Nemici convenienti
Stranieri e migranti nelle prigioni d'Europa
di Loïc Wacquant
dal libro: "Simbiosi Mortale, Neoliberalismo e politica penale"
edizione "ombre corte", giugno 2002

Nel 1989, per la prima volta nella storia, la maggioranza della popolazione imprigionata negli Stati uniti era nera. A seguito di dieci anni di "guerra alla droga", lanciata dal governo federale come parte di una più ampia politica di 1egge e ordine", il tasso di incarcerazione degli afroamericani è raddoppiato passando da 3.544 carcerati per 100.000 abitanti nel 1985 a 6.926 per 100.000 nel 1995: questo significa un tasso di circa sette volte superiore a quello dei loro compatrioti di pelle bianca (919 su 100.000) e più di venti volte superiore a quello registrato in Francia, in Inghilterra o in Italia. Se poi si prendono in considerazione le persone soggette a regime di probation o rilasciate sotto condizione, risulta che più di un giovane nero su tre (e quasi due su tre nelle grandi città del Rust Belt) è sottoposto a supervisione del sistema di giustizia criminale. Questo fa della prigione e delle sue appendici il servizio pubblico a cui gli afroamericani hanno più facilmente accesso, molto al di là dell'educazione superiore o dei sussidi di disoccupazione. Basandosi sui dati del 1991, gli statistici del Dipartimento di Giustizia hanno calcolato che nel corso di una vita la probabilità complessiva per un afroamericano di finire in prigione (cioè di essere condannato ad almeno un anno di detenzione) supera il 28 per cento, a fronte del 16 per cento per un latino e del 4,4 per cento per un bianco (Bonczar, Beck 1997).
     Se è vero che i neri sono diventati i "clienti" principali del sistema carcerario degli Stati uniti, questo non è però dovuto a qualche speciale predisposizione che questa comunità manifesterebbe verso il crimine e la devianza. Al contrario ciò si verifica perché qui si intersecano tre sistemi di forze che nel loro complesso alimentano il regime di iperinflazione carceraria sperimentato dall'America nell'ultimo quarto di secolo, in seguito alla rottura del patto sociale fordista-keynesiano e alla contestazione del regime di casta da parte del movimento per i diritti civili. Queste tre forze sono rispettivamente: Questo porta a ritenere che, per quanto estrema, la traiettoria carceraria dei neri negli Stati uniti sia in realtà meno unica di quanto l'abusata teoria dell'eccezionalità americana" possa farci pensare. Si potrebbe perfino ipotizzare che, se cause identiche producono le medesime conseguenze, con ogni probabilità le società dell'Europa occidentale produrranno situazioni analoghe (anche se meno pronunciate), dal momento che anche queste si avviano verso una gestione penale della povertà e della disuguaglianza, e chiedono ai propri sistemi carcerari non solo di ridurre la criminalità, ma anche di funzionare come dispositivi per la regolazione dei segmenti più dequalificati del mercato del lavoro e per il contenimento di popolazioni considerate indegne, derelitte e indesiderabili. Da questo punto di vista, stranieri e quasi-stranieri sarebbero i "neri" d'Europa.
     Nei fatti, molti paesi dell'Unione europea hanno sperimentato un incremento significativo della loro popolazione carceraria, che ha coinciso con l'inizio di un'era di disoccupazione di massa e di flessibilizzazione del lavoro: fra il 1983 e il 1995 il numero di carcerati è passato da 43.000 a 55.000 in Inghilterra, da 39.000 a 53.000 in Francia, da 41.000 a 50.000 in Italia, da 14.000 a 40.000 in Spagna e da 4.000 a quasi 10.000 in Olanda e 7.000 in Grecia (Tournier, in corso di pubblicazione). Nonostante il ricorso periodico ad amnistie (per esempio in Francia nel giorno della Bastiglia, ogni anno a partire dal 1991) e le ondate di liberazioni anticipate che sono ormai divenute prassi comune (in Italia, in Spagna, in Belgio e in Portogallo), lo stock di carcerati del continente ha continuato a crescere e ovunque i penitenziari sovrabbondano di detenuti. Ma in Europa, sono soprattutto gli stranieri, gli immigrati cosiddetti di "seconda generazione" - che a voler essere precisi non sono immigrati -, persone di origine non occidentale e di altro colore che figurano tra le categorie più vulnerabili tanto sul versante del mercato del lavoro quanto su quello dell'assistenza pubblica (a causa della loro condizione di classe svantaggiata e dei molteplici processi di discriminazione di cui sono vittime), ad essere enormemente sovrarappresentati tra la popolazione carceraria: e questo a livelli assimilabili (e in alcuni casi perfino superiori) a quella "sproporzione razziale" che affligge i neri negli Stati uniti (vedi Tavola 1).
