Tavola 1. Stranieri nella popolazione carceraria dell'Unione Europea nel 1997
Paese | Detenuti stranieri | Percentuale sul totale (%) |
Germania | 25.000 | 34 |
Francia | 14.200 | 26 |
Italia | 10.900 | 22 |
Spagna | 7.700 | 18 |
Regno Unito | 4.800 | 8* |
Belgio | 3.200 | 38 |
Olanda | 3.700 | 32 |
Grecia | 2.200 | 39 |
Austria | 1.900 | 27* |
Portogallo | 1.600 | 11 |
Svezia | 1.100 | 26* |
Danimarca | 450 | 14 |
Nota: * Stima |
Un fenomeno analogo è osservabile in Germania. Nella Renania del Nord per esempio, gli "zingari" di origine rumena esibiscono tassi di incarcerazione più di venti volte superiori a quelli dei cittadini tedeschi; per i marocchini il rapporto è di otto e per i turchi fra tre e quattro. E la proporzione di stranieri fra i detenuti in attesa di giudizio è passata da un terzo nel 1989 a metà cinque anni dopo. Nel Land di Hessen, il numero di carcerati stranieri è cresciuto ogni anno a partire dal 1987, mentre il numero dei cittadini tedeschi detenuti è diminuito di anno in anno. Questo aumento degli stranieri dietro le sbarre è determinato quasi interamente da violazioni della legge sugli stupefacenti (Albrecht 1995). Nei Paesi Bassi, dove la popolazione carceraria si è triplicata in 15 anni e comprendeva un 43 per cento di immigrati nel 1993, la probabilità di essere condannato al carcere senza sospensione condizionale della pena è sistematicamente più elevata per persone provenienti dal Suriname o dal Marocco, anche a parità di reato e senza considerare i casi di recidiva (Gunger Tas 1995).
In Francia, la proporzione di stranieri sulla popolazione incarcerata è passata dal 18 per cento nel 1975 al 29 per cento vent'anni dopo (mentre gli stranieri costituiscono appena il 6 per cento della popolazione complessiva del paese), un dato che peraltro non tiene conto del pronunciato "sovraconsumo" carcerario di nazionali percepiti e trattati come stranieri dalla polizia e dal sistema giudiziario, come nel caso dei giovani figli di immigrati nordafficani o di coloro che provengono dai domini e dai territori coloniali francesi d'oltremare a maggioranza nera. Questo equivale a sostenere che le celle francesi si sono particolarmente "colorate" negli ultimi anni, dal momento che i due terzi dei circa 15.000 carcerati stranieri ufficialmente registrati nel 1995 provenivano dal nordafrica (53 per cento) e dall'africa subsahariana (16 per cento).
La "sproporzione etnorazziale" che colpisce i residenti provenienti dalle ex-colonie deriva dal fatto che, a parità di reato, le corti optano più prontamente per l'incarcerazione quando il condannato non possiede la cittadinanza francese, mentre la sospensione condizionale della pena e le sanzioni alternative al carcere sono praticamente monopolizzate dai nazionali. Il demografo Pierre Tournier ha mostrato che, a seconda delle ipotesi di reato, la probabilità di essere condannati al carcere è per uno straniero da 1,8 a 2,4 volte più elevata che per un cittadino francese (considerando nel loro insieme tutte le persone processate e ignorando i precedenti penali). Inoltre, il numero di stranieri coinvolti nell'immigrazione illegale è cresciuto da 7.000 nel 1976 a 44.000 nel 1993. Ora, tre quarti di coloro che sono processati per violazione dell'articolo 19", relativo all'ingresso e al soggiorno illegale nel paese, vengono mandati dietro le sbarre: fra le 16 contravvenzioni giudicate più spesso dalle corti, questa è quella che più di frequente viene punita con una sentenza di condanna immediata al carcere: si tratta in realtà di una contravvenzione punita tanto severamente quanto un delitto. Ne consegue che, lungi dall'essere conseguenza di un ipotetico aumento della delinquenza straniera, come sostengono alcuni discorsi xenofobi, la presenza crescente dei migranti nella popolazione carceraria francese è dovuta esclusivamente al triplicarsi in venti anni delle incarcerazioni legate alla violazione della disciplina sull'immigrazione. In termini più concreti, se si escludono dalle statistiche carcerarie i prigionieri condannati per questa infrazione amministrativa, il livello di iper-incarcerazione degli stranieri rispetto ai cittadini francesi diminuisce da un fattore di sei a un fattore di tre (a uno). Come nel caso dei neri negli Stati uniti, prescindendo dal fatto che gli afroamericani sono quantomeno formalmente cttadini dell'Unione da almeno un secolo (aspetto questo che non può essere sopravvalutato), la sovrarappresentazione degli stranieri nelle prigioni francesi esprime non solo la loro composizione di classe svantaggiata, ma anche la maggiore severità delle istituzioni penali nei loro confronti e la "scelta deliberata di reprimere l'immigrazione illegale attraverso l'incarcerazione" (Tournier 1996). Ci confrontiamo infatti qui con qualcosa che è principalmente un confino di differenziazione o di segregazione, il cui scopo è mantenere un determinato gruppo sociale separato e facilitare la sua espulsione dal corpo sociale (esso si risolve sempre più spesso nella deportazione e nel bando dal territorio nazionale, chiaramente distinto dal "confino d'autorità" o dal "confino di sicurezza" ).
