modo il potere
è riuscito a creare un apparato coercitivo in grado di soggiogare milioni
e milioni di persone? La
katorga (lavori forzati) e la
ssylka
(deportazione), considerate universalmente misure estreme in un'organizzazione
statale che si rispetti, in Russia sono infatti diventate i temi centrali di
un dramma del potere che si lagnava a voce alta di essere incompreso dal popolo
e che in modo teatrale esercitava una ferocia inaudita, nella presunta ricerca
della perfezione.
Il potere da una parte inscenava processi in cui l'imputato
era indotto a recitare la propria colpevolezza, pur sapendo che il suo sacrificio
non gli sarebbe valso un'onorificenza alla memoria ma l'anatema della collettività
- che, nella sostanza, è la stessa cosa - e dall'altra agiva in segreto,
alimentava il terrore collettivo e così confessava candidamente la sua
totale incompetenza metafisica. O meglio, la sua inadeguatezza. Come dire: suvvia,
stiamo ancora imparando, in fondo siamo i primi a scegliere questo cammino.
Nel corso della storia russa, da Ivan il Terribile fino a Stalin, lo stato ha
perseguito tenacemente alcuni valori che entravano in contraddizione con i principi
elementari della natura umana. Per realizzare la sua missione, il potere ha
dovuto svilire la vita, affinché l'annichilimento dell'uomo in nome dello
stato non fosse percepito come un crimine ma come un solido fondamento morale.
A parte la quantità di violenza perpetrata sulle masse, che li rende
dissimili, tra il regime zarista e il regime sovietico non c'è una vera
rottura: entrambi sono imbevuti di ideologia. Si tratta di un unico impero della
parola e dell'immagine, a cui la vita deve sottostare.
La dottrina ufficiale
dello zarismo è espressa nella formula: autocrazia, ortodossia, identità
popolare. Lo scopo di questa trinità risiedeva nella costruzione di uno
stato perfetto, unico nella sua essenza. L'idea stessa del costruire implicava
sforzi, resistenza, un obiettivo e i mezzi per realizzarlo. E, di conseguenza,
anche un certo scarto della manovalanza. Lo zarismo uccideva impietosamente
ma di rado si rivelò indulgente. Per cui morì.
Il comunismo russo
ha perseguito la stessa ricerca di perfezione che animava la concezione teocratica
dello zarismo. Per spezzare la resistenza della natura umana, la punizione doveva
essere di gran lunga più crudele del crimine, perché doveva paralizzare
i focolai di resistenza in ciascun uomo, apparato statale compreso, e imprimersi
nella memoria genetica della popolazione. La disumanità degli organi
punitivi si sposava col terrore generalizzato della morte. Tuttavia neppure
Stalin completò il suo progetto: lo tradì il mancato raggiungimento
dell'immortalità personale.
La Russia è nemica del buon senso.
Il buon senso russo ha generato la dissidenza. La parte più illuminata
della società ha spesso sostenuto il regime per conformismo, carrierismo
o patriottismo, ma il potere celebrò atti così scellerati da suscitare
proteste involontarie. In Russia non erano certo gli elementi più brillanti
della società che anelavano allo stato perfetto. Da qui, i mali del Paese.
Oltretutto, alcuni aspetti insiti nella mentalità russa affievoliscono
la resistenza verso lo stato: la rassegnazione e l'identità individuale
poco sviluppata, ma anche la valutazione della sofferenza associata all'utilità
religiosa, se non alla gioia.
Due libri famosi,
Memorie da una casa di morti
di Dostoevskij e
Una giornata di Ivan Denisovich di Solzhenicyn, chiariscono
il concetto. Il valore di entrambi i testi risiede non solo nella protesta contro
le mostruose condizioni nei campi di lavoro, quanto nell'aver colto il principio
quasi mistico che governa il popolo russo, secondo cui attraverso la sofferenza
s'accede alla verità, nell'accezione cristiana.
Lontana dal buon senso
può apparire anche la pratica dell'esilio. Com'è stato possibile
che lo scienziato Andrej Sacharov, nel 1980, fosse mandato in confino da Mosca
in una delle più importanti città della Russia europea, Gor'kij,
e che ciò costituisse una vera punizione? Allora anche la popolazione
locale avrebbe dovuto ritenersi in esilio. Immaginatevi uno scienziato di New
York confinato a Chicago o uno scrittore parigino a Lione. In Russia però
l'esilio "funziona" grazie al cronico dislivello tra la qualità
della vita nella capitale e in provincia. L'esilio in pratica denuncia la trascuratezza
del Paese e smaschera l'incapacità dello stato di governare. La Russia
è immensa e l'esilio è una conseguenza della sua immensità.