     È così che in Inghilterra, dove nella percezione pubblica così come nelle pratiche della polizia la questione della cosiddetta "criminalità di strada" tende ad essere confusa con la presenza visibile e con le rivendicazioni portate avanti dai sudditi dell'Impero che provengono dalle aree caraibiche, le probabilità di incarcerazione per i neri sono sette volte più elevate che per i bianchi o gli asiatici (e per le donne asiatiche occidentali la probabilità è di dieci volte più alta). Nel 1993, le persone di discendenza indiana occidentale, guyanese e africana costituivano l'11 per cento della popolazione incarcerata, mentre costituiscono appena l'1,8 per cento della popolazione del paese, di età compresa fra i 18 e i 39 anni. Questa sovrarappresentazione è particolarmente accentuata fra i prigionieri "messi dentro" per possesso o spaccio di sostanze stupefacenti (di cui più della metà sono neri) e per crimini contro la proprietà, dove la proporzione raggiunge i due terzi (Smith 1997; si veda anche Cashmore, McLaughlin 1991; Smith 1993).

Tavola 1. Stranieri nella popolazione carceraria dell'Unione Europea nel 1997
Paese Detenuti stranieri Percentuale sul totale (%)
Germania 25.000 34
Francia 14.200 26
Italia 10.900 22
Spagna 7.700 18
Regno Unito 4.800 8*
Belgio 3.200 38
Olanda 3.700 32
Grecia 2.200 39
Austria 1.900 27*
Portogallo 1.600 11
Svezia 1.100 26*
Danimarca 450 14
Nota: * Stima
(Fonte: P. Tournier, Statistique pénale annuelle du Conseil de l'Europe, Enquete 1997, Strasbourg, 1999)

Un fenomeno analogo è osservabile in Germania. Nella Renania del Nord per esempio, gli "zingari" di origine rumena esibiscono tassi di incarcerazione più di venti volte superiori a quelli dei cittadini tedeschi; per i marocchini il rapporto è di otto e per i turchi fra tre e quattro. E la proporzione di stranieri fra i detenuti in attesa di giudizio è passata da un terzo nel 1989 a metà cinque anni dopo. Nel Land di Hessen, il numero di carcerati stranieri è cresciuto ogni anno a partire dal 1987, mentre il numero dei cittadini tedeschi detenuti è diminuito di anno in anno. Questo aumento degli stranieri dietro le sbarre è determinato quasi interamente da violazioni della legge sugli stupefacenti (Albrecht 1995). Nei Paesi Bassi, dove la popolazione carceraria si è triplicata in 15 anni e comprendeva un 43 per cento di immigrati nel 1993, la probabilità di essere condannato al carcere senza sospensione condizionale della pena è sistematicamente più elevata per persone provenienti dal Suriname o dal Marocco, anche a parità di reato e senza considerare i casi di recidiva (Gunger Tas 1995).
     In Francia, la proporzione di stranieri sulla popolazione incarcerata è passata dal 18 per cento nel 1975 al 29 per cento vent'anni dopo (mentre gli stranieri costituiscono appena il 6 per cento della popolazione complessiva del paese), un dato che peraltro non tiene conto del pronunciato "sovraconsumo" carcerario di nazionali percepiti e trattati come stranieri dalla polizia e dal sistema giudiziario, come nel caso dei giovani figli di immigrati nordafficani o di coloro che provengono dai domini e dai territori coloniali francesi d'oltremare a maggioranza nera. Questo equivale a sostenere che le celle francesi si sono particolarmente "colorate" negli ultimi anni, dal momento che i due terzi dei circa 15.000 carcerati stranieri ufficialmente registrati nel 1995 provenivano dal nordafrica (53 per cento) e dall'africa subsahariana (16 per cento).