Agli stranieri e ai quasi-stranieri imprigionati, spesso distribuiti in bracci separati secondo l'origine etnorazziale (come a La Santé, nel cuore di Parigi, dove i detenuti sono distribuiti in quattro padiglioni fra loro separati e ostili: "bianco", "africano", "arabo" e "resto del mondo") bisogna poi aggiungere le migliaia di migranti senza documenti o in attesa di espulsione, soprattutto in virtù della "doppia pena", i quali sono arbitrariamente detenuti in quelle enclavi di non-diritto sponsorizzate dallo Stato, le 49 "zone d'attesa" e i "centri di detenzione", proliferate negli ultimi dieci anni in tutta l'Unione europea. Come i campi per "stranieri indesiderabili", per i "rifugiati spagnoli" e per altri "agitatori", istituiti da Daladier nel 1938, i circa trenta centri di permanenza temporanea attualmente operanti sul territorio francese (erano meno di dodici appena 15 anni fa), sono altrettante prigioni sotto falso nome. E questo per una buona ragione: essi non fanno parte dell'amministrazione penitenziaria, i loro detenuti vi sono reclusi in violazione dell'articolo 66 della Costituzione francese (il quale stabilisce che "nessuno può essere detenuto arbitrariamente"), e le condizioni di detenzione vigenti violano palesemente la legge e i requisiti basilari della dignità umana. Questo è il caso, fra l'altro, dell'infame centro di Arenq, nei pressi del porto di Marsiglia, dove un hangar fatiscente costruito nel 1917 e privo dei requisiti indispensabili per ospitare degli esseri umani, serve a contenere circa 1.500 stranieri deportati ogni anno verso il nordafrica (Perrin Martin 1996).
In Belgio, dove il numero di stranieri tenuti in custodia dall'Ufficio stranieri è cresciuto di nove volte fra il 1974 e il 1994, le persone immesse nei centri di permanenza per stranieri "in situazione di irregolarità" sono soggette all'autorità del Ministero degli Interni (responsabile per l'ordine pubblico) e non del Ministero di Giustizia. Sono pertanto omesse dalle statistiche relative al sistema penitenziario (Brion 1996). Cinque cosiddetti "centri chiusi" circondati da un doppio reticolo di filo spinato e sotto continua videosorveglianza, funzionano come aree di raccolta per la deportazione di 15.000 stranieri ogni anno. Questo è del resto il target ufficiale del governo, assunto come prova esplicita di un "realismo" sull'immigrazione giustificato con il fine ipotetico di sottrarre terreno all'estrema destra, che nel frattempo prospera come mai prima d'ora (Vanpaeschen 1998). In Italia, i provvedimenti di espulsione si sono quintuplicati in appena quattro anni, sino a raggiungere quota 57.000 nel 1994, sebbene tutto sembri dimostrare che l'immigrazione illegale è diminuita e che la grande maggioranza degli stranieri che non possiedono documenti sono entrati nel paese regolarmente per confluire nel "mercato nero" dei lavori rifiutati dalla popolazione locale (Palidda 1996). Questo venne implicitamente riconosciuto dal governo D'Alema quando aumentò di sei volte il numero dei permessi di soggiorno e lavoro inizialmente concessi come parte del programma di "regolarizzazione" lanciato all'inizio dell'inverno 1998.