In più c'è un clima terribile. La Siberia è il frigorifero
della Russia (rappresenta uno shock climatico persino per i moscoviti), è
una fermata nel tempo, una punizione che consiste già nel contatto con
gli ottusi dirigenti locali. Il concetto di esilio russo comprende il distacco
(dai familiari, dalle abitudini) e continui disagi fisici. L'esilio in epoca
zarista era, di regola, un privilegio riservato agli elementi progressisti della
società: studenti, rivoluzionari e scrittori. Tuttavia lo zarismo deportò
in massa anche i polacchi, a causa del loro separatismo rivoluzionario, molto
prima dell'avvento dello stalinismo, quando l'esilio si identificò con
un'unica destinazione: la Siberia. Con Stalin finirono in Siberia intere classi
sociali (i kulaki, i contadini divenuti proprietari terrieri all'inizio degli
anni '30) e interi popoli (polacchi, tedeschi, ceceni), e verso la fine si progettava
di confinare tutti gli ebrei in Estremo Oriente).
Il rapporto fra lavori forzati
(ovvero il Gulag, secondo l'interpretazione sovietica acronimo di "Direzione
generale dei campi di lavoro") ed esilio variava in base all'efferatezza
del regime e al tipo di crimine. L'arbitrio delle autorità restava imprevedibile.
La domanda principale che si ponevano i prigionieri politici era: "Cosa
ho fatto per meritarmi tanto?". Mandarono al confino il giovane Turgenev
per un anno e mezzo, a causa della pubblicazione, sfuggita al controllo della
censura, del necrologio scritto per Gogol. Dostoevskij patì 4 anni di
lavori forzati per la sua episodica partecipazione a un circolo di intellettuali
estremisti. Agli inizi anche il potere sovietico mandava al confino i cittadini,
ma dagli anni '30 il Gulag sostituì l'esilio. Si poteva finire nel Gulag
per qualsiasi motivo, e dal 1937 il terrore diventò una roulette russa:
per ordine di Mosca, una percentuale di persone per ogni città erano
spedite nei lager.
A questo punto, però, i lavori forzati diventarono
quasi un sogno seducente: altre centinaia di migliaia di persone erano infatti
fucilate sul posto. I lavori forzati erano una morte lenta, ma paradossalmente
coloro che hanno sperimentato l'inferno staliniano del Gulag, e sono scampati,
sono incredibilmente longevi: come se i tormenti patiti li avessero resi quasi
immortali. Il Gulag ha insudiciato l'etica del Paese che a buon diritto è
stato definito "il grande lager". La passione per lo stato perfetto
si è trasformata, ironicamente, nella corruzione nazionale, nella mafia,
nella violenza quotidiana. Il terrore dei lavori forzati s'è infiltrato
nella coscienza nazionale.
È difficile trovare un russo che sia soddisfatto
del potere, ecco perché ogni russo sa che deve mettere a seccare il pane
nero. Le leggi, anche oggi con Putin, sono concepite in modo tale che quasi
tutti, per sopravvivere, le infrangono.
Un tema a parte è il sadismo
russo. La lotta per lo stato perfetto ha autorizzato i governanti a diventare
i depositari della vita di milioni di persone. Il sadismo ha avuto un ruolo
molto più significativo nella vita di Ivan il Terribile e di Pietro I
che in quella di de Sade: il marchese, rispetto agli zar, era solo un modesto
teorico, anche se non privo di perspicacia. Tuttavia, il campione assoluto del
sadismo di stato fu Stalin. Nel 1937 elaborò una teoria che conduceva
alla pazzia: i nemici del popolo potevano nascondersi ovunque, i più
smaliziati anche tra chi diligentemente lavorava nel Partito.
Gli inquisitori
dell'NKVD ricevettero il mandato di resuscitare il Medioevo. La pena di morte
in Russia era il paradossale superamento della morte su scala statale: non si
eliminava un uomo, ma la sua presunta funzione antistatale, in modo che l'esecuzione
avvenisse in nome di un futuro radioso. Così lo stato usurpò l'esercizio
del Giudizio Universale. Non solo il progetto, rimasto irrealizzato, del tunnel
tra il continente e l'isola di Sakhalin, ma persino il covone di paglia di un
qualsiasi kolkhoz era ritenuto più rilevante della vita umana. Se si
guardano attentamente le fotografie delle sofferenze russe, ci si rende conto
da quale oscurità stia uscendo il mio Paese negli ultimi quindici anni.
Sembra un invalido. A mala pena si regge in piedi. Non somiglia agli altri Paesi:
dai suoi forni giunge ancora l'odore del pane nero. È facile scagliargli
contro le pietre, e molti lo fanno. Queste pietre gli daranno il colpo di grazia,
o lo trasformeranno nuovamente nell'Impero del pane nero. Ma né la decomposizione
della Russia, né il suo ostracismo, potranno aiutare il mondo a risolvere
i suoi problemi.
Traduzione di Marco Dinelli.