     La "sproporzione etnorazziale" che colpisce i residenti provenienti dalle ex-colonie deriva dal fatto che, a parità di reato, le corti optano più prontamente per l'incarcerazione quando il condannato non possiede la cittadinanza francese, mentre la sospensione condizionale della pena e le sanzioni alternative al carcere sono praticamente monopolizzate dai nazionali. Il demografo Pierre Tournier ha mostrato che, a seconda delle ipotesi di reato, la probabilità di essere condannati al carcere è per uno straniero da 1,8 a 2,4 volte più elevata che per un cittadino francese (considerando nel loro insieme tutte le persone processate e ignorando i precedenti penali). Inoltre, il numero di stranieri coinvolti nell'immigrazione illegale è cresciuto da 7.000 nel 1976 a 44.000 nel 1993. Ora, tre quarti di coloro che sono processati per violazione dell'articolo 19", relativo all'ingresso e al soggiorno illegale nel paese, vengono mandati dietro le sbarre: fra le 16 contravvenzioni giudicate più spesso dalle corti, questa è quella che più di frequente viene punita con una sentenza di condanna immediata al carcere: si tratta in realtà di una contravvenzione punita tanto severamente quanto un delitto. Ne consegue che, lungi dall'essere conseguenza di un ipotetico aumento della delinquenza straniera, come sostengono alcuni discorsi xenofobi, la presenza crescente dei migranti nella popolazione carceraria francese è dovuta esclusivamente al triplicarsi in venti anni delle incarcerazioni legate alla violazione della disciplina sull'immigrazione. In termini più concreti, se si escludono dalle statistiche carcerarie i prigionieri condannati per questa infrazione amministrativa, il livello di iper-incarcerazione degli stranieri rispetto ai cittadini francesi diminuisce da un fattore di sei a un fattore di tre (a uno). Come nel caso dei neri negli Stati uniti, prescindendo dal fatto che gli afroamericani sono quantomeno formalmente cttadini dell'Unione da almeno un secolo (aspetto questo che non può essere sopravvalutato), la sovrarappresentazione degli stranieri nelle prigioni francesi esprime non solo la loro composizione di classe svantaggiata, ma anche la maggiore severità delle istituzioni penali nei loro confronti e la "scelta deliberata di reprimere l'immigrazione illegale attraverso l'incarcerazione" (Tournier 1996). Ci confrontiamo infatti qui con qualcosa che è principalmente un confino di differenziazione o di segregazione, il cui scopo è mantenere un determinato gruppo sociale separato e facilitare la sua espulsione dal corpo sociale (esso si risolve sempre più spesso nella deportazione e nel bando dal territorio nazionale, chiaramente distinto dal "confino d'autorità" o dal "confino di sicurezza" ).
     Agli stranieri e ai quasi-stranieri imprigionati, spesso distribuiti in bracci separati secondo l'origine etnorazziale (come a La Santé, nel cuore di Parigi, dove i detenuti sono distribuiti in quattro padiglioni fra loro separati e ostili: "bianco", "africano", "arabo" e "resto del mondo") bisogna poi aggiungere le migliaia di migranti senza documenti o in attesa di espulsione, soprattutto in virtù della "doppia pena", i quali sono arbitrariamente detenuti in quelle enclavi di non-diritto sponsorizzate dallo Stato, le 49 "zone d'attesa" e i "centri di detenzione", proliferate negli ultimi dieci anni in tutta l'Unione europea. Come i campi per "stranieri indesiderabili", per i "rifugiati spagnoli" e per altri "agitatori", istituiti da Daladier nel 1938, i circa trenta centri di permanenza temporanea attualmente operanti sul territorio francese (erano meno di dodici appena 15 anni fa), sono altrettante prigioni sotto falso nome. E questo per una buona ragione: essi non fanno parte dell'amministrazione penitenziaria, i loro detenuti vi sono reclusi in violazione dell'articolo 66 della Costituzione francese (il quale stabilisce che "nessuno può essere detenuto arbitrariamente"), e le condizioni di detenzione vigenti violano palesemente la legge e i requisiti basilari della dignità umana. Questo è il caso, fra l'altro, dell'infame centro di Arenq, nei pressi del porto di Marsiglia, dove un hangar fatiscente costruito nel 1917 e privo dei requisiti indispensabili per ospitare degli esseri umani, serve a contenere circa 1.500 stranieri deportati ogni anno verso il nordafrica (Perrin Martin 1996).
     In Belgio, dove il numero di stranieri tenuti in custodia dall'Ufficio stranieri è cresciuto di nove volte fra il 1974 e il 1994, le persone immesse nei centri di permanenza per stranieri "in situazione di irregolarità" sono soggette all'autorità del Ministero degli Interni (responsabile per l'ordine pubblico) e non del Ministero di Giustizia. Sono pertanto omesse dalle statistiche relative al sistema penitenziario (Brion 1996). Cinque cosiddetti "centri chiusi" circondati da un doppio reticolo di filo spinato e sotto continua videosorveglianza, funzionano come aree di raccolta per la deportazione di 15.000 stranieri ogni anno. Questo è del resto il target ufficiale del governo, assunto come prova esplicita di un "realismo" sull'immigrazione giustificato con il fine ipotetico di sottrarre terreno all'estrema destra, che nel frattempo prospera come mai prima d'ora (Vanpaeschen 1998). In Italia, i provvedimenti di espulsione si sono quintuplicati in appena quattro anni, sino a raggiungere quota 57.000 nel 1994, sebbene tutto sembri dimostrare che l'immigrazione illegale è diminuita e che la grande maggioranza degli stranieri che non possiedono documenti sono entrati nel paese regolarmente per confluire nel "mercato nero" dei lavori rifiutati dalla popolazione locale (Palidda 1996). Questo venne implicitamente riconosciuto dal governo D'Alema quando aumentò di sei volte il numero dei permessi di soggiorno e lavoro inizialmente concessi come parte del programma di "regolarizzazione" lanciato all'inizio dell'inverno 1998.