Più in generale, è ben documentato il fatto che le pratiche giudiziarie apparentemente più neutrali e di routine, a partire dalle decisioni riguardanti la detenzione preventiva, tendono a svantaggiare sistematicamente persone che sono o vengono semplicemente percepite come straniere. E la giustizia "a quaranta velocità", per prendere a prestito l'efficace espressione usata dai giovani che risiedono nelle fatiscenti case popolari di Longwy, sa fin troppo bene come calibrare le proprie pratiche quando si tratta di arrestare, perseguire e incarcerare i residenti delle aree stigmatizzate ad alta concentrazione di disoccupati e di famiglie formatesi dalla migrazione di lavoro del dopoguerra che si sono stabilite in quei vicinati che nel gergo ufficiale vengono designati come "sensibil". In effetti, nella vigenza delle disposizioni dei trattati di Maastricht e di Schengen, orientate ad accelerare l'integrazione giudiziaria così da assicurare l'effettiva "libertà di circolazione" dei cittadini europei, l'immigrazione è stata ridefinita dai paesi firmatari come una questione continentale (e quindi nazionale) di sicurezza, rubricata sotto lo stesso titolo della criminalità organizzata e del terrorismo, a cui è stata assimilata sotto il profilo sia discorsivo che amministrativo. È così che attraverso l'Europa le pratiche poliziesche, giudiziarie e penali convergono quanto meno per il fatto che si dispiegano con particolare diligenza nei confronti di persone dalle sembianze non europee, facilmente individuate e sottoposte all'arbitrio della polizia e del sistema giudiziario, al punto che si può parlare di un vero e proprio processo di criminalizzazione dei migranti che tende, per i suoi effetti destrutturanti e criminogenici, a (co)produrre proprio il fenomeno che si suppone debba contrastare, secondo il meccanismo ben noto della "profezia che si autoavvera" (Merton 1968). La conseguenza principale di questo processo di criminalizzazione è infatti quella di sospingere ulteriormente le popolazioni che ne sono rese oggetto nella clandestinità e nell'illegalità, e di alimentare il consolidamento di specifiche reti di socializzazione e di aiuto reciproco, oltre che di una vera e propria economia parallela sottratta a qualsiasi regolazione statale: risultato che a sua volta giustifica la particolare attenzione riservata a questi gruppi da parte delle forze dell'ordine.
Questo processo è poi rinsaldato efficacemente dai mezzi di comunicazione di massa e da politici di ogni provenienza, ansiosi di cavalcare l'ondata xenofoba che ha attraversato l'Europa a partire dalla svolta neoliberista degli anni Ottanta. Autenticamente o per puro cinismo, direttamente o indirettamente, comunque in modo sempre più superficiale, essi sono riusciti ad amalgamare insieme immigrazione, illegalità e criminalità. Inscritto continuamente nella lista nera degli indesiderabili, sospettato in anticipo se non per principio, sospinto ai margini della società e perseguitato dalle autorità con zelo irrefrenabile, lo straniero (extracomunitario) si trasforma così in un "nemico conveniente" - per riprendere l'espressione coniata da Nils Christie (1986) - al tempo stesso simbolo e destinatario di tutte le insicurezze sociali, come lo sono gli afroamericani poveri nelle grandi città degli Stati uniti. La prigione, insieme con il marchio che essa inevitabilmente imprime, contribuisce così attivamente alla produzione di una categoria europea di "sub-bianchi" ritagliata su misura per legittimare una deriva verso la gestione penale della povertà che, attraverso un effetto "aureola", tende poi ad applicarsi a tutti gli strati della classe operaia minacciati dalla disoccupazione di massa e dalla flessibilizzazione del lavoro, indipendentemente dalla loro nazionalità.
Da questo punto di vista, l'incarcerazione e il trattamento poliziesco e giudiziario degli stranieri e delle categorie loro assimilate (arabi e "beurs" in Francia, Indiani occidentali in Inghilterra, turchi e rom in Germania, tunisini e albanesi in Italia, africani in Belgio, surinamesi e marocchini in Olanda ecc.) costituiscono una vera e propria cartina di tornasole, una shibboleth per l'Europa (Bourdieu 1998). La loro evoluzione ci permetterà di comprendere fino a che punto l'Unione europea resisterà o invece si conformerà alla politica americana di criminalizzazione della povertà come corollario alla generalizzazione dell'insicurezza sociale e della precarietà salariale. Come il destino carcerario dei neri in America, essa ci offre un prezioso segno premonitore del modello di società e di Stato che si sta costruendo in Europa.