     Più in generale, è ben documentato il fatto che le pratiche giudiziarie apparentemente più neutrali e di routine, a partire dalle decisioni riguardanti la detenzione preventiva, tendono a svantaggiare sistematicamente persone che sono o vengono semplicemente percepite come straniere. E la giustizia "a quaranta velocità", per prendere a prestito l'efficace espressione usata dai giovani che risiedono nelle fatiscenti case popolari di Longwy, sa fin troppo bene come calibrare le proprie pratiche quando si tratta di arrestare, perseguire e incarcerare i residenti delle aree stigmatizzate ad alta concentrazione di disoccupati e di famiglie formatesi dalla migrazione di lavoro del dopoguerra che si sono stabilite in quei vicinati che nel gergo ufficiale vengono designati come "sensibil". In effetti, nella vigenza delle disposizioni dei trattati di Maastricht e di Schengen, orientate ad accelerare l'integrazione giudiziaria così da assicurare l'effettiva "libertà di circolazione" dei cittadini europei, l'immigrazione è stata ridefinita dai paesi firmatari come una questione continentale (e quindi nazionale) di sicurezza, rubricata sotto lo stesso titolo della criminalità organizzata e del terrorismo, a cui è stata assimilata sotto il profilo sia discorsivo che amministrativo. È così che attraverso l'Europa le pratiche poliziesche, giudiziarie e penali convergono quanto meno per il fatto che si dispiegano con particolare diligenza nei confronti di persone dalle sembianze non europee, facilmente individuate e sottoposte all'arbitrio della polizia e del sistema giudiziario, al punto che si può parlare di un vero e proprio processo di criminalizzazione dei migranti che tende, per i suoi effetti destrutturanti e criminogenici, a (co)produrre proprio il fenomeno che si suppone debba contrastare, secondo il meccanismo ben noto della "profezia che si autoavvera" (Merton 1968). La conseguenza principale di questo processo di criminalizzazione è infatti quella di sospingere ulteriormente le popolazioni che ne sono rese oggetto nella clandestinità e nell'illegalità, e di alimentare il consolidamento di specifiche reti di socializzazione e di aiuto reciproco, oltre che di una vera e propria economia parallela sottratta a qualsiasi regolazione statale: risultato che a sua volta giustifica la particolare attenzione riservata a questi gruppi da parte delle forze dell'ordine.
     Questo processo è poi rinsaldato efficacemente dai mezzi di comunicazione di massa e da politici di ogni provenienza, ansiosi di cavalcare l'ondata xenofoba che ha attraversato l'Europa a partire dalla svolta neoliberista degli anni Ottanta. Autenticamente o per puro cinismo, direttamente o indirettamente, comunque in modo sempre più superficiale, essi sono riusciti ad amalgamare insieme immigrazione, illegalità e criminalità. Inscritto continuamente nella lista nera degli indesiderabili, sospettato in anticipo se non per principio, sospinto ai margini della società e perseguitato dalle autorità con zelo irrefrenabile, lo straniero (extracomunitario) si trasforma così in un "nemico conveniente" - per riprendere l'espressione coniata da Nils Christie (1986) - al tempo stesso simbolo e destinatario di tutte le insicurezze sociali, come lo sono gli afroamericani poveri nelle grandi città degli Stati uniti. La prigione, insieme con il marchio che essa inevitabilmente imprime, contribuisce così attivamente alla produzione di una categoria europea di "sub-bianchi" ritagliata su misura per legittimare una deriva verso la gestione penale della povertà che, attraverso un effetto "aureola", tende poi ad applicarsi a tutti gli strati della classe operaia minacciati dalla disoccupazione di massa e dalla flessibilizzazione del lavoro, indipendentemente dalla loro nazionalità.
     Da questo punto di vista, l'incarcerazione e il trattamento poliziesco e giudiziario degli stranieri e delle categorie loro assimilate (arabi e "beurs" in Francia, Indiani occidentali in Inghilterra, turchi e rom in Germania, tunisini e albanesi in Italia, africani in Belgio, surinamesi e marocchini in Olanda ecc.) costituiscono una vera e propria cartina di tornasole, una shibboleth per l'Europa (Bourdieu 1998). La loro evoluzione ci permetterà di comprendere fino a che punto l'Unione europea resisterà o invece si conformerà alla politica americana di criminalizzazione della povertà come corollario alla generalizzazione dell'insicurezza sociale e della precarietà salariale. Come il destino carcerario dei neri in America, essa ci offre un prezioso segno premonitore del modello di società e di Stato che si sta costruendo in Europa.

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